venerdì 8 luglio 2005

LIBERAZIONE
una intervista a Marco Bellocchio sulla prima pagina di giovedì

una segnalazione di Gianluca Cangemi

Liberazione 7.7.05
Marco Bellocchio:
«Io laico, non violento»

Intervista all'autore che ha festeggiato a Pesaro i quarant'anni di carriera. Il suo rapporto con la politica. E con la religione presente anche nel suo ultimo film "Il regista di matrimoni", che non sarà pronto per Venezia
Davide Turrini

«Venti giorni fa ho votato quattro sì e l'esito negativo dei referendum non mi ha fatto arrabbiare: piuttosto mi ha arrecato notevole dispiacere. Sappiamo che la chiesa cattolica fa il suo lavoro. Semmai lo stupore deriva da gran parte di questa classe politica italiana che non può mai fare a meno della dipendenza dalla chiesa: non solo a destra ma anche a sinistra». Parole di Marco Bellocchio, 65 anni a novembre, 29 lungometraggi all'attivo, che ha festeggiato il quarantennale della sua carriera pochi giorni fa alla quarantunesima edizione del festival di Pesaro. Un'intera e completa retrospettiva delle sue opere e l'imminente conclusione delle riprese del nuovo film Il regista di matrimoni, sono diventati motivo di incontro e di confronto su una lunga, complessa e spesso contestata carriera di artista a tuttotondo.

Ci parli del suo ultimo lavoro, "Il regista di matrimoni": è un film sul cinema?

E' la storia di un regista, Sergio Castellitto, che va in crisi perché la figlia ha sposato un fervente cattolico catecumenale e perché gli tocca girare l'ennesima versione dei Promessi Sposi. ll regista si vuole liberare di questo rapporto umano: una serie di eventi inaspettati e l'incontro, in un paesino della Sicilia, con un uomo che guadagna da vivere girando filmini per i matrimoni, gli modificheranno la vita.

C'è qualcosa di voluto se dopo quarant'anni di carriera, il protagonista del suo ultimo film è un regista?

Assolutamente no, è tutto casuale. Il regista del film abbandona il set e la lavorazione della pellicola perché si è rotto le scatole e perché lì in mezzo a quelle persone, lui non conta niente. So che tireranno in ballo Otto e mezzo di Fellini, ma non c'entra nulla.

Le costa fatica fare ancora parte della categoria dei registi/autori?

Se io pensassi di non avere più nulla da dire farei qualcos'altro. Per ora i miei film nascono ancora da un'immagine, non da qualcosa che ti perseguita, perché non sono un romanticista, ma che ti occupa, che ti batte nella mente. Non ho mai pensato al pubblico, a far del bene agli altri nel fare film: voglio solo elaborare, rappresentare quello che ho in mente sviluppandolo e sapendo che fare cinema è molto faticoso e complesso.

Parliamo di quello che è l'anno che in molti definiscono di svolta nella sua carriera: il '77.

E' l'epoca in cui nasce un discorso di libertà personale, perché c'era stato come un inevitabile esaurirsi di tematiche che si fondavano soltanto sui grandi contrasti, quelli immortali, primo fra tutti all'interno della famiglia e poi in modo simile in varie istituzioni. Così per me è nata la necessità di ricercare nuove forme, nuove immagini, cosa che non elude lo scontro ideologico, ma che si occupa di un discorso di cambiamento dei rapporti tra me e il resto degli esseri umani. Nata come cura a partire dal '77, questa necessità è diventata nel tempo, qualcosa di più complesso, continuamente modificatosi soprattutto a partire da Il diavolo in corpo.

Rimane comunque forte un discorso sulle grandi ideologie e culture di questo paese (quella marxista e quella cattolica) sia ne "L'ora di religione" che in "Buongiorno, notte"…

Durante gli anni '70, c'era un'idea di giustizia che passava attraverso le idee del socialismo: l'idealizzazione di una società giusta senza troppo pensare a come sarebbe stata nella pratica. Era una sorta di speranza. Crollata l'ideologia marxista, che si è portata con sé il crollo di tutta la costruzione partitica di allora, in fondo si è affermato l'idealismo cattolico, il voler bene agli altri, il soccorrere i più deboli attraverso le forme che la religione impone. L'ora di religione è proprio una provocazione non solo verso i cattolici, per i quali c'è una certa coerenza in quello che credono, ma più che altro verso lo smarrimento del partito dei laici che non ha idee. Un vuoto spaventoso in cui le menti si sono smarrite e terrorizzate e per cui il richiamo di un ordine, di una certezza ultraterrena, è diventata una possibilità che ha trovato un terreno fertilissimo.

Ha però messo il conflitto sociale in secondo piano?

Lo scontro a livello sociale nei miei film non è assente. Certamente non è molto interessante per me, anche se lo rispetto e lo trovo necessario. L'artista fa una sua scelta, segue strade interiori, un discorso che nella maggior parte dei casi ha portato all'accomodamento con il reale a cui io non credo. Il passaggio è verso forme non più violente: L'ora di religione in fondo ratifica che il matricidio inteso ad emblema non è una strada percorribile perché non porta a niente o porta solo a reiterare la propria follia, mentre 40 anni fa aveva un altro senso.

Possiamo dire che da "Il principe di Homburg" in avanti è arrivato anche un vero e proprio interesse del pubblico per il suo cinema?

Il mio linguaggio è diventato non dico più diretto, ma l'aspetto realistico in qualche modo ha permesso al pubblico più grande di orientarsi.

Con "Il regista di matrimoni" non riesce proprio ad andare a Venezia…

Manca ancora una settimana di riprese per via dell'assenza di Castellitto. Se c'era il tempo non avevo nulla in contrario, ho grande stima per Muller e non c'è stata nessuna frattura col festival. E poi Venezia è anche un appuntamento liberatorio: se vai lì il film esce immediatamente.

Ha detto tempo fa che non si sente un riconciliato, ma un ribelle che oggi sceglie una lotta senza spargimento di sangue, non credendo più che la sola rabbia possa portare al cambiamento…

E' vero, la rabbia è come quella poesia che ci insegnavano da bambini "E' in tutto una nota sola e quella ancora imperfetta, ah come cinguetta". La rabbia può essere estremamente feroce e violenta, però è di scarsa dialettica. C'è bisogno di maggiore complessità che però non deve rinunciare alla rabbia, ma al delitto sì. Mentre nel '65 io ero Lou Castel ora io non lo sono più.