martedì 1 marzo 2005

su AVVENIMENTI
un articolo di Bonito Oliva su Munch
e un altro di Simona Maggiorelli

Da Avvenimenti numero 7
Si apre il 10 marzo al Vittoriano di Roma l’antologica dedicata al pittore norvegese
MUNCH
Le forme del dolore

di Achille Bonito Oliva

All’impersonalità entusiasta dell’impressionismo avevano già dato risposta Van Gogh e Gauguin. Al loro lavoro si aggancia il lavoro di Edvard Munch (1836-1944) e poi degli Espressionisti che riporta sulle motivazioni del soggetto la sostanza morale del bisogno creativo. Un bisogno accentuato dall’urgenza di ripristinare una lacerata centralità dell’individuo mortificata dallo sviluppo dell’industrializzazione e dell’abnorme crescita della città, agglomerato artificiale rispondente soltanto a motivazioni riproduttive ed economiche. La città e il teatro della messa in posa sociale dell’uomo che indossa le maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione e della repressione. Verso l’abnormità di questa realtà l’artista si sente minore sul piano della quantità sociale che invece accetta supinamente il grado negativo dell’esistenza, maggiore sul piano della quantità morale in quanto capace di ripristinare le ragioni del soggetto seppure ferito e dissociato per un paradossale eccesso di consapevolezza e di sensibilità. Per far questo l’artista adotta una strategia particolare, quella dell’enfasi espressiva capace di dilatare al massimo la presenza del soggetto: l’urlo munchiano contro il silenzio supino della società e anche il mistero di un universo che accoglie nello stesso tempo l’innocenza della natura e le contraddizioni della storia, la melanconia dell’adolescenza già minacciata dall’ombra sospetta del futuro incombente.
Una perplessità alla Degas.
Una sorta di procedimento di irradiazione narcisistica esasperata del soggetto sull’oggetto, sull’opera realizzata. L’alterazione enfatica del segno rispetta la conformazione di uno spazio che non cerca l’illusione della duplicazione delle cose. Lo spazio è introspettivo e come tale non ha bisogno di altra profondità che non sia quella bidimensionale sul foglio. Siamo davanti a una messinscena, ma non necessariamente a una mistificazione. Ai mezzi riproduttivi di una società frutto di cultura positivistica, Munch contrappone quelli tradizionali dell’arte che riafferma la propria centralità che il momento storico in cui tende a negare. Paradossalmente sotto l’uso regressivo dell’enfasi espressiva, cova una grande consapevolezza culturale che porta a un intreccio con le scienze umane, la psicoanalisi e l’antropologia culturale, seppure realizzato spesso per sintonia e istinto verso il teatro: Ibsen e Strindberg per i quali realizza manifesti per le loro piéces teatrali. L’arte diventa la fondazione di un modello liberatorio che ripara le ferite ed esalta i motivi proliferanti della profondità della psiche, strutturata sugli stessi principi organici della natura.
Munch sta nella coscienza della propria minorità, rispetto alla brutale e banale maggiorità del mondo visibile, adotta lo stile, come modo di essere. Dell’enfasi capace di auscultare la profondità; un procedimento di dilatazione psicologica, attraverso l’adozione di tecniche artigianali che non a caso possono ricordare il medioevo, epoche primitive, istanze religiose, per segnalare l’emergenza sentimentale di un soggetto negato come totalità. Le tecniche artigianali di riproduzione dell’immagine, come la xilografia, rifondano l’unità del processo produttivo messo in crisi dall’avvento della macchina che tende a parcellizzare il lavoro e a standardizzare il prodotto.
All’artificio di tali tecniche riproduttive l’arte di Munch risponde con la naturalezza dei procedimenti artigianali e con la naturalezza di un linguaggio che asseconda la natura sentimentale del soggetto creativo, il quale cerca forme espressive non paralizzanti ma semmai flessibili ed armoniche con i propri bisogni. All’anemia di una realtà incolore l’artista risponde con la rappresentazione di un’altra malattia, quella dell’esuberanza, attraverso cui compensare la sproporzione quantitativa che lo sovrasta. La temperatura incandescente dell’opera gli dimostra che l’arte è un procedimento che, pur adottando proprie regole interne,crea dei varchi nell’opacità del quotidiano e introduce una diversa visibilità del mondo. Uno stato di ipersensibilità arma la mano dell’arista che s’inabissa prima dentro si sé, dentro le proprie pulsioni, e poi riemerge nella zona solare della forma dove tutto diventa rappresentazione e nulla resta taciuto. Munch diventa l’eroe che si autorizza tutto da solo a usare armi impari. A produrre colate di immagini che entrano nelle fessure del mondo. Da qui la violenza non soltanto del segno, necessaria per spostare l’inerzia del
corpo sociale dal piano orizzontale e statico della convenzione razionale a quello inclinato e dinamico della visionarietà e di una visibilità spirituale. La frammentarietà è il sintomo di una mentalità che non vuole opporre a un ordine un altro ordine, che non vuole creare una simmetria tra la necrofila convenzione sociale e la mente di una nuova forma seppure artistica. Al contrario essa è il segno di un universo linguistico aperto e continuamente arricchito dalla conflittualità permanente, quella di una sensibilità neoumanistica che vuole ridare centralità all’immaginario. Qui l’immaginario attraversa tutte le culture e non si arresta rispetto ai buchi neri di quella occidentale, anzi nella coscienza della propria mentalità trova solidarietà in altre culture ritenute minori o minorizzate dalla superbia logocentrica di quella europea. In definitiva la lingua dell’arte è l’unica in grado di formulare parole visive capaci di attraversare ogni differenza etnica, sociale e religiosa, in quanto essa stessa si pone nella condizione di poter totalizzare dentro di sé ogni possibilità e ogni impossibilità. I modi sono quelli di un linguaggio che accetta ogni condizione e non crede più ai piani alti e bassi della cultura, che vuole colmare ogni scissione. Per farlo Munch adotta lo stile della scissione, la frantumazione del segno, l’alterazione dell’elegante e del garbo, accetta l’accento forte di un’espressione che vuole farsi sentire in tutte le sue lacerazioni. Enfatizzare significa compiere una sana operazione di regressione infantile che consiste nel porre il proprio io al centro del mondo, in un contesto che ipocriticamente sembra invece celebrare il mito collettivo del noi. La forza sta nel non aver posto un io monumentale e monolitico. Destituita dal suo consueto funzionamento quello di vicolo di senso, l’opera di Munch acquista l’arbitrio e la necessità di essere capriccio. Descrizione di stati interni della sensibilità, che non significa però condizione psicologica. Un distaccato erotismo, che confina con l’estetismo, regge la composizione. Il suo dato esplicito è reso dalla miniaturizzazione dell’evento ornamentale che avvolge la figura e fa dilagare verso i bordi dell’opera, creando una connessione, e un processo di crescita che agisce in tutte le direzioni della composizione. Fisso e centrale resta il volto, disegnato e dipinto in maniera decisa e precisa mentre il corpo è attraversato da una perturbazione stilistica che ne dissolve i contorni e ne stabilisce l’integrazione con lo sfondo.
L’opera finalmente perde ila sua compostezza tradizionale, la rigidità di un’arte come unità ideale garantita dello stile. L’immagine è il risultato di una tensione tutta giocata su di una peripezia di piacere che arriva ad un punto di estenuazione tale da assottigliare la consistenza figurativa ribaltandola in una trama astratta. L’uso della metonimia promette all’immagine di assumere un senso mobile che sorge progressivamente dall’economia interna del linguaggio, mediante assonanze visive e passaggi di segni che connotano lo spazio come campo. Luogo potenziale di relazioni mobili. La veracità della vita ormai è un sogno perduto e dunque è possibile viverla soltanto attraverso le mentite spoglie della forma. L’opera di Munch e la rappresentazione di spoglie stilistiche, in cui non esistono passato e presente ed ogni tempo è pareggiato nella visione superficialistica di un linguaggio raggomitolato e espanso divenuto esso stesso ombra di eco di un centro perduto.

Da Avvenimenti numero 7
Il Napalm in Iraq
La denuncia della parlamentare laburista Alice Mahon: armi non convenzionali per mettere in ginocchio Falluja. Un’interrogazione parlamentare di ventisei deputati italiani.
di Simona Maggiorelli

Che cosa è accaduto realmente a Falluja durante l’attacco da parte delle truppe della coalizione? La questione è ancora tutta da indagare secondo Alice Mahon, la parlamentare del Labour party che l’ha sollevata, mettendo sotto pressione il governo Blair, chiedendo in maniera sempre più incalzante se le truppe angloamericane abbiano utilizzato il napalm. Una domanda a cui non è ancora stata data una risposta convincente, che sgombri il campo dai dubbi. Anche perché ormai sono davvero tante e autorevoli le denunce e le inchieste, apparse su testate arabe, ma anche pubblicate autonomamente da giornali e agenzie di stampa inglesi, tedesche e americane. E la domanda, il bisogno di sapere contagia, si allarga, specie fra chi, non avrebbe mai voluto questa guerra. Coinvolgendo anche l’Italia e le forze di opposizione al governo Berlusconi. Cosa sa il governo italiano del possibile uso di un’arma non convenzionale come il napalm?
Un’interrogazione parlamentare, anche a partire dalle notizie riportate la settimana scorsa da Avvenimenti, è stata fatta dalla deputata del Prc Elettra Deiana e dal deputato della sinistra ds Alfiero Grandi e firmata da ventisei deputati dell’Unione. "Molte persone che erano a Falluja hanno detto di aver visto una quantità di corpi bruciati con i segni caratteristici che lascia il napalm", dice Alice Mahon, laburista di quell’ampia area del partito di Blair che fin dall’inizio si è schierata contro la guerra in Iraq. Per il Labour party ha svolto missioni internazionali; di recente è stata osservatrice delle elezioni in Ucraina. "La Gran Bretagna - dice la parlamentare inglese - ha firmato il protocollo dell’Onu che mette al bando il napalm, ma gli Usa non lo hanno fatto". E aggiunge: "Come membri di una coalizione siamo ugualmente responsabili". Responsabili di morti atroci, con la famigerata miscela di gas, sali di alluminio e benzina o altri derivati del petrolio, di cui gli Usa fecero ampio uso durante la guerra del Vietnam. E che ora l’esercito americano in Iraq, per stessa ammissione di graduati dell’esercito Usa, utilizzerebbe in formula aggiornata, "a basso impatto ambientale". Per distruggere l’umano, ma senza inquinare, insomma. Nel contesto di una guerra cominciata per togliere a Saddam quelle armi chimiche di cui poi non si è mai trovato traccia.
Ma il governo britannico, ancora nega, fra non poche incongruenze. Alla lunga fila di interrogazioni sollevate da Alice Mahon e da altri parlamentari inglesi, solo stringate o evasive risposte da parte del governo Blair. Una storia che si può ricostruire dai verbali delle sedute del parlamento inglese pubblicate nel sito internet. La prima interrogazione della parlamentare laburista è del 29 novembre dell’anno scorso. Una domandina secca, in calce a un discorso sulle elezioni in Ucraina: "Durante la conferenza di Sharm el-Sheikh, qualcuno ha parlato di uso di napalm o derivati da parte delle forze della coalizione?" chiede Mahon. "Non mi è stato riferito nulla in proposito", liquida la faccenda il ministro degli Esteri Straw. La parlamentare del Labour torna alla carica agli inizi di dicembre, riformulando la domanda. Questa volta è Ingram a risponderle: "No -
dice - il napalm non è mai stato usato in Iraq dalle forze di coalizione, né durante la guerra, né in altri fasi delle operazioni più recenti".
Bugia palese, stando a quanto è uscito sui giornali inglesi e americani fin dall’agosto 2003. Sull’Independent, il 10 agosto di due anni fa
usciva un articolo di Andrew Buncombe in cui si diceva a chiare lettere: "gli Usa ammettono di aver usato il napalm in Iraq". Il giornalista basa la sua inchiesta su dichiarazioni di piloti e graduati della Marina americana. Il Pentagono nega. Intervistato da Buncombe il colonello James Alles, comandante dell’undicesimo Marine Air Group ammette: "Abbiamo bombardato con il napalm i ponti sul canale Saddam e sul fiume Tigri, nel sud di Bagdad". E poi aggiunge: "purtroppo c’erano delle persone, lì abbiamo visti nel video, erano dei soldati iracheni. Non è un bel modo di morire. Ma i generali amano il napalm. Ha un effetto psicologico molto forte". Già, la pelle che brucia, corpi che sembrano fondere per potere abrasivo del micidiale cocktail messo fuori legge da una convenzione internazionale del 1980, che gli Usa non hanno sottoscritto. Un altro attacco al napalm del 21 marzo 2003 viene raccontato sul Sydney Morning Herald "La collina di Safwan - scrive l’inviato - vicina al confine con il Kwait è andata completamente a fuoco. “Ho pietà di chiunque fosse là sotto”, dice un sergente dei Marins, “li avevamo avvertiti di arrendersi”". Il San Diego Union Tribune, sempre nell’agosto 2003 riporta la testimonianza del Maggiore dei Marins Jim Amos che conferma l’uso di naplm in più occasioni durante l’invasione in Iraq. Ma è nell’inchiesta dell’Indipendent che esponenti del Pentagono parlano di operazioni chirurgiche, "a basso impatto ambientale", eseguite non con il napalm direttamente ma con bombe derivate, le cosiddette bombe incendiarie Mark 77 . Sullo stesso giornale John Pike del Global Security Group commenta: "Puoi chiamarlo in un altro modo ma è sempre napalm. È stato riformulato, nel senso che ora utilizzano un differente distillato di petrolio come base, ma al fondo è sempre quello. Gli Stati Uniti sono uno dei pochi paesi - aggiunge - che abbiano fatto largo uso di napalm, non ho notizie di altri paesi che lo facciano".
Questo accadeva più di un anno fa. E a Falluja nel novembre scorso? È perché si sono usati napalm e altre armi non convenzionali che non si è permesso e non si permette a giornalisti e media di indagare da quelle parti? Nel parlamento inglese la domanda è stata sollevata l’8 dicembre, questa volta dalla parlamentare Jenny Tonge. La risposta tarda e il 21 dicembre Alice Mahon lancia in Parlamento il suo affondo più duro: "Visto che - dice la deputata inglese - abbiamo la possibilità di fare domande, ma non ci viene permesso di aprire una discussione, voglio dire che questa guerra è illegale. È stata ingaggiata su false premesse. È, e resta, un’operazione dai costi altissimi, finanziari e umani. Una guerra che ha incrementato il terrorismo a livello internazionale". E poi lancia una stoccata a Blair: "Andare a Bassora e nella green zone come ha fatto il nostro primo ministro, non è andare a visitare l’Iraq: mi piacerebbe vedere un primo ministro che parla con qualche rifugiato di Falluja. In quanti sono morti in quella città? La battaglia di Falluja è la battaglia che
non siamo stati autorizzati a vedere. È la battaglia che avrebbe dovuto portare la democrazia in Iraq". Tanto, che arrivati alle elezioni, non ha partecipato al voto, perché area, troppo inquieta e ribelle. "Che fine hanno fatto - incalza Mahon - gli sfollati che hanno lasciato la città? Perché non ci sono immagini delle persone che ancora vivono a Falluja, alcuni in condizioni davvero estreme? Che tipo di armi sono state usate là? Gli americani hanno ammesso di usare una sostanza simile al napalm quando cominciò l’invasione. Abbiamo avuto testimonianze, in particolare dalla Reuters, che armi veramente terribili sono state impiegate dalle truppe americane. Ho cercato più volte di ottenere una risposta qui, in parlamento, ma invano. Al-Jazeera è stata messa alla porta prima della seconda battaglia a Falluaja, così non ci sono state fonti d’informazione affidabili". Poche le testimonianze dalla zona di Falluja , eccetto che dagli “embedded”. Un giornalista americano, Michael Schwartz, ha scritto il 16 dicembre scorso: "L’agghiacciante realtà di ciò che la città è diventata, comincia solo ora a venir fuori, mentre le forze militari americane continuano a bloccare quasi tutti gli accessi alla città, impedendo a tutti, reporter, cittadini, organizzazioni come la Mezzaluna rossa di entrare". "Ci sono checkpoints a tutte le cinque entrate - prosegue - controllati dalle truppe americane. Chiunque voglia entrare viene fotografato, gli vengono prese le impronte digitali e il colore degli occhi viene registrato. Tutto viene trascritto su un documento di riconoscimento". E mentre per i reporter americani l’intera operazione non richiede più di dieci minuti, per tutti gli altri, compresi i cittadini le operazioni sono lunghe e non è permesso girare senza una targhetta di riconoscimento. "È come creare un ghetto - ha denunciato Mahon in Parlamento - marchi di riconoscimento, segnali assai sinistri per persone della mia generazione che si sono a lungo occupati di lager nazisti. Non mi pare che sia portare la democrazia offrire 500 dollari per ogni casa che è stata distrutta.. La Croce Rossa denuncia - prosegue Mahon - che in città non c’è acqua e non c’è luce elettrica, non ci sono ospedali funzionanti e molte case sono state rase al suolo. Avevo fatto domande su Falluja prima
della battaglia, avevo chiesto se quello che ci veniva raccontato dei bombardamenti fosse una strategia di democratizzazione dell’Iraq.
Se lo è, non funziona. Abbiamo bisogno di alcune risposte chiare su che cosa sia stato fatto a nostro nome in Iraq. Dobbiamo sapere di più su queste elezioni, quando è chiaro che gli abitanti di Falluja non sono stati in grado di parteciparvi in modo significativo. Penso che occorra convocare una conferenza di emergenza all’Onu, con tutti i paesi membri presenti. Dobbiamo aprire un tavolo di discussione all’interno della coalizione per il ritiro delle truppe dall’Iraq, perché in questo momento noi rappresentiamo più un problema che una soluzione". E conclude: "Dopo aver visto l’esecuzione a freddo di un soldato iracheno ferito e inerme mi è parso chiaro che occorre mettere in piedi un tribunale contro i crimini di guerra. Lasciateci sapere che cosa gli Americani hanno fatto a Falluja. Per la Serbia fu istituito un tribunale di guerra e là in Kosovo i media erano presenti e potevano vedere e raccontare. Ora non sento nessuno chiedere a gran voce giustizia per i tantissimi civili iracheni che sono stati uccisi. Non mi pento di essermi schierata contro il governo sull’Iraq. Avevo ragione. Penso che che prima o poi ci dobbiate delle risposte e che qualcuno debba assumersi le sue responsabilità". Responsabilità di aver bombardato gli ospedali di Falluja uccidendo decine di civili ricoverati, come riportano, tra gli altri, il
Washington Post del 13 novembre e come ha raccontato la BBC. Responsabilità, secondo quanto scrive Simon Jenkins del British Sunday Times di aver bombardato Falluja con armi al fosforo: "Alcuni pezzi d’artiglieria hanno aperto il fuoco con cariche di fosforo bianco - ha scritto - che creano uno schermo di fuoco che non può essere estinto con l’acqua. I ribelli hanno riferito di essere stati attaccati con una sostanza che gli ha sciolto la pelle, una reazione consistente con il fosforo bianco che brucia".
Responsabilità di aver utilizzato il napalm, secondo il commentatore politico del Daily Mirror Paul Gilfeather, che il 28 novembre scorso ha scritto: "Le truppe statunitensi stanno usando in segreto dei gas al napalm proibiti per spazzare via i restanti ribelli a Falluja e nei dintorni. La notizia che il presidente George Bush ha consentito l'uso del napalm, una miscela mortale di polistirene e benzina, proibita dalle nazioni unite nel 1980, sbalordirà i governi di tutto il mondo". Allo sbigottimento non ha ancora fatto seguito un assunzione di responsabilità da parte delle forze di coalizione. Le elezioni in Iraq ci sono state, ha vinto la coalizione sciita, ma sono ancora giorni di sangue. Quando le truppe della coalizione accetteranno di togliere l’assedio e andarsene?

su Avvenimenti numero 8 , 25 febbraio - 3 marzo:
L’inchiesta continua con “MK-77, bomba micidiale, ancora più letale del gas usato in Vietnam” di Umberto Rapetto, con la risposta del sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu all’interrogazione urgente presentata da 26 parlamentari dell’Unione. Il portavoce del governo ammette di “Non avere elementi di riscontro sui fatti evocati”, aggiungendo che: “ i militari italiani impegnati in Iraq, nel rispetto della convenzione di Ginevra, non dispongono degli armamenti menzionati”. Senza fare parola su quello che l’interpellanza, di fatto, chiedeva: dell’uso di armi non convenzionali da parte delle forze statunitensi di cui il governo Berlusconi ci ha voluti stretti alleati. Gli Usa, come è noto, non hanno firmato la convenzione del 1980 contro le armi chimiche. E ancora, nel numero in edicola, un’intervista a Nuccio Iovene, senatore ds che ha firmato un progetto di legge per la messa al bando delle cluster bombs e la testimonianza di Ezio Di Nicolò, militare di 23 anni dimissionario dalla missione Antica Babilonia”. Infine, appare ripubblicato l’articolo deIl Manifesto del novembre scorso in cui Giuliana Sgrena denuncia l’uso di armi al napalm su Falluja.