domenica 12 giugno 2005

Giorgio Colli
e la storia delle editrici Boringhieri, Einaudi, Adelphi,
oggi tutte in mano a Berlusconi

Corriere della Sera 12.6.05
OMAGGI
Colli, figlio spirituale di Nietzsche

A venticinque anni dalla morte, la Bollati Boringhieri ha pubblicato una monografia di Federica Montevecchi su Giorgio Colli. Biografia intellettuale. Colli (1917-79) fu filosofo, filologo, organizzatore editoriale. Sua la prima traduzione dell'Organon di Aristotele, che uscì nel ’55 da Einaudi. Con l’editore torinese Colli progettò una collana filosofica che non si realizzò a causa di dissidi relativi soprattutto alla pubblicazione di Nietzsche. Tra il ’58 e il ’64 con la Boringhieri curò la collana «Enciclopedia degli autori classici», pubblicando più di cento volumi. Dagli anni Cinquanta ai 70 lavorò con Mazzino Montinari e con un’équipe di studiosi all’edizione critica tedesca delle opere di Nietzsche che, dopo il rifiuto einaudiano, fu accolta da Luciano Foà per la casa editrice Adelphi. Presso l’Adelphi sono usciti anche i suoi saggi filosofici.

Corriere della Sera 12.6.05
L’editore ripercorre la lunga carriera, dallo Struzzo all’avventura con Bollati (50 anni fa acquisì i primi titoli del suo catalogo). E ricorda la stagione con Balbo, Foà, Pavese

Boringhieri: Musatti sopravvalutato, evitava il lavoro
«Non era uno psicoanalista internazionale...

di PAOLO DI STEFANO

«Gli anni di fuoco». Comincia così Paolo Boringhieri, 79 anni portati con eleganza. Comincia accennando agli anni della guerra: «Negli anni di fuoco ero amico di tanti personaggi che ruotavano attorno alla Einaudi». Famiglia di origine svizzero-tedesca (i Bohring), un padre fabbricante di birra a Torino per una antica tradizione familiare. Un fratello maggiore, Gustavo, che frequenta i «ragazzi» del liceo D’Azeglio, i vari Bobbio e Mila. È così che nel ’49, ventitreenne, grazie a una «indiretta raccomandazione», Boringhieri viene assunto prima all’ufficio stampa poi nella redazione dello Struzzo, dopo aver lavorato in un’industria meccanica. Nel giro di un paio d’anni, Giulio Einaudi gli affida la collana scientifica avviata ancora prima della guerra. È un incarico che a Boringhieri piace molto, per un suo vecchio pallino legato alla cultura scientifica. Sarebbe stato quello il primo nucleo della futura casa editrice di Sigmund Freud, ma questo nessuno poteva ancora saperlo.
Boringhieri doveva sapere invece, nel ’49, che c’era, all’interno della casa editrice, una lunga storia rimasta in sospeso e che riguardava la Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, meglio nota come «Collana viola». Responsabilità di Cesare Pavese e di Ernesto De Martino come consulente. Una collana che, lo intuì presto Pavese, minacciava di «diventare il cancro della casa e paralizzare e mangiarsi tutto il resto». Eppure, oggi Boringhieri ricorda: «La Viola fu un’idea di Pavese, il quale convinse Giulio ad aprire una collana in cui mettere i libri che piacevano a lui, gli studi religiosi soprattutto. La scelta dei titoli era frutto dello scambio di opinioni con De Martino, anche se in realtà avevano interessi differenti». Come si sa, quella collezione provoca molti dissensi «politici» all’interno della casa editrice. Da Roma, Muscetta non esita a esprimere la propria ostilità. Intanto Pavese muore, nell’agosto del ’50. Giulio decide di affidarne proprio a Boringhieri l’organizzazione: «Avevo già un certo interesse per la psicologia ed Einaudi lo sapeva: voleva inserire lì anche testi psicologici. Per esempio Jung, che era certamente più "pavesiano", cioè più umanista di Freud, considerato da Cesare uno scienziato. Ciò dimostra la visione chiara che aveva Pavese: inseguiva aperture verso il mondo dell’etnologia, delle mentalità e delle religioni dei popoli primitivi... A suo modo la Viola era una collana d’avanguardia, troppo raffinata per trovare un vasto pubblico in Italia». Del resto, anche Calvino aveva espresso qualche dubbio. Parlò di «etnologia dei negretti». «Forse pensava a Frobenius. Ma la grande pietra dello scandalo fu Kerény: De Martino lo considerava troppo spiritualista, mentre a Pavese piaceva molto».
Boringhieri gode, all’interno della casa editrice, dell’amicizia antica con Felice Balbo: «Fu lui ad ammaestrarmi al lavoro editoriale e aveva una piccola schiera di discepoli, con Pavese era tra i più ascoltati da Giulio, erano loro lo zoccolo originario della casa editrice. Si era tuffato nella politica in Albania ed era tornato al cattolicesimo, ma era un cattolico al di fuori della cultura ufficiale, direi un cattocomunista». Muscetta lo definiva un po’ spregiativamente il «lavoratore cristiano»: «Io appartenevo alla schiera di Balbo, la mia famiglia era protestante e io condividevo l’idea che per essere di sinistra non ci fosse bisogno di professare una filosofia». Dunque, la Viola finisce nelle mani di Boringhieri: «Pavese era una persona formidabile, uno spirito libero e un grande intellettuale, il vero numero due della casa editrice. Mentre io non ero nessuno, venivo ammesso alle riunioni del mercoledì pur non essendo un letterato».
Le preoccupazioni di Giulio Einaudi non erano solo di carattere commerciale, ma anche di opportunità politica: «La Viola era un corpo estraneo rispetto alla casa editrice, dove primeggiava l’interesse politico. Allora quello religioso e quello etnografico erano campi del sapere considerati con sospetto dalla cultura italiana e soprattutto Muscetta, per dirla in volgare, era un po’ un trinariciuto». E Giulio, da che parte stava? «Giulio era un togliattiano, ma al fondo era un liberale figlio di suo padre, non so come mai a un certo punto volesse cedere all’idea di tradurre Lysenko, il biologo ufficiale di Stalin». Il peso della politica: «E beh, sì, la politica fino all’Ungheria si sentiva, ma non come un peso, era un’utopia accettata con entusiasmo da molti». Anche da Boringhieri? «Mah, io ero più cauto, come Luciano Foà». Il quale poi avrebbe fondato l’Adelphi. «Foà accarezzò più volte il progetto di fondere l’Adelphi e la Boringhieri. In effetti forse la cosa sarebbe venuta bene...». Calasso nega che l’Adelphi sia nata come una costola della Einaudi: «Ma secondo me l’einaudiano Pavese sarebbe stato perfetto per l’Adelphi».
L’incontro con Giorgio Colli risale a diversi anni prima: «Colli, come Luciano Foà, era un mio amico di gioventù, si sentiva un figlio spirituale di Nietzsche, ne parlava come di un collega vivente, l’aveva scoperto al liceo. Se la rideva del fatto che Nietzsche fosse stato inglobato nel nazismo, ci rideva sopra e non se la prendeva per niente. Giulio Einaudi lo proteggeva, aveva fatto un contratto con lui per la traduzione dell’Organon di Aristotele, un contratto molto gravoso che suscitò diversi malumori. Ma Giulio non cedette». I malumori venivano, come sempre, da Roma.
Dunque l’amicizia con Colli e Foà era anche il segno di un’affinità elettiva sul piano politico-culturale? «Sì, Foà era un uomo di sinistra, arrivò all’Einaudi come segretario generale, Colli venne a trovarlo in casa editrice, lavorava per il Pci e aveva accesso alla Germania Est. Per questo con Foà coltivò a lungo il progetto di pubblicare Nietzsche in tedesco, che poi si realizzò con l’Adelphi». Einaudi infatti non ci sentiva: spingeva piuttosto per un volume antologico. In quel giro, c’è anche Bobi Bazlen: «Altro personaggio indimenticabile. Me lo fece conoscere Foà, che attingeva a lui come a un pozzo di conoscenze sulla Mitteleuropa. Quando andavo a Roma, incontravo spesso Bazlen, si stava a parlare per ore di psicologia, della Viola; era uno junghiano convinto, mi ha sempre dato molti consigli editoriali. L’Adelphi è lui».
Nel ’55, con la prima crisi economica, Einaudi decide, su consiglio del banchiere Raffaele Mattioli, di cedere una serie di titoli alla Mondadori. E propone a Boringhieri di rilevare le Edizioni Scientifiche. È il primo nucleo di una casa editrice autonoma: «Giulio mise insieme così un po’ di liquidità. Allora era al culmine della sua gloria, il re dei re anche all’estero. Gli editori americani venivano a Torino apposta per lui. Solo che aveva fatto il passo più lungo della gamba, ma secondo me era geniale anche sul piano finanziario. Un altro al suo posto sarebbe naufragato prima. Sapeva come muoversi. Nell’83 rimasi incredulo, non mi aspettavo quel pasticcio, non aveva capito che doveva fare un passo indietro e consolidare la casa editrice». Quando nel ’57 Boringhieri decide di lasciare lo Struzzo, Einaudi ci resta male: «Ci tenevo a dimostrare che si poteva avviare un’editoria scientifica, mettendo insieme scienze della natura, matematica e scienze umane. Così, saltai il fosso. Come Edizioni Boringhieri comprai l’opera di Freud, c’era un’ottima edizione inglese, con apparati critici migliori dell’edizione tedesca». A questo punto entra in scena Cesare Musatti, che già aveva proposto Freud alla Einaudi senza successo: «C’era una cappa culturale, per cui spingersi fino a Freud richiedeva un coraggio eccessivo: il marxismo ostentato diffidava di Freud e della psicologia. Quando decidemmo di tradurlo, Musatti lasciò che si mettesse il suo nome ma non fu lui il vero motore: se c’era da sgobbare si tirava indietro volentieri». Sorride benevolmente, Boringhieri. «Certo, fu Musatti a introdurre la psicoanalisi in Italia, era perfetto a livello italiano, ma sul piano internazionale non era un grande psicoanalista. Renata Colorni si sobbarcò il coordinamento di Freud». Jung venne da sé, dopo pochi anni. «Era l’altro pannello, anche se l’Adelphi l’avrebbe fatto volentieri».
Amicizie. Giulio Bollati era arrivato all’Einaudi nel ’49, giovane normalista di grandi speranze: «Fu presentato come un ottimo letterato, allievo di Sapegno e Pasquali». Poi, quando Boringhieri si mise in proprio, fu Bollati a proporgli il logo del cielo stellato, traendolo da un antico manoscritto francese. «Non posso dire che avevo con lui un’amicizia fraterna, però lo stimavo molto». Nell’87, quando Bollati unisce il suo nome a quello di Boringhieri, le premesse sono chiare: «La Boringhieri era una piccola casa di nicchia, ma con un marchio forte, purtroppo non era più in grado di investire. Dunque, l’aiuto di Romilda, la sorella di Giulio Bollati, avrebbe garantito la sopravvivenza». Le cose vanno così così e nel ’93 il sodalizio finisce: «Bollati si mise a rifare, in piccolo, l’Einaudi, abbandonando il concetto di nicchia e aprendo molto alla letteratura, ma senza ottenere grandi rafforzamenti: la sorella a un certo punto gli disse che così non si poteva andare avanti. Ne venne fuori un pasticcetto. Oggi non è più la mia casa editrice e l’editoria non è più la mia editoria artigianale».
Un po’ meno che amicizie. Italo Calvino: «Calvino non era facile: avrei voluto essergli più amico, ma non ero capace di incoraggiarlo nella mia direzione. C’era qualcosa che mi allontanava da lui: mi pareva che non avesse un’impostazione chiara, anche se si autodefinì un marxista». Ricordi e qualche delusione: «Aveva una penna magica, il dono assoluto della scrittura, ma per me era un po’ troppo letterato, non ho mai avuto passione per la letteratura pura. Calvino era legatissimo a Giulio Einaudi, gli doveva molto: a un certo punto, nel ’50, credo, ci fu un movimento interno contro l’editore e lui disse: è un mio amico, non posso condividere la vostra opinione. Ho disapprovato quando seppi che con la crisi einaudiana dell’83, nel momento in cui Giulio aveva più bisogno di solidarietà, Calvino decise di passare alla Garzanti, mi sembrò un gesto di ingratitudine. Non doveva farlo».