Cina-Giappone, la Protesta Dilaga
Lina TamburrinoDietro i cortei lo scontro sul seggio Onu
«I Cinesi? Non avevo nessun problema a ucciderli perché non li consideravo degli esseri umani»: sono le parole di un veterano giapponese che Ian Buruma ha riportato nel suo libro «Il prezzo della colpa» (pubblicato anche in Italia nel 1994) nel quale ha ricostruito le ragioni dell'incapacità del Giappone di fare i conti con il proprio passato di Paese aggressore.
Tokyo sa bene che il suo testardo «negazionismo» continua e continuerà a essere una ombra densa sulle relazioni con il potente dirimpettaio, la Cina.
Forse sarà necessaria l'uscita di scena del sistema imperiale perché il Giappone accetti di riconoscere l'atrocità dei suoi atti e di smetterla di negarli perché ritenuti una forma di ossequio alla figura sacrale (allora) dell'imperatore. In attesa che questo avvenga, agirà sempre tra Tokyo e Pechino una sfiducia reciproca fatta di simbolismi ancestrali e di arroganza nazionalista che può essere giocata a seconda delle convenienze del momento.
E dunque gli studenti che oggi affollano di nuovo le strade delle grandi città cinesi, da Pechino al nord a Shenzhen e Canton al sud, che cosa chiedono veramente? Ogni ricordo che riporti alla Tiananmen del 1989 non è molto appropriato: allora pesarono un retroterra di forte disagio interno e la morte di Hu Yaobang. Oggi invece si fa sentire un problema molto preciso, di natura per cosi dire esterna: qual è il risvolto di egemonia da assegnare e da far riconoscere alla Cina, da tutti al mondo considerata una non lontana superpotenza economica? C'è oggi un nazionalismo cinese diffuso che si nutre non del ricordo dei passati splendori imperiali, ma dell'orgoglio per la ricchezza materiale che si è stati capaci di costruire in questi anni. Ma questa ricchezza è nata grazie a un singolare «Piano Marshall» fatto di investimenti arrivati da ogni parte del mondo, paesi asiatici in primo luogo, Giappone compreso, che ha dislocato in territorio cinese parte importante dell'attività produttiva dell'industria automobilistica, dalla Toyota alla Nissan alla Honda. Perciò il nazionalismo di Pechino non può non fare i conti con gli interessi di quei paesi stranieri che hanno dirottato risorse verso le sponde cinesi.
Non sembra certo ipotizzabile, almeno per il momento, un «ritiro» giapponese perché gli studenti stanno protestando per le strade di Pechino. Ma intanto le autorità governative si sono affrettate a chiedere scusa alla controparte giapponese. Per scongiurare ritorsioni per le bandiere bruciate del Sol Levante.
Questo economico è solo un aspetto. Ce ne è un secondo, molto più corposo e complicato, di natura politica, anzi geopolitica: chi metterà l'impronta sull'Asia nei prossimi decenni, terra ormai di forti protagonismi emergenti? Il Giappone ha contato negli anni passati per la sua grandezza economica e perché avamposto della potenza americana. Ora punta, pare, a entrare a fare parte del ristretto numero dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'Onu. La Cina, che è uno dei cinque componenti fissi, non è affatto d'accordo. Non lo è il governo, non lo sono i 20 milioni di utenti di Internet che hanno firmato on line, non lo sono gli studenti che stanno manifestando per le strade. L'ingresso all'Onu viene visto come una assegnazione al Giappone di un rango superiore, che per di più potrebbe squilibrare i rapporti di forza nell'area, perché Tokyo, si ritiene a Pechino, starebbe sempre dalla parte degli Usa. La Cina, in sostanza, perderebbe una situazione di monopolio, a tutto vantaggio di un paese che Pechino ritiene tuttora inaffidabile, avendone peraltro appena ricevuto una conferma. Per la Cina, la pretesa, o aspirazione, giapponese, a conquistare finalmente una voce influente negli affari internazionali, viene vista come una umiliazione. Come un nuovo atto di aggressione. Come la pretesa di instaurare un duopolio che renderebbe più difficile gestire tutte le dinamiche future della geopolitica asiatica.
E dunque il risentimento giovanile e studentesco di questi giorni può anche ridursi e rientrare, ma manterrà un andamento per cosi dire «carsico» pronto a tornare alla luce appena se ne presenterà l'occasione. Non dimentichiamo che in questo momento la Cina si sente non sufficientemente valutata e apprezzata sullo scacchiere internazionale. Il persistente rifiuto- degli Usa e di conseguenza anche della EU- a cancellare l'embargo sul trasferimento di armi e di tecnologia militare viene vissuto e denunciato come un atto «di guerra fredda» nonostante la guerra fredda sia finita da anni.
Non sembra certo ipotizzabile, almeno per il momento, un «ritiro» giapponese perché gli studenti stanno protestando per le strade di Pechino. Ma intanto le autorità governative si sono affrettate a chiedere scusa alla controparte giapponese. Per scongiurare ritorsioni per le bandiere bruciate del Sol Levante.
Questo economico è solo un aspetto. Ce ne è un secondo, molto più corposo e complicato, di natura politica, anzi geopolitica: chi metterà l'impronta sull'Asia nei prossimi decenni, terra ormai di forti protagonismi emergenti? Il Giappone ha contato negli anni passati per la sua grandezza economica e perché avamposto della potenza americana. Ora punta, pare, a entrare a fare parte del ristretto numero dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'Onu. La Cina, che è uno dei cinque componenti fissi, non è affatto d'accordo. Non lo è il governo, non lo sono i 20 milioni di utenti di Internet che hanno firmato on line, non lo sono gli studenti che stanno manifestando per le strade. L'ingresso all'Onu viene visto come una assegnazione al Giappone di un rango superiore, che per di più potrebbe squilibrare i rapporti di forza nell'area, perché Tokyo, si ritiene a Pechino, starebbe sempre dalla parte degli Usa. La Cina, in sostanza, perderebbe una situazione di monopolio, a tutto vantaggio di un paese che Pechino ritiene tuttora inaffidabile, avendone peraltro appena ricevuto una conferma. Per la Cina, la pretesa, o aspirazione, giapponese, a conquistare finalmente una voce influente negli affari internazionali, viene vista come una umiliazione. Come un nuovo atto di aggressione. Come la pretesa di instaurare un duopolio che renderebbe più difficile gestire tutte le dinamiche future della geopolitica asiatica.
E dunque il risentimento giovanile e studentesco di questi giorni può anche ridursi e rientrare, ma manterrà un andamento per cosi dire «carsico» pronto a tornare alla luce appena se ne presenterà l'occasione. Non dimentichiamo che in questo momento la Cina si sente non sufficientemente valutata e apprezzata sullo scacchiere internazionale. Il persistente rifiuto- degli Usa e di conseguenza anche della EU- a cancellare l'embargo sul trasferimento di armi e di tecnologia militare viene vissuto e denunciato come un atto «di guerra fredda» nonostante la guerra fredda sia finita da anni.
L'Unità 11 Aprile 2005
La protesta la portano scritta addosso, sulle t-shirt esibite come bandiere. «Boicottiamo i prodotti giapponesi», «Fine delle relazioni con il Giappone», «No al revisionismo storico». Si allarga al sud della Cina l’ondata di manifestazioni contro il governo di Tokyo, che nei giorni scorsi ha dato il via libera a un libro di testo di storia dalla memoria corta: nessun accenno ai massacri, alle atrocità commesse dalle truppe nipponiche che invasero la Cina, sterminando centinaia di migliaia di cinesi nel secolo scorso. Le rimostranze del governo di Pechino non hanno avuto grande eco a Tokyo, almeno non quanto suscitano preoccupazione in questi giorni le marce di studenti che sabato hanno bersagliato di sassi e bottiglie l’ambasciata e la residenza diplomatica giapponese nella capitale e ieri hanno avuto una replica a Canton e Shenzhen, dove ventimila giovani hanno sfilato e ci sono stati nuovi atti di vandalismo contro simboli del Sol Levante.
Cina, cresce la protesta contro i libri di Tokyo
Cortei nel sud. Pechino: «Facciamo di tutto per evitare incidenti. Ma è colpa del Giappone»
Marina MastrolucaCortei nel sud. Pechino: «Facciamo di tutto per evitare incidenti. Ma è colpa del Giappone»
La protesta la portano scritta addosso, sulle t-shirt esibite come bandiere. «Boicottiamo i prodotti giapponesi», «Fine delle relazioni con il Giappone», «No al revisionismo storico». Si allarga al sud della Cina l’ondata di manifestazioni contro il governo di Tokyo, che nei giorni scorsi ha dato il via libera a un libro di testo di storia dalla memoria corta: nessun accenno ai massacri, alle atrocità commesse dalle truppe nipponiche che invasero la Cina, sterminando centinaia di migliaia di cinesi nel secolo scorso. Le rimostranze del governo di Pechino non hanno avuto grande eco a Tokyo, almeno non quanto suscitano preoccupazione in questi giorni le marce di studenti che sabato hanno bersagliato di sassi e bottiglie l’ambasciata e la residenza diplomatica giapponese nella capitale e ieri hanno avuto una replica a Canton e Shenzhen, dove ventimila giovani hanno sfilato e ci sono stati nuovi atti di vandalismo contro simboli del Sol Levante.
Il governo giapponese anche ieri ha convocato l’ambasciatore cinese a Tokyo chiedendo di garantire la sicurezza dei propri interessi in Cina e ha sollecitato scuse e il risarcimento dei danni. Pechino, che ha invitato i manifestanti alla calma ma non sembra aver fatto molto per dissuaderli dalla protesta, ha assicurato che sarà fatto il possibile per evitare episodi di violenza ma ha accusato il Giappone di essere il vero responsabile del deterioramento delle relazioni tra i due paesi. «È chiaro che la Cina non è responsabile dello stato attuale delle relazioni sino-giapponesi - ha dichiarato un portavoce del ministero cinese degli affari esteri con un comunicato diffuso via internet -. La parte giapponese deve seriamente e correttamente trattare le principali questioni che si riferiscono ai sentimenti del popolo cinese come la storia dell'invasione della Cina, fare di più per promuovere la fiducia reciproca e mantenere le relazioni bilaterali, invece del contrario».
Una sorta di semaforo verde alle proteste di piazza. Ieri a Shenzhen diecimila giovani hanno sfilato per le strade protestando contro il revisionismo giapponese e la pretesa di Tokyo di ottenere un seggio permanente all’Onu. Ne ha fatto le spese un supermercato giapponese, bersagliato con bottiglie e vernice. A Shangai due studenti giapponesi sono stati aggrediti in ristorante e feriti leggermente, mentre a Canton si radunavano altri diecimila manifestanti, invocando il boicottaggio dei marchi giapponesi e dando fuoco alle bandiere del Sol Levante. Il corteo ha anche tentato di sfondare uno sbarramento di polizia posto davanti al consolato. Qualche tafferuglio, ma poca cosa, la manifestazione si è dispersa dopo quattro ore mentre la polizia dagli altoparlanti invitava i ragazzi a sciogliersi. «Comprendiamo perfettamente il vostro patriottismo - ripetevano gli agenti - ma voi dovete rispettare l’ordine sociale e andarvene immediatamente».
L’attitudine moderata delle autorità cinesi ha provocato la reazione risentita dell’ambasciata nipponica a Pechino. «Li hanno lasciati fare, non li hanno fermati né arrestati», ha detto Ide Keiji, portavoce della sede diplomatica, che ieri era protetta da centinaia di agenti in assetto antisommossa malgrado non ci fosse nessuna manifestazione.
Il governo di Pechino, mai tenero con le proteste di piazza, in effetti ha più che tollerato l’ondata di risentimento anti-giapponese degli ultimi giorni. Ma il via libera di fatto alle manifestazioni, è stato accompagnato da un silenzio pressoché assoluto sui media: delle proteste a Pechino e in altre città cinesi non c’era traccia ieri su giornali, canali tv e siti web, segno probabile più che di imbarazzo della volontà di mantenere sotto controllo la situazione.
Nei giorni scorsi il governo di Pechino - seguita da Seul - aveva protestato con Tokyo contro l’adozione dei libri di testo che tacevano sulla brutalità dell’imperialismo nipponico ed in particolare sul massacro di Nanchino, dove secondo le ricostruzioni cinesi nel ‘37 vennero orrendamente trucidate almeno 300.000 persone, tra civili e militari. Il governo giapponese ha replicato accusando la Cina di dispensare nazionalismo nelle proprie scuole e di aver avuto una reazione «emotiva e non razionale».
Una sorta di semaforo verde alle proteste di piazza. Ieri a Shenzhen diecimila giovani hanno sfilato per le strade protestando contro il revisionismo giapponese e la pretesa di Tokyo di ottenere un seggio permanente all’Onu. Ne ha fatto le spese un supermercato giapponese, bersagliato con bottiglie e vernice. A Shangai due studenti giapponesi sono stati aggrediti in ristorante e feriti leggermente, mentre a Canton si radunavano altri diecimila manifestanti, invocando il boicottaggio dei marchi giapponesi e dando fuoco alle bandiere del Sol Levante. Il corteo ha anche tentato di sfondare uno sbarramento di polizia posto davanti al consolato. Qualche tafferuglio, ma poca cosa, la manifestazione si è dispersa dopo quattro ore mentre la polizia dagli altoparlanti invitava i ragazzi a sciogliersi. «Comprendiamo perfettamente il vostro patriottismo - ripetevano gli agenti - ma voi dovete rispettare l’ordine sociale e andarvene immediatamente».
L’attitudine moderata delle autorità cinesi ha provocato la reazione risentita dell’ambasciata nipponica a Pechino. «Li hanno lasciati fare, non li hanno fermati né arrestati», ha detto Ide Keiji, portavoce della sede diplomatica, che ieri era protetta da centinaia di agenti in assetto antisommossa malgrado non ci fosse nessuna manifestazione.
Il governo di Pechino, mai tenero con le proteste di piazza, in effetti ha più che tollerato l’ondata di risentimento anti-giapponese degli ultimi giorni. Ma il via libera di fatto alle manifestazioni, è stato accompagnato da un silenzio pressoché assoluto sui media: delle proteste a Pechino e in altre città cinesi non c’era traccia ieri su giornali, canali tv e siti web, segno probabile più che di imbarazzo della volontà di mantenere sotto controllo la situazione.
Nei giorni scorsi il governo di Pechino - seguita da Seul - aveva protestato con Tokyo contro l’adozione dei libri di testo che tacevano sulla brutalità dell’imperialismo nipponico ed in particolare sul massacro di Nanchino, dove secondo le ricostruzioni cinesi nel ‘37 vennero orrendamente trucidate almeno 300.000 persone, tra civili e militari. Il governo giapponese ha replicato accusando la Cina di dispensare nazionalismo nelle proprie scuole e di aver avuto una reazione «emotiva e non razionale».