Liberazione 2.4.05
Jean Paul Sartre,
fedele solo all'infedeltà
Un ricordo tra filosofia e biografia del grande intellettuale francese che continua a far discutere in occasione dell'anniversario della nascita. L'esistenzialismo alla prova del presente
Michel Contat
Jean-Paul Sartre aveva concepito per se stesso questo grande progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Durante tutta la sua vita, da La nausea (1938) a L'idiota di famiglia (1971), Sartre andrà precisando la sua visione radicale dell'esistenza.
I suoi amici di gioventù lo chiamavano «il piccolo uomo», forse perché lo sapevano destinato alla grandezza. Lui stesso non ne aveva il minimo dubbio, dal momento che la cosa non dipendeva che da lui. Raymond Aron ricorda quanto ammirasse la risolutezza del suo giovane compagno. Kant, Hegel? E perché no? E aggiunge che gli studenti della Scuola normale di questa generazione si domandavano chi fra Sartre e Nizan, gli inseparabili, sarebbe stato per primo celebre, e chi lo sarebbe stato per sempre. Aron dal canto suo era convinto che Sartre avrebbe creato la propria opera in campo filosofico, Nizan letterario.
Sartre racconta di essersi pensato come un grande uomo dell'avvenire, di aver vissuto la propria gioventù come quella del "giovane Sartre", anni che avrebbero in seguito dettagliato i biografi. Meglio ancora, aveva concepito questo progetto: «Essere al tempo stesso Spinoza e Stendhal». Quando Simone de Beauvoir lo incontrò, nella primavera del 1929, fu impressionata dalla formidabile convinzione di cui dava prova, dall'inesauribile sgorgare di idee e di teorie che produceva ma anche, quando lui le fece leggere i suoi primi saggi, da quanto fossero maldestri. A Sartre era capitata un'avventura metafisica: era nato. Questo è un incidente che succede a tutti, ma per lui la nascita assunse un valore veramente ontologico: era pura contingenza. In altre parole, Sartre sentiva perfettamente che questo avvenimento avrebbe anche potuto non accadere. Più tardi, quando interpretò le circostanze particolari della sua infanzia, ne Le parole, scrisse: «La mia fortuna fu di appartenere ad un morto: un morto aveva versato le poche gocce di sperma che sono il prezzo abituale di un bambino», e se ne rallegrò. Orfano di padre, è a questo "giovane morto" che doveva di non essere «consumato dal cancro del potere», e di non avere un super-ego. Era dunque "di troppo" e questo suo carattere aggiuntivo, questo suo essere in soprannumero doveva suggerirgli l'intuizione che precisamente là risiede il carattere peculiare dell'uomo. Tutto sommato, era il filosofo della libertà fin dalla nascita, perché aveva vissuto già nell'infanzia la nostra condizione di essere senza alcun destino se non quello che possiamo darci noi stessi.
Ma bisognava ancora trovare la forma che conferirà a questa scoperta il valore di una verità universale. Sartre ci impiegò un po' di tempo. Aron, armato dell'idealismo kantiano, aveva demolito una ad una le sue teorie, ma senza convincerlo. Tirava avanti per la sua strada, ostinato, sicuro di aver ragione perché viveva ciò che pensava, mentre Aron giocava elegante sui campi da tennis. Durante gli anni in cui il suo compagno Nizan, forte del suo impegno al lato dei dannati della terra iscritti al Partito comunista francese, attaccava in romanzi virulenti la classe nemica del genere umano, la borghesia, Sartre, impegolato in un classicismo ereditato da Valéry, proponeva miti sulla "Leggenda della verità" cercando di ricostruirne la storia. Poi, consigliato dal suo fedele Castor, come chiamava la sua compagna, si decise a dare la forma di un romanzo all'esperienza costitutiva della sua persona.
Castor storse il naso quando ne lesse una prima versione, scritta a Le Havre dove insegnava filosofia: puzzava ancora troppo di prof. Non poteva metterci un po' della suspense che amavano tanto al cinema e nei romanzi americani? A Berlino, dove era andato per leggere Husserl e Heiddeger nel testo originale, negli anni 1933-1934, mentre un certo Adolf Hitler consolidava il suo potere, Sartre riprese la sua teoria da cima a fondo.
Beauvoir, descritta da Sartre più tardi come uno di quei «testimoni aggrottati che non gliene lasciavano passare una», non fu ancora convinta. Rimise dunque il manoscritto sul banco, piallò, lustrò, ridusse. Eppure questo manoscritto migliorato, intitolato Melancholia non ebbe la fortuna di piacere ai lettori di Gallimard. Sartre si sentì rifiutato in tutto il suo essere, e siccome al tempo stesso era rifiutato da una giovane avvenente persona per la quale aveva del desiderio, cadde nella depressione, si credette inseguito da aragoste e granchi, si pensò vittima di una psicosi allucinatoria cronica, con grande fastidio della sua compagna che riteneva si compiacesse nella pazzia. Cessò dunque di essere pazzo, fece intervenire Charles Dullin presso il suo amico Gaston Gallimard; costui accettò lo strano romanzo, propose come titolo La nausea, e Sartre consentì di buon cuore ad edulcorarlo un po' nei suoi aspetti più populisti ed osceni. Il seguito è noto. Successo della critica, premio Goncourt mancato di poco, pubblicazione di racconti e di articoli clamorosi su La nouvelle revue française.
Quale è stato il contributo di Sartre al mondo letterario prima della guerra? Una visione radicale della condizione umana. Non tanto politica, ma ontologica: l'essere umano è in preda all'angoscia dal momento in cui considera l'esistenza nella sua verità. E' ciò che non è, e non è ciò che è, e questa distanza da se stessi, questa impossibilità di coincidere con sé non è altro che la libertà della coscienza.
Husserl ha chiamato questa proiezione della coscienza verso le cose l'"intenzionalità". L'uomo è interamente, nel suo essere proiettato verso l'esterno, nel mondo, esposto al gran vento del reale. Non c'è interiorità: ciò che chiamiamo la vita interiore è una mistificazione, un vano compiacimento ai miti della personalità unica ed eccellente. La fenomenologia ci libera da Proust e dalla psicologia. L'immaginazione è la facoltà di "ridurre al nulla", facoltà che è propria della coscienza e che a questa conferisce libertà. La libertà non è gratuita, al contrario ci impegna alla responsabilità, tanto più che è impossibile sfuggirle, tranne mentendo a se stessi ed agli altri per malafede. Ma ciò permette anche la grandezza in cui si esprime una vita assunta come libertà, contro tutti i determinismi, compreso quello dell'inconscio.
Questi temi dell'esistenzialismo sartriano o dell'esistenzialismo ateo (per opposizione all'esistenzialismo cristiano che ha la sua fonte in Kierkegaard) che saranno formalizzati, concetualizzati in L'essere e il nulla (1943), sono già presenti negli scritti che Sartre pubblica negli anni Trenta. La guerra gli permetterà di approfondirli, di svilupparli.
La guerra è la grande fortuna della sua vita, potremmo dire rischiando uno scandaloso paradosso. Alla Liberazione, Sartre comincerà il suo articolo su "La Repubblica del silenzio" con questa frase diventata celebre: «Non siamo mai stati più liberi quanto sotto l'occupazione tedesca». Liberi perché esposti, in una situazione-limite, alla verità della condizione umana e messi a confronto con le scelte più estreme. Spesso si rimprovera a Sartre, soprattutto da quando è morto, di non essere stato fucilato o almeno torturato, d'aver resistito scrivendo invece di farlo con le armi in pugno. Di non essere stato né Jean Cavaillès, né René Char. Insomma di essere stato Sartre. Di aver scritto Le mosche, L'essere e il nulla, invece di aver ammazzato tedeschi o fatto saltare treni. Che se lo sia rimproverato lui, dopo, lo si può capire; che altri, soprattutto quelli che l'hanno letto, gli rimproverino di aver scritto, sembra uno scherzo. La resistenza di Sartre in quanto scrittore e filosofo è irreprensibile.
I rimproveri, se veramente si vuole fargliene, riguardano il modo in cui ha argomentato e giustificato le sue scelte politiche del dopo guerra, e degli anni Cinquanta e Sessanta. Possiamo oggi preferire gli obbiettivi del "Rassemblement démocratique révolutionnaire" che animò nel 1948-1949 (dare un contenuto concreto ai diritti astratti della democrazia con la creazione di un'Europa socialista e rivoluzionaria), alle attese suscitate dalla sua posizione di "compagno di strada" del Partito comunista dal 1952 al 1956 (difendere il partito perché rappresenta gli interessi della classe operaia e perché soggetto a repressione, difendere il blocco sovietico nella guerra fredda perché meno armato del blocco atlantico e dunque con più ragioni di volere la pace).
Ma queste posizioni sono sempre e solo politica e ciò che ci importa è altrove, nel fatto che l'opera che Sartre prosegue in questi anni "litigiosi" (agli occhi di Bernard-Henry Lévy, per esempio) è l'opera di un genio. La strada della libertà, esamina la libertà stessa attraverso la sperimentazione letteraria e secondo la linea del romanzo americano, del suo realismo soggettivo. Santo Genet, prodigiosa psicanalisi esistenziale di uno scrittore fatta da un altro scrittore. Le mani sporche, Il diavolo e il buon dio, I sequestrati di Altona, appassionate interrogazioni sul cosa facciamo quando siamo presi nel meccanismo della Storia. La critica della ragion dialettica, gigantesco sforzo per capire come la libertà si trasformi in contro-finalità non appena l'atto si iscrive nel mondo materiale, e come il gruppo si fossilizzi nel voto di perpetuarsi una volta passate le condizioni che hanno permesso la sua emergenza. Le parole, maniera ironica di prendere congedo da se stesso demistificando ciò che ci ha costituiti. L'idiota di famiglia, impresa di antropologia totalizzante in cui l'individuo Flaubert ed il suo progetto di fondere il mondo intero nell'immaginario diventano una saga della scrittura in un mondo storico diventato intellegibile.
Opere che danno una visione dell'uomo i cui misteri sono dissipati dai lumi dell'intelligenza, la più agile e la più vigorosa che abbia conosciuto il Novecento.
Si può essere fieri di essere stati contemporanei di quest'uomo, Jean-Paul Sartre, commovente, buffo, fraterno. Aveva sessant'anni quando l'ho conosciuto, era coperto di gloria come mai nessuno scrittore francese era stato prima di lui, irradiava dinamismo, esaltava in voi i rifiuti, tutte le speranze, tutti i progetti. Ignorava completamente che era Sartre, questo Altro che i giurati del Nobel avevano voluto pietrificare in statua di se stesso, esattamente ciò che lui più aborriva. Amava la vita, non mentiva a se stesso, non diceva la verità, nell'intimità, a quelle che non volevano accettarla; non se ne desolava, non si tormentava di sensi di colpa. Lui tirava dritto, l'ho sempre conosciuto così, anche debilitato, senza preoccuparsi di cosa lasciasse dietro di sé, libero da quanto vincola tanto gli uomini: l'interesse. «Fedele al bel programma di essere infedele a tutto», libero è stato, libero resta, esposto al vento della Storia, al soffio spesso e infuocato del mondo.
Un grande essere vivente che non è morto, perché si è trasformato in ciò che era, un richiamo alla libertà.
(Traduzione di Chiara Ristori, da "Le Monde" dell'11 marzo Un uomo libero, esposto al vento della storia)
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»