giovedì 7 aprile 2005

la lingua italiana

Il Tempo 6.4.05
Alla ricerca dell’italiano perduto
Gli studiosi denunciano la fine della scrittura e del dialogo.
Si rischia l’analfabetismo di ritorno.

La lingua umiliata dalla crisi della scuola e dalle tecnologie

di GIUSEPPE AMOROSO

IN PRINCIPIO era la parola. Ora stenta, dopo tutto, ultima. C’era la scuola. Ormai finge di esistere, sommersa dal dilagante analfabetismo di ritorno. Il sistema telematico, dal canto suo, continua a sedurre gli smarriti esuli dell’istruzione: convinti di essere toccati dalla grazia, hanno fra le mani soltanto uno strumento. Sparita quasi la parola scritta, si aspira a dissiparne la memoria. La demolizione dell’intero ciclo scolastico, con conseguente scomparsa dell’esame di maturità (ogni estate, nella luce complice, si celebra una triste parodia) e con la nascita della laurea nana, innalzata al nebuloso biennio, ha condannato senza appello la conoscenza e il culto della parola nel suo infinito creare la realtà in sintonia con l’onda del pensiero. Molti giovani, liberi nel loro sterminato tempo libero, non avvertono più il bisogno di interpretare i segni del linguaggio e ne decretano così anche la fine delle strutture. Insieme, va via l’amore dello scrivere che è, secondo Raffaele Crovi, «un modo per esercitare la nostra curiosità verso la vita (e la curiosità verso è una riconquista della gioventù)». L’oggi non ha vertigini, disancorato dalle sue radici. Oscura e accende il mondo con lo zapping. Circola un lessico esiguo, omologato e modesto, appena sufficiente per la sopravvivenza. C’è chi nello schermo freddo di un computer crede di vedere il secondo orizzonte delle cose e chi trova nel meccanico tasto di un cellulare (relitto rumoroso dell’infanzia) l’occasione di rendere fisica l’anima. E siamo in un gotico incubo di emoticons. Certo, qualcuno sfugge all’occhiuta virtù di queste forme vane i cui molti guasti non finiscono qui: dall’e-mail alla chat e una cascata di linguaggi automatici, simbolici talora fino all’osso, talaltra eloquenti e macroscopici (dal computerese all’internettese). Abbreviati segnali crocifissi, trascrizioni fonetiche alla buona, ideofoni fumettistici, ellissi senza fantasmi e senza poesia sono scheletri inumati in una piccola bara luminosa, in un’enfatica teca del silenzio. Impastati di presente, ecco i messaggi dentro il loro covo, con la risposta già confezionata, esempio di scrittura «ridondante», «affrettata» (Luca Serianni), che protrae l’inganno di un dialogo muto, senza neppure l’alibi di un sogno, La tenuta del vocabolario è sempre uguale: stereotipa, incollata sulla cronaca spicciola, consapevole del suo effimero tragitto. Ed è la consapevolezza misera che «non c’è più niente da imparare, tutto da fare» (Vittorino Andreoli). Il teatro che accoglie il tessuto della comunicazione odierna - specialmente nella funzione banale di sostituire lo scambio epistolare di una volta - ha un che di metafisico, schiaccia il vasto universo in un segmento labile, in un limbo burocratico. Una deriva dei sentimenti dove vite di supplenza si riconoscono attraverso impulsi elettrici, in questo nostro tempo che non legge ma guarda senza fine uno spettacolo. «Stiamo uccidendo la nostra capacità di esprimerci — osserva Rosa Alberoni — e lo facciamo senza porre alcuna resistenza, come fossimo ipnotizzati». È un trionfo degli ideogrammi totalitari: si agitano nei lucidi quadranti delle attese prive di tremori, forse per meglio sperdersi e svanire, fossilizzati in parentesi, cancelletti, chiocciole, trattini, punti di sospensione e di domanda, frecce, siparietti di lettere obsolete, ghiribizzi geometrici del vuoto. Si tende ad avvicinare la parola scritta a quella orale e si azzera il veicolo della gestualità, dell’appoggio paralinguistico. Accade inoltre che i grafici del messaggio elettronico, e l’isterilita lingua quotidiana, consumino la residua cifra di calore della nostra società massificata. All’interno di un transitorio vivere correndo, senza ricordi, senza paesaggi, è una società afasica, indifferente a qualsiasi risorsa verbale che non sia di conforto immediato, di appagamento del corpo. Sotto questo magma curiosamente si cela una sorta di narcisismo, la retorica della sciatteria. Vale a dirci: l’insipienza esibita come trofeo. Naufragano l’intesa con il mistero, le tensioni del colloquio tra due presenze, la liturgia di un discorso compiuto, la scherma tra culture. Non esistono più slittamenti di senso e reticenze e il terrore della pagina bianca. Gli sms, con tutto un corredo di violazioni grammaticali, sintattiche e ortografiche, di cui non è prevista nemmeno la correzione, corrono interamente il loro minuscolo territorio e fanno la conta dei graffiti. E intanto arriva la malinconia per la perdita del piacere di un libro letto come segreto tenuto gelosamente dentro (Daniel Pennac). Assaporato lontano dall’invasione televisiva e consumistica. Il rifiuto della parola che sembrano «avere un corpo, una vita» (Roberto Vecchioni) manda al rogo i libri e bandisce il romanzesco mondo della storia. In nome della frenetica velocità si spegne la luce sulla fatica della ricerca. Nella scuola irrompono crediti e debiti, progetti e recuperi, percorsi e accoglienze e moduli. Esce il corpo estraneo dello studio, subentra un ventaglio di attività ludiche. E sparisce un altro elemento di disturbo, la prova scritta di italiano, in favore di «dieci pagine fotocopiate da leggere prima di scrivere solo un rigo». Amara, Paola Mastrocola la denuncia, in La scuola raccontata al mio cane, l’irreale situazione degli «studenti liquidi». E ricorda Paul Valéry il quale «affermava che, quando usiamo un linguaggio comunicativo, noi veniamo immediatamente capiti, e proprio in quella comprensione le nostre parole periscono». Il linguaggio dell’oggi dice spesso una sola cosa e quindi esige una risposta sola. Noi abbiamo però bisogno di uno spettro più largo di parole (ma non inquinato dagli anglicismi d’accatto che trasformano l’Italia nel Bel Paese ove l’ok suona) in grado di convocare altre parole vive, per andare più in là di quel confine in cui si ferma il grigio appiattimento dello spirito.