martedì 22 marzo 2005

risultati della ricerca Usa:
per la felicità? amicizia e gratitudine...

Repubblica 21.3.05
Più bontà che farmaci, la frontiera della felicità
Gli scienziati americani alla ricerca di un salto di qualità ma si scopre che è più facile la lotta contro la depressione
LAURA KISS

C’è chi parla di nascita di una nuova scienza, chi invece sostiene che la ricerca della felicità sia connaturata nei geni dell’uomo. Fatto sta che nel mondo accademico della psichiatria e della psicologia c’è un nuovo fermento, una corsa generale per misurare il grado di felicità degli esseri umani. Finora la gran parte degli studiosi si è accontentata di studiare i fenomeni dell’infelicità come ansia, depressione, ossessione, nevrosi, paranoia. Il lavoro svolto finora dagli esperti è stato di cercare di portare pazienti affetti dal mal de vivre da una soglia di sofferenza di "5" al livello 0, ossia all’assenza del malessere. Oggi invece la sfida dei guru della psicologia è di riuscire a far provare ai propri pazienti cosa sia la felicità, quantificando il livello da raggiungere in un "+5".
Come si fa? Per prima cosa riunirsi all’ombra delle palme da cocco a guardare il mar dei Carabi messicano è sembrato a Martin Seligman, professore di psicologia all’università di Pennsylvania, un buon inizio. Ha convocato, come presidente dell’American Psychology Association, esimi colleghi con i quali per una settimana si è interrogato su cosa rende davvero soddisfatti e felici gli esseri umani. «La salute mentale dev’essere qualcosa di più che l’assenza di disturbi mentali», sostiene Seligman. «Fino a poco tempo fa le ricerche sulla felicità sono state davvero pochissime, tutti gli sforzi infatti si sono concentrati sullo studio dei fenomeni della sofferenza. Oggi ci stiamo interessando alle cause che possono rendere felici e stiamo scoprendo realtà davvero interessanti». Uno degli esperti convocati ad Akumal da Seligman si è addirittura conquistato il titolo di "Dottor Felicità": si tratta di Edward Diener, professore di psicologia dell’università dell’Illinois che da vent’anni studia le cause della felicità e dell’infelicità. Il primo risultato che è emerso dalle ricerche condotte da Diener e Seligman è che una volta soddisfatti i bisogni primari le persone non diventano più felici conquistando ulteriore benessere. Neppure la salute o il poter accedere ad una buona educazione universitaria aiutano a far aumentare il livello di felicità, tanto meno l’ottenimento di maggiori benefici materiali, perché molto spesso la gente dà per scontata l’acquisizione di questo status. E nemmeno la gioventù aiuta, anzi: una ricerca del Centro di controllo per la prevenzione delle depressioni del Ministero della salute americano ha rilevato che i ragazzi tra i 20 e i 24 anni sono tristi in media per 34 giorni al mese, mentre gli anziani tra i 65 e i 74 anni passano momenti di depressione soltanto per 23 giorni al mese.
Ma allora cos’è che ci può aiutare a diventare un po’ più felici? Non certo i farmaci, che aiutano a superare i momenti di crisi, nei casi di patologie gravi si rendono indispensabili ma non portano alla felicità. Sembra che il segreto sia in due parole: amicizia e gratitudine. I risultati delle ricerche raggiungono lo stesso risultato: chi condivide il proprio tempo con gli amici avendo obiettivi comuni riesce a sentirsi più felice e allo stesso tempo sviluppa un senso di gratitudine per la vita che sembra essere davvero la killer application per superare la depressione e provare gioia di vivere. Anche per Ruut Veenhoven professore di studi sulla felicità all’università Erasmus di Rotterdam e direttore del Journal of Happiness Studies i risultati delle ricerche portano alle medesime conclusioni, con alcune curiosità in più, come il fatto che chi beve uno o due bicchieri di vino al giorno sembra essere più felice di chi non lo fa o di chi abusa dell’alcool. Anche gli esercizi di gratitudine aiutano moltissimo, addirittura migliorano spesso lo stato di salute di chi li pratica e aumentano il livello di energia fisica e mentale diminuendo la percezione della fatica e del dolore, come risulta da studi condotti all’università di California da Robert Emmons. «Anche soltanto fare una visita ai nonni o ai genitori per alleviare la loro solitudine ha effetti benefici sull’umore di chi la fa: i risultati durano anche per un mese».