lunedì 11 aprile 2005

sinistra
Bertinotti - Monti
e gli altri

La Stampa 11.4.05
IL LEADER DI RIFONDAZIONE E I PROGRAMMI ECONOMICI DI PRODI
Bertinotti: Monti? Un liberista che però vede i limiti del mercato


ROMA. «Monti? Un raffinato neo-liberista». Cominciano così i distinguo e le prese di distanza di Bertinotti dai suoi possibili compagni di cordata nel centrosinistra.
Il leader di Rifondazione comunista parla nel giorno in cui il suo partito, dopo il congresso di Venezia e il varo della segreteria, elegge i suoi organismi di governo: una direzione, e un Comitato esecutivo.
Le minoranze interne fremono. Gli alleati di centrosinistra si smarcano. Lui, sia pur col garbo dell’uomo, lancia fendenti a chi cerca di mettere zizzania tra lui e l’Unione (D’Alema, Monti), senza tuttavia dimenticare che l’obiettivo è quello di far cadere Berlusconi.
E allora giù, di clava e di fioretto.
A cominciare dall’ex commissario europeo Mario Monti che, in un suo intervento accademico, aveva ventilato l’ipotesi di una collisione tra un governo (di centrosinistra) che creda in una economia di mercato e un soggetto della sua maggioranza (come Rifondazione) che si collochi in aperto contrasto con questa visione. Secondo alcuni Prodi, che assisteva al discorso di Monti, avrebbe dato col capo un segno di assenso.
«Io non so come voi collocate uno come Mario Monti nel panorama della classe dirigente - ha detto il leader del Prc - Mi pare difficile non annoverarlo tra le parti più colte e intelligenti della storia europea».
Quindi, dopo aver citato la frase critica verso di lui, ha commentato: «Monti pone una questione cruciale. Vorrei che nessuno qui accennasse al fatto che Prodi gli ha dato ragione perché questo apre un altro problema. Il discorso di Monti - ha spiegato Bertinotti - riguarda l'essenziale cioè se i meccanismi di mercato sono in grado di costituire un elemento di autoregolamentazione della società. E Monti è disposto a concedere che c'è un problema distributivo anche ai fini dell'efficienza economica, e ritiene che possa essere perseguito solo attraverso la fiscalità, fuori dal conflitto capitale-lavoro, una fiscalità che persegue l'elemento redistributivo reso impossibile dalla competitività medesima». Ma questo è il punto per Bertinotti: l'ex Commissario Europeo ha «una concezione neo liberista che si scontra con una concezione che fuoriesce da questa in nome di un'alternativa di modello».
«Monti - ha concluso il leader comunista - si riferisce ad un'area politico culturale che sta mettendo in discussione proprio questo assunto e vede che i meccanismi di mercato producono precarietà e distruggono il potere di acquisto delle masse».
Ma ce n’è anche per D’Alema. «Nichi Vendola ha vinto - aveva detto il presidente dei ds - perché è stato percepito come leader del centrosinistra, non come candidato di Rifondazione, che infatti ha ottenuto il 5% dei voti».
«Con D’Alema - ha replicato Bertinotti - la polemica è nettissima, la sua interpretazione è totalmente fuorviante e strumentale. La vittoria di Nichi Vendola in Puglia è, come dice esattamente D'Alema, la vittoria di tutta l'Unione. Però D'Alema omette di dire che il fatto nuovo, gigantesco, è che ogni componente dell'Unione, compresa Rifondazione Comunista e le forze radicali, possono guidare questo schieramento e dunque non c'è più l'egemonia di qualcuno. Questo è il grande fatto nuovo».
Poi però il leader di Rifondazione non ha mancato di sottolineare come le dispute a sinistra non debbano far perdere di vista che l’obiettivo comune resta la caduta quanto prima del governo Berlusconi e della sua maggioranza: «Le elezioni Regionali hanno messo fine all'era berlusconiana ed è già cominciato il dopo Berlusconi - ha detto - Per questo io penso che non dobbiamo legarci ad una diatriba su quando si possono fare le elezioni anticipate».«Quello che è fondamentale rilevare - ha detto ancora Bertinotti - è che oggi il governo Berlusconi costituisce un ingombro ad affrontare i grandi problemi del Paese e dunque il problema va risolto».

Corriere della Sera 11.4.05
RIFONDAZIONE

ROMA - Fausto Bertinotti considera l'ex commissario europeo Mario Monti «un raffinato neoliberista» di cui non condivide la visione del mercato e con cui immagina di dover sostenere un confronto in futuro, visto che le sue posizioni sono apprezzate da Romano Prodi e dall'ala riformista del centrosinistra. Monti, aggiunge comunque il leader di Rifondazione comunista, va annoverato «tra le parti più colte e intelligenti della storia europea». Il presidente della Bocconi nei giorni scorsi ha osservato con una certa preoccupazione che un eventuale governo di centrosinistra abbia al proprio interno una «componente rilevante che rigetta il principio di maggiore concorrenza». E Bertinotti si riferisce a questo intervento quando obietta che il discorso di Monti «riguarda l'essenziale, cioè se i meccanismi di mercato siano in grado di costituire un elemento di autoregolamentazione della società».
Monti, a giudizio del leader di Rifondazione comunista, ammette che «c'è un problema distributivo anche ai fini dell'efficienza economica, e ritiene che possa essere perseguito solo attraverso la fiscalità, fuori dal conflitto capitale-lavoro, una fiscalità che persegue l'elemento redistributivo reso impossibile dalla competitività medesima».
Ma, questo è il punto cruciale per Bertinotti, l'ex commissario europeo ha «una concezione neoliberista che si scontra con una concezione che fuoriesce da questa in nome di un'alternativa di modello. Monti si riferisce a un'area politico-culturale che sta mettendo in discussione proprio questo assunto e vede che i meccanismi di mercato producono precarietà e distruggono il potere di acquisto delle masse».


Gazzetta del Sud 11.4.05
Rifondazione
Varati i nuovi organismi dirigenti, il segretario delinea la strategia

Bertinotti: spostare a sinistra l'asse dell'Unione
Corrado Sessa

ROMA – «Siamo impegnati a contribuire alla cacciata di Berlusconi. Ma il compito specifico, peculiare nostro è di caratterizzare un'alternativa di programma, e contemporaneamente impedire che la vittoria dell'Unione riporti un'ipotesi centrista nella coalizione, in nome di un malinteso senso di realtà». Così Fausto Bertinotti riassume la strategia di Rifondazione in questa fase politica: in sostanza, ribadisce il ruolo del suo partito come forza radicale che punta a condizionare lo schieramento del centrosinistra. Al comitato politico nazionale, che si è riunito per la prima volta dopo il congresso di Venezia, Bertinotti ha detto: «Dobbiamo porci il problema di come si sta nel processo di cambiamento, di come dalla fine del berlusconismo si arriva all'alternativa di governo ma, in prospettiva, di come si costruisce una alternativa di società». Secondo Bertinotti, «la sfida è aperta» con le forze della cosiddetta «sinistra moderata». Il leader del Prc parla due ore di fila di questi temi. Si rivolge a quella minoranza interna che ritiene che il partito alle elezioni regionali non sia andato bene, che sia «schiacciato sull'Ulivo». Lui replica che solo ora si apre la sfida su come «spostare a sinistra» l'asse della coalizione lavorando sul programma. «La sfida non è con il Pdci», puntualizza Bertinotti, che non ha mai nascosto la sua avversione verso il partito di Diliberto e Cossutta, «ma è tra noi e i riformisti e la prendiamo non per ambizione, ma perché portatrice del tempo che matura. Se usi l'ortodossia identitaria e alzi la bandiera della durezza puoi anche ottenere qualche successo congiunturale – ammette Bertinotti – ma questo ti rende estraneo ad un processo di cambiamento in corso in tutta Europa». Il leader del Prc vede «un successo delle forze riformiste moderate» e sulla performance elettorale del suo partito parla di «qualche distanza rispetto alle attese tra le Regionali e le Europee». Ma Bertinotti osserva che «il popolo della sinistra riconosce una vittoria» e Rifondazione «non deve sentirsi estranea a questo». Il comitato politico nazionale di Rifondazione ha varato i nuovi organismi dirigenti, dopo il congresso di Venezia. Alla segreteria si affiancano una direzione e un esecutivo. La direzione nazionale è stata eletta a scrutinio segreto dai 260 esponenti del comitato politico e ha ottenuto 132 sì, 2 no, 65 astenuti e 2 schede bianche. In questo organismo le minoranze interne, formate dalle quattro mozioni che si sono confrontate al congresso, sono rappresentate in base alla loro forza numerica, da 13 membri su 31 componenti. Alle riunioni della direzione non è prevista la presenza dei membri della segreteria, ma del solo segretario. L'esecutivo, che ha ottenuto a voto palese 140 sì, 88 no e un astenuto, è composto: dalla segreteria; dal tesoriere; dai capigruppo di Camera, Senato e Parlamento europeo; dal coordinatore dei giovani; dal coordinatore della segreteria; dai segretari delle cinque aree metropolitane (Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo) e infine da quattro rappresentanti della minoranza. Quattro e non cinque esponenti della minoranza perché gli aderenti alla quinta mozione, quella di Claudio Bellotti, hanno deciso, per protesta, di non entrare in questo organismo che è composto in totale di 43 membri.

Corriere della Sera 11.4.05
I timori della sinistra
Ravera: seduce la gente
. Salvi: userà il fisco
Monica Guerzoni

ROMA - L’allarme lo ha lanciato Valentino Parlato dalla prima pagina del Manifesto . Romano Prodi stia attento, l’anno che lo separa dalle Politiche è pericoloso, la strategia di far bollire Berlusconi nel suo brodo fino a cottura finale non convince e il tempo «può portare qualche buona sorpresa per il fronte avverso». Se Prodi, come sospetta Parlato, ha paura di governare, tenga a mente quella crudele massima di Mao: «Bastonare il cane che affoga». Ora che il re è nudo e che l’Unione si affaccia all’uscio di Palazzo Chigi, la sinistra più antiberlusconiana comincia ad aver paura. Il premier ha perso, ma non è vinto. La Cdl è in crisi profonda, ma il governo non cade. E chi ha combattuto l’uomo di Arcore fino a gridare al regime, sa bene che dal cilindro del Cavaliere un coniglio può ancora spuntare. Ognuno ha il suo timore segreto. La vendita di Mediaset, il taglio delle tasse, la carta Veronica o la carta Paperino...
Paragonare il premier a Donald Duck, il papero pasticcione perseguitato dalla sfortuna, può sembrare azzardato, ma la scrittrice Lidia Ravera non ha altri timori che un Berlusconi-Paperino, che invece di attaccare comunisti e poteri forti si rivolga agli italiani col cuore in mano. «Mi dispiace, sono stato sconfitto e ho bisogno del vostro aiuto... Ho sbagliato ma ho anche sofferto, non mi abbandonate...» o qualcosa del genere. Davvero il Berlusconi che punta tutto sul senso materno dell’elettrice ha più speranze di un premier che rilancia la promessa di ridurre le tasse? «Sarebbe una botta di furbizia mediatica, l’unico coniglio dal cappello che potrebbe prendere in contropiede Prodi - teme la Ravera -. La carta di Paperino è la sola che mi fa veramente paura».
Alessandro Curzi , ex direttore di Liberazione , il leader di Forza Italia non lo teme più. La crisi è irreversibile e l’ outing della moglie Veronica (che ha rivelato al Corriere l’intenzione di votare sì al referendum sulla fecondazione), «ha contribuito alla débâcle» politica e personale di Berlusconi. Potrebbe tentare il rimpasto, ma Curzi spera che Ciampi «non glielo permetta». Potrebbe apparire tutti i giorni in tv, ma un uso spregiudicato dei mezzi di informazione punì Fanfani ai tempi del divorzio e potrebbe punire anche lui. L’ex direttore del Tg3 vede un solo rischio: «Se Berlusconi fosse intelligente accetterebbe la carta disperata del voto anticipato, lasciando a Prodi una Finanziaria che si annuncia di lacrime e sangue».
Assi nella manica, condivide il professor Alberto Asor Rosa , Berlusconi non ne ha più. Nemmeno la vendita di Mediaset potrebbe risollevare le azioni di un imprenditore che è diventato premier «promettendo al popolo che avrebbe seguito le sue orme». E adesso? Non resta che un «gesto evangelico» donare tutti i suoi averi agli italiani afflitti dalla crisi economica e «presentarsi agli elettori come disoccupato e nullatenente, bisognoso di essere aiutato». La carta di Paperino, insomma.
Ma Armando Cossutta non concede al premier nemmeno quella: «Al punto in cui è arrivato, Berlusconi non ha vie d’uscita. Se tocca la devolution va contro la Lega, se insiste sulle tasse scontenta Follini...». A sentire il presidente del Pdci ogni gesto, anche il più clamoroso, sarebbe un palliativo. E il rimpasto? «Nemmeno mettendo Cossutta al governo aumenterebbe la sua credibilità».
Morte politica o resurrezione ormai non dipendono più da lui, concorda il ds Cesare Salvi , il destino di Berlusconi è legato alla situazione economica e alle conseguenze del nuovo Patto di stabilità. Se ci saranno le condizioni il Cavaliere potrà ridurre le tasse o intervenire sul costo del lavoro e allora sì che il centrosinistra dovrà temere la rimonta: «Se fa cose concrete può ancora salvarsi, ma con la propaganda no, non ce la fa». Temibile anche l’ exit strategy indicata da Giuliano Ferrara, mettere al suo posto un Letta o un Casini. E la vendita di Mediaset? La risposta del senatore Salvi è una sonora risata. «E chi se la compra?».
Francesco Caruso non ci trova niente da ridere e se la prende con la «titubanza» di Prodi, che invece di assestare la spallata concede a «questa banda di signori al governo il tempo di fare le ultime follie». Il leader dei Disobbedienti del Sud teme «una involuzione democratica», teme gli «ultimi colpi di coda di un demagogo populista e conservatore». Perché il re è nudo e «bisognerebbe buttarlo giù, prima che si metta ad arraffare tutto». Le argenterie del Palazzo? «Ma no... Le leggi che salvano i suoi compari».