martedì 28 giugno 2005

storia
i Celti

Corriere della Sera 28.6.05
Il segreto dei Celti, popolo misterioso
Non ebbero mai un vero regno e vissero divisi in clan. Eppure sconfissero Roma La religione impediva loro di scrivere: la loro storia fu tramandata solo oralmente


Ci sono cose che arrivano sino a noi percorrendo il passato con la stessa energia con cui s’imprimono nella nostra immaginazione. Sappiamo anche che ci sopravvivranno, dimostrando di possedere un segreto talmente potente da superare la barriera millenaria degli anni. I Celti sono una di queste cose. Il popolo più antico nel quale gli europei possano rispecchiarsi appare una definizione quanto mai attuale in tempi d’Europa unita. Il loro nome deriva da Keltoi , accezione greca della parola celtica che significa «popolo segreto» e appare per la prima volta negli scritti del geografo Ecateo, verso il 500 a.C. Poiché per volontà religiosa la scrittura era proibita, buona parte della loro storia è stata tramandata oralmente e rimane per molti versi misteriosa. Capitolarono nel 51 d.C., con la resa di Caratacos all’imperatore Claudio. Questa la versione storica; quella popolare più romantica coincide con la morte di Re Artù sull’isola di Avalon.
A differenza di Egizi, Greci e Romani, i Keltoi non ebbero mai un regno, coabitando per migliaia d’anni accomunati da usi, costumi e incantesimi simili tra i vari clan, o tùath , o tribù. Quest’etnia di probabile matrice indoeuropea, si espanse dalla Scozia alle coste di Cartagine, dalla Galizia spagnola all’Ungheria, dalla Bretagna francese alla Galazia turca. Tutto ciò quando Roma era ancora un’accozzaglia di capanne di poveri pastori. Quella stessa Roma imperiale che i Celti conquistarono nel 390 a.C., all’epoca del massimo splendore militare, nell’episodio più clamoroso della loro storia. In una disputa tra nobili etruschi, venne assoldato un esercito di Celti capitanato da tale Brennos per espugnare Chiusi, a soli tre giorni di marcia da Roma. Con un simile pericolo alle porte vennero inviati quattromila uomini al comando di Quinto Sulpicio per respingere i Celti. Brennos lasciò perdere Chiusi e mosse incontro al nuovo nemico battendolo sull’Allia, un torrente a undici miglia dalla città. Roma era in preda al panico. I suoi occupanti si trincerarono sulla collina del Campidoglio mentre Brennos e il suo esercito avanzavano per le vie sino al Foro, dando inizio al saccheggio per il bottino di guerra. La rocca con i romani asserragliati aveva un punto debole: un accesso segreto che Brennos scoprì assaltandolo nel modo più silenzioso possibile. Fu allora che i difensori non si fecero sorprendere grazie allo starnazzare delle famose oche sacre del tempio che diedero l’allarme a differenza dei cani da guardia. L’assedio si prolungò per sei mesi, poi vennero aperti i negoziati: Roma avrebbe pagato l’equivalente di mille libbre d’oro. Nella contestazione che ne seguì per il prezzo esorbitante, fu Brennos a gettare sulla bilancia la propria pesante spada declamando la famosa frase citata da Livio: «Vae Victis! Guai ai vinti!».
Oltre a non scrivere niente, avevano parecchie altre brutte abitudini. Platone nelle Leggi li dipinge come razza avvinazzata e attaccabrighe e, dopo il saccheggio di Delfi, li descrive in atti di barbara ferocia. Poiché nella testa albergava l’anima, la mozzavano volentieri ai nemici per assimilarne il coraggio, esibendola in battaglia appesa al morso dei cavalli. Tenevano in gran conto l’ardimento incaricando i druidi di ogni villaggio di preparare beveraggi corroboranti che stimolassero un cieco furore in battaglia; chi non rammenta la magica pozione del fumettistico Panoramix? Un banale errore nella gerarchia dei posti alla tavola dei guerrieri andava lavato nel sangue, col risultato che spesso ne falcidiava più la spada per simili duelli che non le già frequenti battaglie fra clan o le malattie epidemiche. Superstiziosi e smargiassi, gran bevitori amanti delle abbuffate e delle sfide di forza, vennero persino accusati di praticare sacrifici umani.
Per contro Eforo ne traccia un ritratto poetico e lo storico Ellanico di Mitilene li definisce «popolo giusto e retto». Il coraggio li rendeva guerrieri di prim’ordine, con una fama apprezzata da Etruschi, Cartaginesi e persino faraoni tolemaici che li schierarono fra le file dei propri eserciti come mercenari. L’onore imponeva loro di darsi la morte piuttosto che accettare la sconfitta; i Romani stessi tributarono a questa fermezza la nota statua del Galata morente , oggi conservata nei Musei capitolini. Credevano nella reincarnazione dopo un periodo di canti e duelli, fuochi ruggenti e idromele a fiumi nell’Aldilà ultraterreno. Contemplavano il divorzio e la donna godeva di pari diritti dell’uomo: se meritevole poteva condurre un intero clan, come fu per la regina degli Iceni, Boudicca, immortalata su un cocchio marmoreo a Londra. Amanti della musica di arpa e flauto, lira, corni e tamburi, erano abili poeti e cantori di fatti e leggende con poemi composti dai bardi. La loro astronomia contiene intuizioni che stupiscono ancor oggi mentre cromlech megalitici come la celebrata Stonehenge restano un inno alle capacità costruttive dell’uomo di allora.
Rinomati artigiani di tessitura e tintura nonché pregevoli orafi, la recente mostra di Palazzo Grassi a Venezia ha contribuito a riscoprirli come popolo sensibile e creativo che ha loro valso l’appellativo di «nobili selvaggi» dediti all’arte e al culto della natura. Halloween, Calendimaggio, Ferragosto e la Candelora sono solo esempi del retaggio celtico che ci coinvolge ancora oggi. Nelle vicende di casa nostra dobbiamo a un nobile dei Galli Biturigi la fondazione di Milano al centro del territorio degli Insubri; Mediolano significa infatti «al centro della pianura» e - secondo la leggenda - il celta vi sarebbe giunto al seguito d’una scrofa semilanuta , ossia una femmina di cinghiale ancora oggi visibile in un bassorilievo sul Palazzo della Ragione in piazza Mercanti.
Combattendo disuniti, vennero sconfitti dall’efficiente macchina da guerra romana. A quel punto iniziò l’oblìo della magia e dei riti dei druidi: a grandi passi s’avvicinava l’Era Cristiana. Rispetto ai loro parenti continentali, i ceppi isolani britannici ed irlandesi sono oggi i principali custodi di miti e leggende, idiomi e tradizioni celtiche poiché non subirono influenze culturali pressanti. È a costoro che va chiesto perché i Celti siano stati riscoperti così ampiamente. Vi risponderanno che hanno percorso tutto il cammino della storia recando un messaggio naturalistico e spirituale profondamente positivo. Che possano incedere ancora per molto tempo.