lunedì 11 luglio 2005

«La capitale tra cultura e rappresentazione»

Dal quotidiano Europa, 9 luglio 2005
ROMA, GRANDE MACCHINA SPETTACOLARE
Ma il settore dei musei e dell’arte contemporanea decolla con fatica, fra la miriade di proposte polverizzate del Macro e la scialba Quadriennale alla Galleria di Arte Moderna e le possibilità celebrate, ma ancora virtuali del Maxxi, il museo nazionale delle arti del XXI secolo.
di Simona Maggiorelli

Roma grandi eventi, dalla fotografia al Live eight, d’impronta vagamente terzomondista come piace al sindaco Veltroni. Roma un po’ sornionamente salottiera nei festival che portano voci importanti della letteratura sul podio di Caracalla, per una breve lettura in pubblico, sotto molti riflettori e niente possibilità di incontro vero, di approfondimento, di discussione. Roma delle grandi scatole per eventi, in via di recupero come Villa Torlonia, con le stanze da letto di Mussolini, ricostruite tali e quali erano ai tempi del duce e di donna Rachele. E altri magnificamente creati ex novo come l’auditorium di Renzo Piano, così grande da stentare ancora a trovare una programmazione adeguata. Eppure la capitale culturalmente si muove, dicono i giornali. Con l’Espresso che si spenzola fino a celebrare la nuova stagione culturale romana dell’effimero. In principio era Massenzio, titola questa settimana Stefania Rossini, intervistando Renato Niccolini e facendo un viaggio a braccetto con il sindaco fra progetti e autorappresentazioni nel pezzo “Venga a prendere un festival da noi”. Ma qualcosa, in questa grande macchina spettacolare che Roma è diventata e sempre più sta diventando, stenta ancora a mettersi in moto. E’ soprattutto il settore dei musei e dell’arte contemporanea - nonostante la molteplicità di contenitori di cui la capitale si va dotando - a decollare con fatica, fra la miriade di proposte polverizzate del Macro, l’ultima scialba Quadriennale ospitata dalla Galleria d’arte moderna e le possibilità già molto celebrate, ancorché molto virtuali del Maxxi, il museo nazionale delle arti del XXI secolo. Proprio il grande complesso di via Reni - ex caserma affidata alle cure architettoniche e ideative dell’irachena Zaha Hadid - appare come la più vistosa cattedrale di una Roma per l’arte contemporanea, ancora in larga parte da costruire. Su un futuro spazio espositivo di 29mila metri quadrati il Maxxi dispone oggi di una possibilità di circa 900 metri quadri. “Un piccolo spazio per micromostre - dice il direttore Pio Baldi -, piccole iniziative che piantiamo come bandierine, per dire siamo museo, diventeremo museo”. Ma poi gettando il cuore oltre l’ostacolo si affretta ad aggiungere: “Siamo il più importante museo di arte contemporanea italiano e siamo già entrati nel club dei più importanti musei del mondo, che in tutto non sono più di una ventina. Abbiamo stretto da poco un rapporto di scambio con il Centre Pompidou di Parigi e c’è un pubblico internazionale che ci segue via internet”. Curiosa faccenda questa di un museo che si autonomina il più importante d’Italia e ancora non ha, non diciamo una linea di programmazione culturale, ma nemmeno una sua collezione permanente. Due anni fa, in un bel pomeriggio di festa, con molti pasticcini, fu presentata al bel mondo e alla stampa la prima tranche, un primo nucleo minimale di opere intorno alle quali poi sarebbe dovuta crescere la collezione. Tutto o quasi si risolveva intorno alle affascinanti traparenze di un monumentale igloo di Merz. Certo la politica delle acquisizioni non è facile, chiede molti finanziamenti (che non ci sono), ma chiede anche un’idea sottesa, un progetto. “Il Maxxi - ci spiega Baldi - dovrà presentare ciò che l’Italia ha dato nel secolo scorso e può dare ancora oggi al mondo con l’arte contemporanea. Non dimentichiamo che questo è il paese di Giotto e di una grande tradizione. Quasi tutti i nostri artisti dicono che dipingendo pensano a Giotto o a Piero della Francesca, a Michelangelo , a Raffaello. L’Italia non si può scordare di questo suo passato”. “Dall’altra parte - aggiunge - il museo mostrerà anche ciò che l’Italia ha da imparare dal contesto dell’arte contemporanea internazionale. Da noi non ci saranno solo artisti italiani, ma italiani e stranieri in un dialogo creativo in cui si capirà che cosa emerge da un neoprotagonismo italiano nel panorama dell’arte contemporanea”. E qui cogliendo una nostra perplessità dice: “Certo sono concetti difficili, da chiarire”. Il direttore inevitabilmente annaspa - e come biasimarlo - nel presentare, dopo molta insisistenza da parte nostra, un progetto di museo ancora, in gran parte, di là da venire. E su cui si addensano molte nuovole. Finora sono stati spesi 15 milioni di euro, ma per terminare i lavori ne servono altri 60. Ma il ministero delle Infrastrutture ha chiuso i rubinetti. Tanto che un’inerrogazione parlamentare dell’ex ministro Giovanna Melandri si accenna alla possibilità di una chiusura dei cantieri. “Una possibilità non del tutto scongiurata - ammette Baldi -, anche se io mi auguro che non si voglia fare una scelta politica di questo genere. Cantieri così grossi una volta chiusi, poi è quasi impossibile farli ripartire”. E se queste innegabilmente sono gravi responsabilità del governo Berlusconi, rimane al fondo - a cominciare dalle difficoltà che al Maxxi ha opposto all’inizio il quartiere - quel certo prurito che Roma avverte da sempre verso il contemporaneo. “Per Roma il Maxxi rappresenta una novità assoluta - comenta il direttore Baldi – ma anche uno shock”. Roma è la città eterna - aggiunge con un pizzico di amarezza -, eterna vuol dire che dura nel tempo, ma anche che è ferma, immobile”. E che la capitale abbia più di una piccola allergia verso contemporaneo, lo si capisce anche dal trend più generale della programmazione delle mostre: funzionano bene quelle al Vittoriano, alle Scuderie del Quirinale, che, per lopiù, lambiscono il Novecento senza attraversare il solco delle avanguardie storiche: da Kandinsky, a Klee a Munch. Dalla bella occasione offerta dai tesori dell’Ermitage alla recente selezione dalla collezione Guggenheim che si affacciava sugli anni '60 solo con le aproblematiche e piatte icone di Warhol. Ma basta spostarsi dalle parti del Macro, nella recuperata ex fabbrica di birreria di via Reggio Emilia e al Mattatoio per trovare ambienti affascinanti ma pressoché vuoti. Sui registri dei custodi, poche sparute firme di visitatori. La programmazione del museo curata da Danilo Eccher è aperta ai giovani artisti italiani, ma anche alle nuove proposte che vengono da paesi lontani come la Cina, non sembra riuscire a "bucare" l’indifferenza del pubblico romano. L’ex direttore della Gam di Bologna che dieci anni fa costruiva, insieme a Dede Auregli, mostre scandaglio sull’arte contemporanea italiana che molto facevano discutere, approdato nella capitale sembra aver messo la sordina alle proprie proposte. “Il pubblico latita, langue, anche perché le mostre di arte contemporanea devono essere sostenute da scelte coerenti di politica culturale, devono essere sostenute da studi scientifici, mentre oggi a Roma si preferisce costruire eventi che poi non lasciano traccia di sé” ci ricorda una giovane storica dell’arte che ha lavorato al Repertorio delle mostre di arte contemporanea su cd rom che il comune di Roma nel 2003 aveva cominciato a pubblicare. D’altro canto è pur vero - e la storia del Museo di Rivoli lo dimostra - che in Italia la costruzione e il radicamento nel territorio di musei di arte contemporeanea richiede un lavoro ventennale di continuo investimento culturale. E i segnali che Roma lancia, sotto questo profilo, non sono dei più incoraggianti. Se, come è accaduto nei mesi scorsi, la stessa Galleria Comunale ha dovuto trasferire a Gallarate 94 opere della propria collezione (capolavori da Balla a Morandi), per poterle esporre al pubblico.