martedì 10 maggio 2005

i diavoli e Michelangelo

Corriere della Sera 10.5.05
Difficile rappresentare l’aspetto del diavolo
La vita inquieta di un uomo ossessionato senz’altro fragile comunque unico

Difficile rappresentare l’aspetto del diavolo. Giotto agli Scrovegni di Padova e Buffalmacco nel Camposanto di Pisa lo mostrano come un essere lontano dalla dimensione umana, ma Luca Signorelli, nella Cappella di San Brizio a Orvieto, lo ritrae più vicino a noi. La creatura che incarna il male non è distante nelle sembianze, secondo questo pittore, né dagli uomini né dagli angeli. Tre esempi, dei mille possibili, consentono di avvicinarsi ai diavoli dipinti da Michelangelo Buonarroti nel Giudizio universale . Con essi, simili a uomini deformati dai peggiori vizi e da sentimenti malati, il sommo artista scrive una pagina di teologia. Tutto l’affresco, d’altra parte, con le sue nudità e con la danza vorticosa creata dal gesto di Cristo giudice - i dannati tendono al basso, i salvati verso l’alto - finirà nelle discussioni del Concilio di Trento. Difficile dire dove Michelangelo abbia visto l’occhio disperato di chi ormai conosce la dannazione eterna, impossibile immaginare le urla che sentì dentro di sé, le forme che cercò di fissare, i dettagli che dopo secoli esplodono ancora sulla retina di chi desidera ghermirli.
L’inizio dell’eternità, o almeno di quella parte che spetta agli uomini, irrompe sulla scena del Giudizio universale. Michelangelo dipinge l’attimo con tanta violenza che anche i santi intorno al Cristo sono costretti a mostrare le prove del loro martirio e subiscono, come tutti gli altri, l’angoscia del momento. Una scorrettezza teologica e politica che poneva dubbi e paure tra i modelli della fede e la salvezza. Un mistico tedesco del Seicento, Daniel Czepko von Rugersfel, nei suoi Sexcenta Monodisticha Sapientum (libro che ora, curato da Marco Vannini e Giovanna Fozzer, ha la prima traduzione italiana da Morcelliana, pp. 232, 14) sembra raccogliere quelle immagini per ricordare che lo spirito dinanzi al gesto di Cristo «sbrana cielo e terra», mentre «la natura ha le doglie». È proprio madre Terra, carica di un dolore viscerale durato millenni, che si «sgrava dei morti che la opprimono».
Sono scene che paiono eccessive, anche perché la civiltà dell’immagine in cui siamo immersi ci ha abituati alla violenza, ma non a riflettere sulla natura dell’uomo. Alla televisione è sempre più difficile distinguere un film di guerra da una scena in cui è trasmesso un conflitto reale; ma, allo stesso tempo, non desideriamo parlare della morte, di quel che potrebbe esserci dopo , comunque del fatto che siamo polvere e che, per parafrasare Michel de Montaigne, i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Così, per comprendere il discorso di Michelangelo siamo costretti a compiere un’odissea alla rovescia, riconquistando coordinate non virtuali. Tra la sua opera e noi ci sono le costruzioni della comunicazione, le mode, le tendenze letterarie, gli atteggiamenti, le falsificazioni. Per entrare nel Giudizio universale , come gli uomini dell’ultimo giorno da lui dipinti, dobbiamo toglierci i vestiti, le idee, le illusioni, in una parola quello che rende goffa la carne.
L’autore delle Pietà si coglie dopo un restauro dello spirito. Per questo occorre sbarazzarsi degli orpelli con cui l’hanno ricoperto i secoli. Un’occasione preziosa la offre il recente saggio biografico di Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta (Laterza, pp. 474, 20) . Scritto senza preoccupazioni accademiche, è un ritratto con materiale di prima conoscenza che restituisce senza le incrostazioni del tempo quest’uomo ossessionato dall’arte, a volte selvatico, senz’altro fragile, comunque unico. Forcellino, che conosce anche i millimetri del marmo con cui ha lottato l’artista (ha restaurato il Mosè), ci riporta sulle impalcature, ci fa riascoltare il lavoro dello scalpello, non perde di vista Michelangelo nemmeno quando strizza l’occhio alla Riforma o è immerso nei conti. Un avaro, anzi un avido. Nella miserabile casa romana dove morirà , sita al quartiere Macello dei Corvi, tra l’area dei Fori e le pendici del Quirinale, aveva sotto il letto una cassa piena d’oro, con la quale avrebbe potuto comperare Palazzo Pitti. Non si sognò nemmeno di investire quel ben di Dio, forse perché non si fidava degli uomini oltre che dei banchieri; si guardò bene dall’accomiatarsi da questo mondo in maniera eroica. Tra le mille cose descritte da Forcellino c’è questo vecchio quasi novantenne che non era preparato al passo e chiedeva di non essere mai lasciato solo. Ma forse aveva ragione. Come pochi altri egli aveva visto, negli anni in cui lavorò alla Cappella Sistina, l’enigmatico dopo che ci attende.
Forcellino con questo libro fa un altro restauro, togliendo tra il nostro occhio e questo genio, che Diderot definì «duro, cattivo, invidioso», i filtri che si sono accumulati. Non ha più le sembianze hollywoodiane di Charlton Heston, innamorato di una donna che nella realtà mai conobbe; né assomiglia a quegli eroi romantici da cui si ricavavano ideali a piacere.
Torna a essere Michelangelo, oltre il lavoro celebrativo di letterati quali Giorgio Vasari e Vincenzo Borghini (eleganti manipolatori della prima ora), senza le didascalie depistanti della Cappella Paolina; a volte è intento a scrutare pesci del Tirreno per cercare le vere sembianze del diavolo. E in certi momenti si direbbe senza mutande. Quelle che il fedele Daniele da Volterra dovrà infilare, per i buoni uffici e l’acuto senso del pudore di Carlo Borromeo, ai personaggi del Giudizio universale .