mercoledì 2 febbraio 2005

sinistra
Bertinotti intervistato dopo le elezioni in Iraq
poi, il congresso ds ed altro...

Repubblica 2.2.05
IL COLLOQUIO
Senza archiviare la richiesta di ritiro immediato, il leader di Rifondazione considera un "fatto nuovo" l'appello all'Onu
Bertinotti, asse con il Professore "Così è sulla linea di noi pacifisti"
A Rutelli: La Margherita votò con noi per il rientro. Se ora ci ripensa, è un problema suo
A Casini Tra il governo e l'opposizione c'è il fossato della guerra. Non voglio pasticci
di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - La prospettiva del ritiro immediato resta in piedi: «È con la pratica dell'obbiettivo che si anticipa il risultato». Ma adesso può stare sullo sfondo, in secondo piano. Fausto Bertinotti infatti ancora una volta salda l'intesa con Romano Prodi, sta bene attento a non scavare un solco tra la federazione dell'Ulivo e l'intera alleanza di centrosinistra. Non sfascia, semmai cerca di tirare la coperta della politica estera più a sinistra. Il leader di Prc accoglie le parole del Professore sull'Iraq del dopo-elezioni come un «fatto nuovo, importante, una posizione che s'iscrive nelle battaglie delle forze pacifiste. E che fa bene al Paese e alla Gad». Giusto il riferimento all'Onu, giusto pensare al rientro delle truppe. Viene apprezzata soprattutto la conferma del giudizio sulla guerra: «Sbagliata», dice il leader dell'Alleanza.
È il passaggio chiave della dichiarazione di Prodi, grazie al quale regge l'unità dell'Alleanza democratica. Viene così respinto, secondo Bertinotti, il tentativo di disegnare una politica estera dei riformisti diversa da quella della sinistra radicale. E si esclude qualsiasi ipotesi di maggioranze trasversali in Parlamento sull'Iraq del dopo-voto. «Se la destra rinuncia alla guerra, se offre un segno chiaro di discontinuità, se dice che il conflitto è stato sbagliato, se capisce che accanto alla prova di democrazia, in Iraq c'è la contraddizione dei bombardamenti, dei morti, delle stragi...». Il segretario di Rifondazione fa l'elenco delle «condizioni» impossibili. L'augurio di Pier Ferdinando Casini rischia di rimanere tale. Ma la replica di Bertinotti al presidente della Camera è anche un messaggio agli alleati del centrosinistra, in particolare alla Margherita. «Dobbiamo ricordarci che tra il governo e l'opposizione c'è il fossato della guerra. Le convergenze in Parlamento sarebbero un pasticcio. Per me non solo non sono pensabili, non sono nemmeno auspicabili».
Questo momento dunque non assomiglia affatto ai giorni drammatici del rapimento delle due Simone, nessuna strategia bipartisan è realizzabile sulla guerra in Iraq, neanche dopo il voto di domenica. Si può invece «discutere, avviare una riflessione complessa, non lanciare anatemi» come sta facendo Dl in queste ore, anche con Francesco Rutelli che in un'intervista al Giornale ha detto: «Mi chiedo se chi nella Gad parla di elezioni truffa diceva le stesse cose quando le organizzava Saddam». Il presidente della Margherita arriva ad ipotizzare una svolta netta della posizione della Gad: basta parlare di ritiro, nessuno scandalo se come per il Kosovo si formano maggioranze trasversali più ampie. Parole che Bertinotti ha letto come l'ennesimo attacco a Rifondazione. «La Margherita ha votato per il ritiro delle truppe - spiega Bertinotti - . Tutte le opposizioni hanno firmato quel documento. Se qualcuno ora mena scandalo per la posizione che lui stesso ha assunto, beh, è un suo problema. Io dico solo questo: piegare quello che è successo in Iraq alle vicende italiane secondo me è poco esaltante. È un gioco a rimpiattino che ha perfino qualche aspetto di meschinità. Di fronte alla tragedia della guerra e a un popolo che si aggrappa alla possibilità di votare in condizioni proibitive, dovrebbe aprirsi una riflessione più complessa di quella del tipo "ha vinto questo, ha vinto quell'altro". Così si commenta una partita di calcio, non una situazione drammatica».
L'analisi di Bertinotti sul voto di domenica è che «le elezioni non danno luogo alla democrazia», che «è una malattia dell'Occidente confondere i mezzi con i fini», che «accanto alla forza della foto delle donne in fila per votare bisogna ricordarsi le immagini dei bombardamenti, delle stragi, dei morti». «È con queste contraddizioni che dobbiamo fare i conti, è la fuoruscita da questi problemi il vero obbiettivo». Dice che «in tutto il mondo nelle elezioni democratiche la cosa importante è il risultato. In Iraq invece diventa importante la partecipazione e nessuno si chiede qual è stato l'esito della votazione. Questo sottolinea che le elezioni non sono la soluzione di una questione gigantesca». Ecco, per Bertinotti il centrosinistra dovrebbe riflettere su questi temi. Lui non ha paura delle divisioni in Parlamento. «Sulla guerra l'opposizione si è spaccata molte volte, ma tante altre volte è stata unita spinta soprattutto dallo straordinario movimento per la pace italiano che è stato il più grande del mondo. Adesso dovrebbero spiegarci perché si deve cambiare. Si può discutere anche di una nuova mozione parlamentare nuovo, che prenda le mosse dal ritiro delle truppe che hanno fatto la guerra e dal coinvolgimento dell'Onu. Ma lanciare anatemi non è la strada giusta».

Il Gazzettino di Venezia 2.2.05
Rifondazione, al Lido le assise nazionali


Inizia a delinearsi il risultato dei congressi dei circoli di Rifondazione Comunista, in vista delle assise nazionali convocate per il 3-6 marzo al Lido di Venezia. Al momento si sono espressi il 41,6 per cento degli iscritti ai 2000 circoli del partito.
I dati diffusi dall'area dell'Ernesto danno in largo vantaggio la prima mozione (quella di Fausto Bertinotti), che al momento può contare sul 57,3 per cento di consensi, contro 26,8 della seconda mozione (quella, appunto, dell'Ernesto che ha come primi firmatari Claudio Grassi e Giovanni Pesce). Le altre tre mozioni hanno ottenuto rispettivamente il 6,6, il 7,5 e l'1,8.
In totale, quindi, l'area dell'opposizione interna, anche se molto frammentata, ha un alto consenso, poco meno del 43 per cento.
Forse porprio per tenere a freno l'opposizione interna, Bertinotti spinge sulla sua candidatura alle primarie della Gad in laternativa a Romano Prodi. «Ci sono degli inviti che non sono ricevibili» ha risposto il leader di Rifondazione comunista a chi gli chiedeva se il congresso dei Democratici di sinistra dovesse rivolgergli esplicitamente la richiesta di non candidarsi alle primarie.

Liberazione 2.2.05
La sfida dei Ds: il primato a sinistra
di Rina Gagliardi


Un congresso - se possiamo parafrasare i celebri versi di Elizabeth Barrett Browning dedicati alla rosa - è, in fondo, nient'altro che «un congresso, un congresso e un congresso». Ovvero, un evento politico largamente predeterminato, che conclude un lungo percorso più o meno accidentato e ne formalizza gli esiti con la dovuta solennità. Non sfugge a queste regole ovvie il terzo Congresso nazionale dei Ds, che inizia domani a Roma: dove, all'apparenza, tutto è già noto. Noto è il nome del nuovo segretario, Piero Fassino, che si avvia, dopo tre anni ad una riconferma quasi plebiscitaria. Nota, più o meno, è la fisionomia del nuovo gruppo dirigente - e con esso la riconferma, al di là del ruolo formale ricoperto, del «peso specifico» di due personalità politiche quali Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Nota, infine, è anche la linea politica: il varo della futura «Federazione riformista», cuore e motore della Gad (o come si chiamerà), l'investitura di Romano Prodi alla guida della coalizione che sfiderà Berlusconi (prima nelle regionali e poi nelle prossime elezioni politiche), insomma la proposta, confortata da molti positivi segnali, dell'avvio di una nuova fase di governo dell'Italia. Tutto dunque scontato? Nella misura sommariamente detta, sì - e difficilmente il palazzo della Lottomatica ci riserverà sorprese o suspence. Ma, da un altro punto di vista, questo Congresso è in fondo tutto da scrivere.
In questi ultimi anni, il maggior partito della sinistra moderata si è sostanzialmente caratterizzato per la collocazione dichiarata e, talora, praticata: una ricerca quasi ossessiva di "centralità". La Quercia, insomma, come collante effettivo dell'opposizione, sia in virtù della sua vocazione mediatrice - o mediana - sia come effetto "naturale" dei rapporti di forza esistenti: se Fassino ha incarnato soprattutto il primo lato, nutrito anche e soprattutto di lavoro e presenza indefessa, D'Alema è apparso (anche e proprio in questi giorni) come il peculiare rappresentante del secondo (il più legato alla vicenda storica della sinistra italiana, e ad una vecchia arroganza dura a morire, anche a quindici anni di distanza dalla Bolognina).
La Quercia, alla fin fine, come l'unico partito strutturato, dotato di legami ed insediamenti di massa, nonchè di un consenso elettorale a doppia cifra: e che dunque legittima, su questa base concreta, le sue aspirazioni a guidare (in altre epoche si sarebbe detto: ad egemonizzare) il processo che dovrebbe portare il Paese, nell'arco di una quindicina di mesi, a liberarsi del centrodestra.
Ora, non saremo noi a negare la legittimità politica di queste aspirazioni, più o meno dichiarate. E tuttavia, appunto, qui il Congresso dovrebbe proprio incominciare. E, se è lecito dirlo, in qualche modo stupirci - sorprenderci o smentirci. Giacchè tutti gli (irrisolti) nodi dell'identità riformista possono esser sciolti in due direzioni tra di loro sostanzialmente diverse.
La prima strada corrisponde alla tentazione più facile: esalta, cioè, quella vocazione iperpolitica, o ipertattica, in base alla quale i Democratici di sinistra sono "centrali" ma non entrano quasi mai davvero nel merito dei grandi (e dei medi) problemi. Una scelta che finisce, fatalmente o inconsapevolmente, a farli assomigliare alla vecchia Dc: alla sua parte migliore, se volete, comunque ad una forza politica molto eclettica, che tiene insieme soggettività e visioni del mondo molto lontane (dal pacifismo al filobushismo, per dire) e costruisce a vista, ogni volta che è necessario, una "sintesi" giocoforza molto provvisoria. Oppure, produce, ogni volta che può, soluzioni tipiche dell'autonomia del Politico. Non capita di avvertirle anche nella conaca recente? Di fronte al pericolo di esser schiacciati tra le identità più nette sia di Prodi (in quanto leader) sia della Margherita (a destra) sia di Rifondazione comunista (a sinistra), i Ds propongono (fanno balenare) la "vicepremiership" dell'esecutivo Prodi e, magari, una composizione del futuro governo di centrosinistra molto squilibrata a loro vantaggio. Ecco un esempio concreto di scorciatoia politicistica, che potrebbe funzionare (forse) dal punto di vista della distribuzione dei poteri, ma non farebbe avanzare di un millimetro la questione di fondo: al servizio di quali riforme, di quali interessi, di quale blocco sociale, si pone il conclamato "riformismo" del presente.
L'altra strada - ce ne rendiamo conto - è più difficile. Implica la volontà di un vero bilancio critico dell'ultimo decennio, tanto è (quasi) trascorso da quel primo "congresso tematico" che si caratterizzò per l'adesione della Quercia all'orizzonte del mercato e del neoliberismo, ed ebbe il suo clou nello scontro frontale tra Massimo D'Alema e Sergio Cofferati: non ha detto più volte lo stesso presidente diessino che questa adesione è stata sostanzialmente "acritica"? E richiede quasi altrettanta volontà di imprimere all'attuale scolorita identità riformista un vero e proprio contenuto riformatore.
Va da sè che la differenza è tutto fuorchè nominalistica. Si tratta di scelte effettive e significative - sulla pace, il modello di sviluppo, il ruolo dell'Europa, i diritti politici e sociali. Al fondo, si tratta di decidere non solo con quali "poteri forti" stipulare un'alleanza - per esempio, la Confindustria non berlusconiana di Luca di Montezemolo - ma con quale funzione di "comando" della politica, e nella direzione di quale blocco di interessi da costruire. Fin qui, il riformismo - non solo quello di Rutelli, ma del gruppo dirigente diessino - è apparso subalterno proprio a questa logica tradizionale. Ma se i Ds provassero invece a cimentarsi con questa possibilità di esercizio effettivo di un primato? Se volessero diventare il partito-guida della sinistra che vuol cambiare? Come si diceva una volta: se fossero rose, fiorirebbero...

Intanto Lella Bertinotti, a proposito di Bob Marley, dichiara a La Stampa:

Fausto Bertinotti ha mutuato un amore familiare. Dice Lella, la moglie. «Fausto è un appassionato di reggae perché lo ha imparato da nostro figlio Duccio che ha un gruppo a Roma “One Love”, un negozio a San Lorenzo e uno in Giamaica tutto dedicato a Marley. Per me no, come mamma avrei preferito mio figlio noioso, con un lavoro sicuro, con la riga da una parte e gli occhiali». Invece Fausto ne è felice, Duccio gli ha aperto un universo: «Marley ha accompagnato l’ingresso di una generazione nel mondo. La musica di una terra e di un popolo che ha saputo parlare il linguaggio universale della liberazione, esplorando radici profonde e costruendo miti. Per questo il cantante profetico continua a vivere nel nostro tempo».