domenica 1 maggio 2005

VIVA IL PRIMO MAGGIO!

da l'Unità del Primo Maggio 2005

Da oltre un secolo, il primo maggio di ogni anno si celebra nel mondo la festa dei lavoratori.
È l’agosto del 1891 quando il secondo congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori, riunito a Bruxelles, decide di rendere permanente la ricorrenza. Il Primo Maggio diviene così la giornata di «festa dei lavoratori di tutti i Paesi».
Un giorno in cui tutti coloro che lavorano, senza barriere geografiche né sociali, possano incontrarsi per affermare i propri diritti e la propria autonomia.


inconscio

La Stampa Tuttolibri 30.4.05
Nell’antichità c’è ma non si vede, l’inconscio arriva soltanto con Goya
Marco Vallora

DI ritorno da un pur sommario periplo entro la saggistica che pur si occupa di sogni e di rapporti con l'arte (da Lhermitte, a Caillois, da Hanna Segal a Freud a Kris) quello che si evince è che in fondo si parla assai di religioni, di filosofia, di teatro, di letteratura, ma l'arte figurativa nello sfondo un pochino langue. Perché? Non esiste forse nella pittura, nella grafica, nella scultura (qualcuno parla addirittura di onirografia) il tema del Sogno? Certo che esiste, ed è un capitolo nutrito (a partire soprattutto dal fine-secolo Simbolista) ma con tutte le ambiguità e le varianti del caso. Per esempio: le visioni antiche (di Santi e di eroi), le estasi o le preveggenze, i carri del Sole o le Scale di Giacobbe, il cosiddetto Sogno di Scipione (musicato per altro da Mozart) o il pierfrancescano Sogno di Costantino sono da considerarsi dei Sogni veri e proprio, oppure sono altra cosa: «fatti di un'altra materia» come direbbe Shakespeare? Un esempio per tutti, e frequentissimo: Giuseppe in Egitto, che racconta i suoi sogni di premonizione. Ma appunto, non è altro che una scena realistica, un resoconto: il sogno non si «vede». E' appunto questo, il problema: come poteva un artista dell'antichità, senza ancora la comprensione lucida di che fosse l'inconscio e la possibilità stilistica d'un ricorso alla molle sostanza onirica, visualizzare il Sogno? Certo, non conosciamo quasi più nulla, ormai, della pittura antica, classica greco-romana: ma anche i Plinio, gli eruditi, che con le loro ekfrasis, le parafrasi, ci raccontano così bene quei quadri antichi, non sembrano evocarci mai occasioni di sogno, tranne che nella prassi rituale dell'oniromanzia. Ma nessuno di quegli affreschi, probabilmente, materializzava quel che si manifesta nel pensiero alterato del sognatore. Appunto, come mostrare distinti, materialmente - pittoricamente (o plasticamente) - il sogno dalla realtà? Facciamo ricorso ad Omero, per esempio. Il Sogno non è «letto» come una facoltà interiore dell'uomo che dorme, ma come una personificazione, un valletto, che è inviato dalle divinità, per prevenire, sviare, aiutare, a seconda della disposizione dell'Olimpo. Com'è visiva, questa scena dell'Olimpo assopito
«...e gli eroi dai cimieri chiomati
dormivano per tutta la notte, ma Zeus non vinceva
il sonno profondo (...)
e questa gli parve nell'animo la decisione più bella
mandare all'Atride Agamennone il Sogno cattivo.
E gli parlò, gli disse parole fuggenti:
"Muoviti e va, sogno cattivo, alle navi degli Achei
entrato nella tenda d'Agamennone Atride
tutto, con grande esattezza, annunciagli, come comando"».
E' la ripetizione, dello stesso comando, pedissequamente replicato, che dà alla poesia questa illusione d'una sostanza onirica, che prende i tratti antropomorfi d'una persona simulata: «Gli stette sopra la testa, simile al figlio di Neleo e a lui somigliando il Sogno cattivo parlò». Ma appunto, come può un pittore far capire che quella figura «cattiva», simulata, non è Neleo e «mostrarla» pittoricamente, immaterialmente, sopra la testa di Agamennone? E' un problema che giunge sino a Giotto, che almeno ad Assisi abbonda di «sogni»: ma ha il problema di come rappresentarli. Prendiamo il Papa Innocenzo III, che apparentemente dorme beato, nella sua stanza-baldacchino, con una posizione inclinata, da gisant funebre, come in un sepolcro scolpito. Come far capire che quella Chiesa storta, che apparentemente gli sta crollando addosso, esce da lui, è il sogno della Chiesa Romana, minacciata dai miscredenti? Non si pensi che sia storta, per simulare un fantasma, che fluisce dal suo immaginario assopito. No, è storta perché il fraticello Francesco si è posto sotto, come un provvido facchino, e la sta risollevando, con le sue fragili spalle. L'antichità non ha ancora inventato l'espediente del fumetto, che esce dalla testa del sognatore. Nell'altro sogno assisiate del Palazzo con le armi, c'è una piccola spia costruttiva: il Palazzo è leggermente gonfiato, quanto a dimensioni, e pare davvero costruito con gli arzigogoli dei mattoni della fantasia: ma non basta, è necessario che tra il sognatore, disteso nel letto con la sua aureola, che confligge con il cuscino, e la visione stessa, si ponga un Cristo segnaletico, che indichi con la mano tesa quel prodigio architettonico, tutto virtuale. Così è curioso: se si pensa alla successiva pittura fiamminga, di Bosch e di Breugel, quelli sono mondi paralleli, non fantasie oniriche. E le Tentazioni dei Santi e le Discese al Limbo e le Scalate al cielo, non hanno nulla di visionario, sono più vere del vero. Bisogna così attendere le fantasie macabre di Goya o l'Incubo di Fuessli, per avviarci verso le intuizioni di Freud e dell'inconscio surrealista. Ma anche lì, con l'Incubo di Fuessli, la fisiologia ci spiega che se uno si addormenta con un libro sulla pancia od un peso qualsivoglia, altro che le scimmie, riesce a vedere!
Poi, radicale, dopo il Romanticismo, il salto nell'al di là, a pié pari: non c'è più un qui e un là, in Odilon Redon, in Ensor, il Klinger o in Kubin, si è già, appunto, nel paese al di là dello specchio, nell'Altra Parte, per dirla con Kubin stesso. Non c'è che l'onirico. I paesaggi molli di Dalì, le foreste impenetrabili di Ernst, le visioni mescaliniche di Michaux, le passeggiate sottomarine di Tanguy. Anzi, forse il Surrealismo ha talmente tematizzato questo viaggio nell'al di là, che ne è derivata un po' di nausea. E l'arte di oggi ha completamente derattizzato il discorso sul Sogno.

la terapia di coppia è un fallimento

Corriere della Sera 1 maggio 2005
Gli specialisti italiani: lasciarsi non è sempre un segnale di insuccesso
La terapia di coppia? Un fallimento
Elvira Serra

L’allarme Usa: nel 25 per cento dei casi la cura fa stare peggio di prima. «Più di un matrimonio su tre finisce»

Dopo due anni di terapia il 25% delle coppie sta peggio di prima. Dopo quattro, il 38% divorzia. Per non parlare di quei consulenti che non sapendo come aiutare i pazienti li costringono a estenuanti e inutili confronti, settimana dopo settimana. Il mea culpa arriva dagli Stati Uniti. A dargli voce è il New York Times : «Sposati con problemi? La terapia potrebbe non aiutarvi» ha titolato. In Italia le cose non stanno così, anche se la percentuale dei fallimenti si sta rapidamente avvicinando a quella americana. Ma è vero «fallimento»? I nostri specialisti, infatti, concordano: in base a quale aspettativa si può dire che il divorzio sia un insuccesso della terapia? L’obiettivo è far comunicare le persone, renderle serene in modo che possano prendere la decisione migliore. E poi c’è problema e problema. Un difetto della comunicazione è risolvibile nell’80% dei casi. Se la questione è caratteriale, uno dei due è narciso, paranoico o depresso, è su questo che bisogna lavorare. Qui da noi sempre più persone si rivolgono a un consulente, in coppia o da sole. Alla domanda in crescita però non corrisponde un’offerta specializzata. «Non esiste una formazione universitaria qualitativamente e quantitativamente adeguata» denuncia il sessuologo Willy Pasini.
LE BUONE INTENZIONI - Gianna Schelotto, esperta in terapia di coppia, non è scandalizzata dalle cifre americane. Dice: «Le percentuali non mi sembrano alte, se si mette in conto chi ha scelto un consulente soltanto perché si sente all’ultima spiaggia. Perché una terapia funzioni è indispensabile che tutti e due vogliano mettersi in gioco. Quando il risentimento prevale, le possibilità di riuscita sono scarse». Nella sua esperienza, la dottoressa Schelotto ha visto un 60% di partner riunirsi. «A volte appena cominciano a stare bene interrompono o si spaventano all’idea di andare troppo a fondo. Ma lo "stare peggio" è un passaggio fondamentale per entrare in contatto con le emozioni». Negli ultimi anni sono stati più gli uomini a trainare le compagne. «È il caso di chi prende una sbandata per una donna molto più giovane, ma al momento di lasciare la moglie si blocca. Da qui il bisogno di capire».
PERCHE’ IN CRISI - Mario chiede a Laura di avere rapporti sessuali insieme con una terza persona. Franco e Beatrice continuano a gridare furiosamente quando litigano. Paolo ed Elisabetta lavorano tanto e non hanno più tempo per una sana discussione. Sono tre delle tremila storie che Willy Pasini ha conosciuto nella sua vita professionale. «Nella prima coppia è stato intaccato il pudore di uno dei partner, qui è molto difficile ricostituire la relazione. Nella seconda, l’aggressività mal gestita ha portato all’esasperazione. Nella terza la causa scatenante è stato lo stress quotidiano» spiega Pasini. Per lui - che nel libro «La vita a due» suggerisce di seguire un corso di preparazione al matrimonio un anno dopo essersi sposati - non esiste più la crisi del settimo anno, molte difficoltà insorgono già nei primi tre anni. Prima si interviene, più rapida ed efficace è la terapia. La deriva della strategia americana la commenta così: «Negli Usa hanno voluto fare una pedagogia della coppia, elargendo ricette: il lunedì la spesa la fai tu, il martedì esco io con gli amici... Ma non esistono formule universali. La coppia è un mistero, non qualcosa da manipolare con uno slogan».
DIRSI LA VERITA’ - Rodolfo de Bernart è il direttore (e cofondatore) dell’Istituto di terapia familiare di Firenze. Al suo centro si rivolgono coniugi uniti da una gravidanza inattesa, altri che stanno insieme da quando erano giovanissimi, famiglie sotto pressione per la cura dei figli. Lui le descrive così: «Metà ha problemi relazionali, litiga troppo, non sa che cosa fare. L’altra metà ha problemi sessuali. Il 60-70% riesce a ristabilire un buon rapporto». Gli altri si lasciano. E, fatti due conti, ecco dunque tornare le percentuali americane. «Però sulla definizione di successo non sarei categorico». Per lui la «guarigione è riuscire a fare un salto qualitativo che dia qualcosa in più sia ai singoli sia alla coppia».
TEMPI E COSTI - Per alcuni bastano dieci sedute per vedere dei cambiamenti, con un incontro settimanale. «Il percorso terapeutico va da tre mesi a un anno» racconta Giuseppe Rescaldina, responsabile dell’Istituto di scienze psicologiche e ginecologiche di Villa Cimarosa a Milano. Aggiunge: «Da noi le richieste di coppia stanno diminuendo mentre aumentano quelle del singolo. Faccio questo lavoro da 25 anni e se dieci anni fa il problema della coppia era soprattutto di comunicazione, adesso la crisi nasce dalla paura delle emozioni». I costi variano da specialista a specialista, tra i 70 e i 160 euro a seduta (in questo caso i terapeuti sono due). Ogni incontro dura da 45 minuti fino a un’ora e mezzo. «Un buon terapeuta deve saper governare il dialogo. A me servono 3-4 incontri per considerare il livello di sofferenza della coppia, analizzare insieme il problema e decidere come intervenire. Poi occorrono 12-20 sedute» parla Vittorio Cigoli, direttore del master universitario in Clinica della relazione di coppia alla Cattolica di Milano. «Non esistono pillole risolviproblemi - conclude Gianna Schelotto -. Ma può essere utile riflettere su questo: a furia di proiettare sull’altro ciò che non ci piace di noi, finiamo con il trovarci sposati con la parte peggiore di noi stessi».

Bertinotti
e Rita Levi Montalcini:
«voterò quattro Sì ai referendum
è dovere di tutti farlo»

AGI
Roma, 30 apr 2005 - 11:31
FECONDAZIONE: LEVI MONTALCINI, DOVERE DI TUTTI VOTARE SI'

"E' dovere di tutti andare a votare si' ai referendum sulla procreazione assistita" . Lo ha detto a Radio Radicale la senatrice a vita Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina. "Andro' certamente a votare e voterò quattro sì convinta - dice Rita Levi Montalcini - E' dovere di tutti i cittadini andare a votare sì, non solo mio, ma dovere di tutti. Sono poi addolorata che si possa pensare di invitare all'astensione, si deve andare a votare". (AGI)

una segnalazione di Paolo Izzo

Repubblica 1.5.05

L´appello del premio Nobel. Si schierano i genetisti Boncinelli e Forabosco e il farmacologo Garattini
Levi Montalcini: "Un dovere votare 4 sì"

ROMA - Massimo D´Alema ammette i propri dubbi sulla fecondazione eterologa, cioè con seme di donatore. Alla fine il presidente dei Ds voterà Sì a tutti i quattro referendum contro la legge sulla procreazione assistita, ma ribadisce la necessità di «limiti». «Un padre anonimo - dice - lede i diritti del bambino». Tanto basta a sollevare un polverone politico. Sono soprattutto le donne della Quercia ad avvertire: «Attento Massimo, c´è di mezzo la salute delle donne e la speranza». «Non avere dubbi», esortano Katia Zanotti e Barbara Pollastrini.
Ma anche dal fronte degli scienziati schierati contro la legge 40 arriva l´appoggio a tutti i quesiti. Il Nobel e senatrice a vita, Rita Levi Montalcini ribadisce: «È dovere di tutti votare quattro Sì ai referendum. Sono addolorata che si inviti all´astensione». E i genetisti Edoardo Boncinelli e Antonino Forabosco, che hanno aderito al documento di "Ricerca e salute" (sottoscritto da oltre 120 scienziati), affermano: «L´embrione è un insieme di cellule e non ancora un individuo, tanto che solo al termine delle prime due settimane compare la storia primitiva, ovvero il segno di un futuro sistema nervoso». Anche il farmacologo Silvio Garattini dichiara il proprio appoggio ai quattro Sì. Ma nel centrodestra, Maria Burani Procaccini, di Forza Italia, attacca: «La maggioranza degli italiani è contraria alla fecondazione eterologa, lo dice anche un sondaggio mostrando che in Calabria, Sicilia e Puglia la percentuale dei No è ancora maggiore». Apprezza il radicale Daniele Capezzone che D'Alema abbia preso posizione: «Nessun leader politico provi più a fare il pesce in barile». Rivendica invece la bontà della legge 40, Elisabetta Baio Dossi, cattolica della Margherita: «Bello sapere di avere interpretato il comune sentire degli italiani». E nello schieramento astensionista, Luisa Santolini del comitato "Scienza e vita", chiede che i media diano più spazio alle ragioni del non voto.

Repubblica 1.5.05
L'INTERVISTA

Bertinotti replica al presidente ds. "Sui referendum i partiti e i leader non giochino a nascondino"
"Eterologa, no ai dubbi di D´Alema è in gioco la salute della donna"
GIOVANNA CASADIO

Ma anche la laicità deve evolversi, c'è pericolo pure in una totale libertà della scienza

Bocciato l'invito all'astensione di Ruini: "E´ lontano dallo spirito del Concilio"
Convocato l´esecutivo di Prc per mettere a punto la campagna referendaria


ROMA - «Evitiamo la fuga dalle responsabilità: i referendum non sono una semplice questione di coscienza. Quando interviene una legge a disciplinare una materia impegnativa come la fecondazione assistita e la bioetica, siamo in una dimensione politica. Leader e partiti non giochino a nascondino rispetto a una scelta che è politica». Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione comunista, ha convocato l'esecutivo del partito per mettere a punto la mobilitazione sui referendum. Dell'invito all'astensione da parte delle gerarchie ecclesiastiche, dice: «È molto lontano dallo spirito del Concilio; l'appello di Ruini alla diserzione dal referendum e dal dibattito alza il ponte levatoio, chiudendo a una parte del paese».
Silenzio sui referendum durante la campagna elettorale per le regionali, perché? Questione di opportunismo nel centrosinistra per evitare di rimarcare le divisioni interne, onorevole Bertinotti? O per non alienarsi le simpatie del Vaticano?
«È stata una ragionevole prudenza. Su un tema tanto importante è necessaria una discussione a sé stante, ma non perché abbia un carattere troppo specifico, al contrario per le implicazioni generali nel rapporto tra lo Stato e i cittadini. Quindi giusto metterlo al riparo da una contesa che aveva altre implicazioni politiche indirette, quelle sul governo, come si è visto. Poi non posso negare che qualche traccia di opportunismo si sia mescolata».
Sinistra radicale e riformisti: visioni diverse anche sulla bioetica e sulla tutela dei diritti civili come il riconoscimento delle coppie gay?
«Ma no, eviterei sovrapposizioni meccaniche con gli schieramenti partitici. I partiti devono pronunciarsi, però: lo facciano. Così i leader. La discussione è politica e ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità».
Lei è per il Sì ai quattro referendum; D'Alema dichiara i suoi dubbi sulla fecondazione eterologa.
«Ma perché la discussione va fatta su me e D'Alema? Le sue ragioni valgono le mie: capisco i suoi dubbi, non sono i miei. Soprattutto, partiamo dalla tutela della salute della donna e dalla possibilità di accedere a un percorso responsabile di maternità che questa legge nega. Su questi temi la divisione tra sinistra radicale e riformisti è infondata. La stragrandissima maggioranza del popolo dell'Unione è mobilitata e dislocata nella battaglia per il rispetto delle donne e la laicità dello Stato. Anche nella Margherita. E sono altre le questioni su cui l'assemblea del programma, da me proposta, deve discutere nell'Unione: dalla redistribuzione del reddito alle politiche del lavoro».
Una posizione radicalmente contraria alla legge 40 non rischia di riprodurre l´ennesimo scontro laici-cattolici, ignorando le ragioni di questi ultimi?
«Radicale è questa legge che da un lato impedisce, dall'altro forza: qualcuno mi spieghi perché una coscienza cattolica dovrebbe accettare l'obbligo di fecondare un numero massimo di tre embrioni e impiantarli tutti. Sì, è vero, c'è il rapporto tra embrione e vita che io affronto in modo diverso rispetto a un cattolico. Però c'è anche una confusione interessata: dietro a questo schermo non può nascondersi la difesa di una legge dannosa per le donne. Ma ammetto: anche la laicità va ripensata».
In che senso?
«La laicità deve evolversi. Non nel senso però di un pasticcio, di un compromesso di cultura laica e confessionale: una tentazione che c'è tanto in Rutelli che in Pera. Ci sono oggi due livelli di sfida. Innanzitutto siamo di fronte a una tendenza alla mercificazione contenuta nel processo di modernizzazione. Io, in tutta modestia, ho un'opinione diversa rispetto a quella espressa dall'allora cardinale Ratzinger sul relativismo etico, però bisogna vedere il pericolo della totale libertà di scienza in un mondo in cui è assolutizzato il mercato. Bisogna essere avvertiti contro la tentazione prometeica. Inoltre, la laicità in Italia è sempre stata la difesa dello Stato contro le ingerenze confessionali, quindi una "libertà da". Deve esserci una "libertà di". Le nostre società sono ormai plurietniche e plurireligiose: il problema è consentire una convivenza più ricca. Non condivido ad esempio la legge francese contro il chador, perché penso che i simboli religiosi come quelli politici debbano essere disponibili tutti a tutti».
Onorevole Bertinotti, quando c'era la Democrazia cristiana era meglio, nel senso che esercitava una mediazione laica tra Stato e Chiesa?
«Non scherziamo: "mala tempora currunt", ma non fino al punto di stravolgere la storia del paese. La Dc di Fanfani ingaggiò una battaglia furibonda contro il divorzio. E per l´aborto si mobilitò il Paese: si è creata così la coscienza di Stato laico».

dal Corriere Salute del 1 maggio 2005

Nello studio, che ha coinvolto sette centri italiani, ed è stato appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Neuroimage, le aree cerebrali individuate sono state cinque. E precisamente: l'ipotalamo (una struttura dell'area limbica, la zona più "antica" del cervello, presente anche negli mammiferi e situata nel cuore dell'encefalo), l'insula e l'area somato-sensoriale secondaria (poste nella parte inferiore dei lobi parietali all'altezza dei padiglioni auricolari), il cingolato anteriore (situato nella parte interna dei lobi frontali) e l'amigdala (localizzata nella parte interna dei lobi temporali, vedi disegni a pag. 9) che entrano in gioco seguendo una particolare dinamica cronologica. Già si sapeva, da numerosi studi eseguiti in precedenza sia su modelli animali che sull'uomo, che la corteccia orbito-frontale, disposta sotto la fronte e le tempie e vicina ai nervi ottici, e i lobi parietali, che occupano la superficie del cervello, hanno un ruolo nell’attivare le componenti immaginativa e razionale richieste dal rapporto sessuale.
Una prima ricerca in merito, pubblicata su Human Brain Mapping nel 2002, e svolta su un campione misto di maschi e femmine sottoposti a Risonanza funzionale durante la visione di brevi filmati erotici, aveva mostrato che le aree cerebrali attivate - durante il momento dell’amplesso - erano molte, circa una quarantina, di cui solo una, e precisamente l'ipotalamo, aumentava la sua funzionalità negli uomini e non nelle donne, facendo ipotizzare un suo ruolo fondamentale nei meccanismi dell'erezione. Un secondo studio, pubblicato su Brain nello stesso anno ed effettuato su un gruppo di uomini eterosessuali che avevano eseguito una Risonanza funzionale, aveva ridotto il numero delle possibili zone cerebrali coinvolte, portandolo da quaranta a venti, ma aveva lasciato aperti ancora tanti interrogativi. Le aree individuate sottendevano realmente i processi fisiologici dell'erezione e del suo mantenimento o prendevano parte a un generale aumento dell'emotività e dell'attenzione?
Il merito dello studio appena pubblicato su Neuroimage - frutto della collaborazione di numerose équipe italiane all'avanguardia nel settore dell'imaging funzionale del cervello - è proprio quello di aver costruito una mappa funzionale del cervello durante un rapporto sessuale, di aver ulteriormente circoscritto le aree principalmente coinvolte a un numero di 5 e di aver assegnato a ciascuna di esse la sua funzione e la sua temporaneità.
L’esperimento
«Arrivare a questo risultato non è stato semplice» spiega Gian Luca Romani, direttore dell’Istituto di tecnologie avanzate biomediche, Fondazione "Università G.D'Annunzio" di Chieti. «Un'équipe di venti ricercatori ha selezionato 10 uomini eterosessuali sani, senza disturbi psicologici e disordini della personalità, di età tra 25 e 45 anni; ha applicato un piccolo misuratore di pressione, privo di campo magnetico, al loro pene e un casco sulla loro testa connesso alla Risonanza funzionale capace di visualizzare l'attività delle diverse aree cerebrali e li ha sottoposti a due diverse stimolazioni».
La prima riguardava la visione di brevi filmati a contenuto erotico, neutro e sportivo, trasmessi per 6 volte di seguito con una sequenza preordinata in modo che le scene di rugby e di football e quelle inerenti a persone che passeggiavano precedessero sempre i video clips che proponevano un amplesso e azzerassero il coinvolgimento fisico ed emotivo provocato da un interesse di tipo sessuale. La seconda si basava sulla proiezione per 3 secondi di 40 immagini erotiche alternate in modo casuale a 40 a contenuto sportivo.
I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come l'erezione e il suo mantenimento si verificassero solo durante l'osservazione dei filmati erotici e non durante la visione di immagini. Sottraendo le zone cerebrali attivate nella visione dei video clips da quelle entrate in funzione con la proiezione delle diapositive, che provocavano solo un coinvolgimento emozionale generale, si sono pertanto identificate le aree maggiormente impegnate nell'eccitamento sessuale e la loro sequenza temporale» chiarisce Paolo Maria Rossini, professore di Neurologia all'Università Campus Biomedico di Roma.
Sequenza temporale
«Si è dimostrato che l'ipotalamo - quella sorta di centralina di smistamento delle funzioni del nostro organismo che stimola la produzione di numerosi ormoni, regola il ciclo sonno-veglia, mantiene la temperatura corporea e controlla il sistema cardio-circolatorio vegetativo - predispone l'individuo al rapporto sessuale e si attiva nella fase iniziale dell'erezione» continua il neurologo.
«Il cingolato anteriore - che è anche sede di processamento delle sensazioni sensoriali - concentra l'attenzione sul partner ed entra in funzione nella parte centrale dell'eccitamento sessuale e nel suo mantenimento. L’amigdala - che genera gran parte delle nostre emozioni - l'insala - che coordina il linguaggio, i movimenti e l'equilibrio - e l'area sommato-sensoriale secondaria, centro delle sensazioni tattili e somatiche connesse a emozioni ed attenzione,, hanno invece un ruolo crescente nel rapporto sessuale durante le fasi di mantenimento dell'erezione».

GIANNA SCHELOTTO
psicoterapeuta della coppia:
Ogni volta che si devono affrontare territori sconosciuti, di solito ci si munisce di una mappa che indichi tutte le caratteristiche del posto che si sta per attraversare e che ne renda prevedibili i passaggi. Ciò vale anche per i luoghi della mente e l'esistenza di un percorso già tracciato sembra tanto più utile e rassicurante quanto più ci si trova di fronte ad esperienze emotive forti. La sessualità, proprio perché impegna il corpo e la mente, è da sempre oggetto di ricerca e fonte di inquietudini. Non è facile svelarne i segreti, proprio perché certi impedimenti amorosi sembrano nascere dalla difficoltà di accordare gli stimoli corporei esterni con le misteriose e inafferrabili tensioni interne. L'idea di poter tradurre i processi psichici che governano la passione d'amore in termini di funzionamento cerebrale è un sogno antico di medici, psicologi e scienziati. Le cosiddette "localizzazioni cerebrali" e cioè la possibilità di attribuire comportamenti ed emozioni a precise aree del cervello sono state salutate, nel secolo scorso, come un importante apporto scientifico alla conoscenza dell'uomo e dei suoi problemi. Negli ultimi decenni poi, le straordinarie acquisizioni diagnostiche, hanno reso più raffinato e valido il reperimento delle zone deputate a certe funzioni e gli interventi terapeutici che ne derivano. Minuto per minuto
Ma ciò che è nuovo e originale nello studio pubblicato da Neuroimage è che sia stata individuata una sequenza e cioè che si possa monitorare, minuto per minuto, ogni fremito e ogni possibile impasse del un rapporto sessuale. Queste nuove acquisizioni permetteranno di sapere esattamente dove e come intervenire a seconda che il problema riguardi la tensione, l'attività motoria o la cessazione della tensione e cioè l'eccitazione, l'atto sessuale in sé, e l'orgasmo. Gli orizzonti aperti forniscono stimoli inediti per la ricerca in sessuologia. Resta però - ed è in questo forse che risiedono fascino e mistero della sessualità - il fatto che nel passaggio dal pensiero all'atto l'energia psichica (o l'attrazione per l'oggetto del desiderio) si carica di pensieri, di ricordi, di fantasie e crea quelle rappresentazioni mentali che possono promuovere o impacciare il libero fluire dello slancio amoroso. In altri termini, in qualsiasi zona si vogliano collocare i fasti e le cadute della sessualità, c'è sempre il rischio di qualche variabile "indisciplinata" che vada per suo conto, saltando i passaggi codificati. Le donne, per esempio, che, secondo alcuni sono variabili per natura e indisciplinate per scelta, in quale zona degli intricati percorsi maschili troverebbero posto?

Le aspettative degli scienziati sono grosse: si tratta infatti di uno studio che promette di aprire le porte ai segreti dei fattori genetici coinvolti in numerose patologie. Perché essere rimasti per secoli arroccati sulle montagne ha reso i valligiani un po’ speciali, come spiega la professoressa Daniela Toniolo del DIBIT-San Raffaele, responsabile del progetto: «la Val Borbera è uno dei tanti luoghi italiani isolati geograficamente: il nostro Paese, per la sua conformazione, è ricco di aree di difficile accesso che per secoli sono rimaste in pratica isolate dal resto del mondo. Gli abitanti costituiscono comunità chiuse, che discendono spesso da poche famiglie originarie, ideali per studiare fattori di rischio genetici per diverse malattie: dal diabete all’ipertensione, dall’obesità all’aterosclerosi, dai tumori alle malattie psichiatriche. Tutte patologie multifattoriali, così chiamate perché vi contribuiscono molteplici fattori genetici e ambientali difficili da individuare nelle comunità aperte: il vantaggio delle popolazioni isolate è invece la grossa omogeneità genetica associata a stili di vita e condizioni ambientali pressoché uniformi per tutti». In parole povere, studiare queste persone significa ridurre al massimo il «rumore di fondo» delle innumerevoli interferenze (dovute all’ambiente e agli incroci genetici casuali) che si avrebbero valutando popolazioni libere di muoversi.
Dati anagrafici
E quindi identificare meglio i geni coinvolti nelle malattie. «Dopo la ricostruzione delle parentele fra i partecipanti, possibile perché le parrocchie custodiscono dati relativi a nascite, matrimoni e morti fin dalla fine del 1500, si passa a valutare lo stato di salute degli abitanti con una visita medica, esami diagnostici e prelievi di sangue; quindi si analizza il DNA di ciascun soggetto e si correlano i dati ottenuti con la storia clinica. Se, ad esempio, troviamo che in tutti i diabetici una zona del genoma è simile andremo a cercare proprio lì i fattori di rischio genetico per questa malattia», chiarisce Toniolo.
Anziani
«I cittadini della Val Borbera, essendo per lo più in età avanzata, potranno offrirci informazioni su patologie correlate all’età come l’osteoporosi, la menopausa precoce, l’ipertensione, le malattie cerebrovascolari e così via, ma anche su malattie che qui sembrano particolarmente diffuse come l’iperplasia tiroidea o alcune patologie psichiatriche. «Le comunità chiuse sono una risorsa inestimabile, ma dobbiamo affrettarci a studiarle», prosegue l’esperta. «Negli ultimi 50 anni molti abitanti se ne sono andati verso centri più popolosi o si sono comunque incrociati con individui provenienti da altre aree: grazie alla migliore accessibilità dei luoghi la segregazione genetica è e sarà sempre minore, anche in queste preziose "riserve" per la caccia ai geni coinvolti nello sviluppo delle più diverse malattie».

Perché vogliamo credere alla fortuna
S econdo i due ricercatori, la prima distinzione da provare a fare è tra fortuna, probabilità e caso. «Sebbene esista una connessione tra questi termini, non è chiaro come siano in relazione tra di essi - affermano Pritchard e Smith. «Il caso sembra essere di pertinenza degli eventi, mentre la fortuna sembra appartenere all'individuo». L'esempio è quello di una frana, che può avvenire o non avvenire (il caso), colpire qualcuno o no (la fortuna).
Un altro aspetto caratteristico per la definizione di cos'è la fortuna è collegato alla sensazione di controllo. Più un avvenimento è considerato estraneo alle possibilità di controllo degli individui, più il suo verificarsi o non verificarsi viene attribuito alla fortuna.
Successo
L'esempio più chiaro di cosa venga generalmente considerato "fortuna" è però quello relativo al successo di un individuo. Una persona viene considerata fortunata quando raggiunge il successo più che per propri meriti, per il fatto che condizioni ambientali estranee alle sua capacità, instabili e incontrollabili, lo hanno favorito nel suo percorso, sia spingendolo in avanti, sia evitando di contrastarlo. E secondo molti, la quota giocata dalla fortuna nell'accompagnare una persona al successo è un elemento fondamentale senza il quale nessuna capacità o impegno personali sarebbero sufficienti.
Fin qui non si è però tenuto conto del fatto che molte persone sono convinte realmente dell'esistenza della fortuna intesa come qualità specifica che starebbe "addossata" ad alcuni individui come loro precipua qualità. Una visione irrazionale, ma molto diffusa.
Altrettanto diffusa è la convinzione di poter in qualche modo facilitare la manifestazione di tale fortuna attraverso una serie di azioni propiziatorie.
Riti scaramantici
Anche la persona più cerebrale di questo mondo non si tira indietro all’idea di "toccare ferro" per allontanare una possibile minaccia, pur compiendo magari questo gesto come una specie di gioco.
Poi ci sono alcuni sottogruppi, come i giocatori di carte, che alla fortuna credono fermamente.
Pritchard e Smith riportano i risultati di uno studio su giocatori di blackjack, ai quali era stato chiesto di attribuire una percentuale al "peso" rispettivamente del "caso" e dell’"abilità" per vincere. La prima risposta è stata che le variabili da considerare avrebbero dovuto essere tre e non due, perché c'è anche la "fortuna". Quest'ultima è stata considerata dai giocatori di blackjack la variabile più importante, incidendo per il 45 per cento, seguita dall'abilità (37 per cento) e dal caso (18 per cento).
Tale concezione della fortuna può essere considerata una forma di pensiero irrazionale secondo il quale esisterebbe una misteriosa forza naturale che tenderebbe a influenzare gli eventi in favore del giocatore "fortunato".
Illusione
Infine, un'ultima caratteristica psicologica della fortuna: la cosiddetta "illusione di controllo".
L'esistenza di tale illusione è stata verificata già parecchi anni fa da studi realizzati sui giocatori di dadi, molti dei quali attuano veri e propri rituali, come soffiare sui dadi, o modificano le modalità di lancio a seconda che "vogliano" ottenere un punteggio basso o un punteggio elevato.
Un comportamento che manifesta l'illusione di controllo su eventi per loro natura incontrollabili.
Tanto che chi vuole raggiungere il controllo sui dadi, da sempre sa che cosa deve fare: truccarli.

Personalità
Più sei ottimista più confidi nella buona sorte
Secondo una visione razionale, la fortuna potrebbe essere definita come la capacità di essere aperti nei confronti delle opportunità e di relazionarsi in maniera costruttiva con gli altri. Al contrario, la sfortuna potrebbe essere definita come la predisposizione interiore negativa che genera un atteggiamento del tutto opposto. Questa visione della fortuna fa immediatamente pensare all'alternativa ottimismo/pessimismo, e in effetti c'è chi ha studiato la questione proprio da questa angolazione. Secondo Liza Day e John Maltby, psicologi inglesi rispettivamente dell'Università di Sheffield e di Leicester, chi crede nella fortuna intesa come caratteristica personale di alcuni individui affronta la vita con una sensazione di maggior fiducia e ottimismo. Non si tratta solo di una speculazione, ma del risultato di una ricerca realizzata su quasi 150 studenti ai quali sono stati somministrati diversi questionari e scale di valutazione psicologica per la rilevazione di indici quali l'ansia, la depressione, oltre, alla scala per individuare quanto una persona creda alla fortuna. «Il credere nella fortuna ha mostrato di avere una correlazione positiva con l'ottimismo e una correlazione negativa con la depressione e l'ansia» spiegano gli autori.

storie:
una donna, angeli e madonne

Il Gazzettino Domenica, 1 Maggio 2005
CURIOSITÀ D'EPOCA
L'ebrea Alvisa fingeva di vedere angeli e Madonne. Per un piatto di polenta
Espedita Grandesso

Alvisa era e zagheto (chierichetto) risplendente le assicurò la liberazione dal demonio e le nozze. Forse in seguito a questa visione, forse cercando miglior fortuna, la donna si fece accogliere dai catecumeni, si convertì alla religione cristiana e fu battezzata col nome di Alvisa.
Chi accenna alla storia di questa donna è un signore vissuto tra l'Otto e il Novecento, permeato di solido positivismo. L'Ottocento rifiutava i miracoli, ma credeva nell'industria nascente e incasellava le categorie subalterne "a rischio" in case di lavoro, case di ricovero, case di correzione, case di pena e, per le subalterne più bellocce e di scarsa virtù, in case di tolleranza. Forse anche per questo motivo il colto signore di fine Ottocento non racconta nulla sulla vita di Alvisa prima e dopo la sua fuga dal Ghetto, ma solo la sua fraudolenta intenzione di farsi passare per santa.
Allora, irritando il celebre Sherlock Holmes, proviamo a procedere per deduzioni. Se la donna fosse stata una ricca ebrea, non si sarebbe spostata dal Ghetto Novissimo dove, in palazzi decorosi, abitavano i ricchi. Dunque, era povera. Inoltre, se avesse avuto una famiglia che le avesse assicurato un tetto e "polenta e piatto", è possibile che, malgrado tutto, non avrebbe abbandonato la fede dei suoi padri. Forse la donna era sola al mondo e, nel 1734, per una donna sola era molto più difficile di adesso campare. Così, la futura Alvisa avrà sperato che, convertendosi al Cristianesimo, qualcuno avrebbe pensato a darle una sistemazione ma, evidentemente, non ci pensò nessuno.
Alvisa non poteva più ritornare in Ghetto: come cristiana nessuno l'avrebbe accolta ma una "riconversione" alla religione di origine le avrebbe attirato le ire della santa Inquisizione. Era un bel problema. Anche perché, dopo un paio di giorni, o mangi qualcosa o la fame comincia a mangiare te. Alvisa avrà anche pensato male e agito peggio, ma il suo stomaco dovette lanciarle un messaggio illuminante. Cominciò ad avere visioni, che andò a confessare a don Giovan Maria Fattori, il quale dovette trovarle interessanti, tanto da offrire alla poveretta qualche aiuto o in denaro o in ospitalità, se non presso di sè, presso persone devote. Alvisa vide Gesù bambino nell'Ostia consacrata e angeli che cantavano nel calice, poi le riapparve lozagheto risplendente che, indicandole una bellissima donna con un bambino in braccio, le rivelò che si trattava della Madonna.
A volte, è vero, le appariva anche il demonio, che le proibiva di recarsi dal prete Fattori per la confessione, ma Alvisa resisteva imperterrita e arrivava puntualmente al confessionale dove raccontava la fiaba del giorno, magari finendo col crederci, perché quelle visioni o sogni a occhi aperti la rendevano interessante e chi non è mai stato al centro di niente si farebbe anche impiccare, pur di apparire, per un'unica volta, interessante alla folla che assiste alla sua fine sulla piazza.
Ad Alvisa apparve ancora Maria santissima che, nel nome di suo Figlio, le cacciò il demonio dal corpo, sottoforma di serpente nero e urlante. Dopo averle raccomandato di obbedire al suo confessore, Maria la comunicò di persona. Né presso i Cristiani né presso gli Ebrei le donne possono aspirare al sacerdozio, quindi neppure la Madre di Dio potrebbe, in teoria, consacrare l'Ostia e comunicare i fedeli, ma Alvisa non se ne dà per intesa, e poi: la Madonna è la Madonna, perbacco! Quella, per Alvisa, fu una serata trionfale perché, dopo i favori ricevuti da Maria, lozagheto, ossia il suo angelo custode, recitò il rosario con lei e, quando intonò le litanie mariane, gli angeli risposero: «Ora pro nobis». Alvisa ebbe altre visioni, che coinvolsero anche Nostro Signore e ormai nessuno dei devoti di don Fattori dubitò che fosse una serata degna degli altari.
La storia di Alvisa si ferma qui, ma c'è da credere che a questa santa donna si sia interessata anche la santa Inquisizione, mettendo fine a un periodo di relativo benessere che Alvisa si era procurata con l'ingegno della sua mente fantasiosa allietando, con i suoi racconti, il buon prete Fattori e tanti altri devoti.

anniversari:
quando gli americani furono sconfitti

Reuters 30.4.05
Il Vietnam festeggia i 30 anni dalla fine della guerra

HO CHI MINH CITY (Reuters) - Il Vietnam ha festeggiato il 30esimo anniversario della fine della "guerra americana" oggi, sfornando una torta da quattro tonnellate per i bambini nel giorno della Liberazione e con una parata militare senza un vero carro armato in vista.
I leader della nazione comunista, insieme al generale in pensione Vo Nguyen Giap, 94enne capo delle milizie le cui tattiche misero in difficoltà prima i francesi e poi gli americani, hanno partecipato alle manifestazioni nella città, nota come Saigon ai tempi della guerra.
Rompendo con le tradizionali cerimonie militari del passato, il Vietnam -- che un tempo si vantava di avere l'esercito più temuto del mondo -- ha deciso quest'anno di mostrare solo un falso carro armato di legno e nessun missile.
Preoccupati degli effetti dannosi di un eccesso di trionfalismo sui rapporti economici con gli Stati Uniti, ora maggior partner commerciale del Vietnam, Hanoi si è assicurata che le celebrazioni di quest'anno fossero rivolte anche al futuro.
Alla vigilia dell'anniversario, il primo ministro Phan Van Khai ha invitato tutte le parti coinvolte nel conflitto in cui morirono due milioni di vietnamiti e oltre 58.000 americani a chiudere con il passato e a guardare al domani.
Le truppe Usa si ritirarono dal Vietnam due anni prima della caduta di Saigon il 30 aprile 1975 ma Washington appoggiò l'amministrazione del Sud fino alla fine e ha avviato relazioni diplomatiche con il Paese riunificato solo 10 anni fa.

Il Mattino 30.4.05
La fuga americana
Aurelio Lepre

Trent’anni fa le truppe americane abbandonarono precipitosamente Saigon, la capitale del Vietnam del Sud. Fu una fuga, più che una ritirata, e sembrò segnare, per chi vi assistette, l’inizio del tramonto della potenza militare statunitense. Il più forte esercito del mondo appariva non solo sconfitto, ma anche umiliato da un piccolo popolo, che aveva combattuto per l’indipendenza e per la libertà. Nella storia del XX secolo i presidenti gli Stati Uniti non si erano mai trovati di fronte alla necessità di prendere una decisione così dolorosa. Lasciare l’intero Vietnam nelle mani degli uomini di Ho Chi-minh (il leggendario capo del Vietnam del Nord, che era morto sei anni prima) significava non soltanto ammettere che un esercito di circa mezzo milione di uomini, potentemente armati, non era stato in grado di battere i partigiani del Fronte popolare di Liberazione del Vietnam del Sud (che gli americani chiamavano spregiativamente vietcong), ma anche abbandonare gli alleati. In tutto il mondo le sinistre, ma anche vasti settori moderati dell’opinione pubblica, considerarono quell’avvenimento come uno spartiacque, che avrebbe impresso un corso diverso alla storia del mondo. A trent’anni di distanza, bisogna invece riconoscere che non fu così. La sconfitta subita nel Vietnam fu per gli Stati Uniti soltanto una battaglia perduta, nel corso di una guerra più vasta che li vedeva impegnati, in maniera più o meno aperta, contro l’intero mondo comunista e che alla fine li avrebbe visti vincitori. La vittoria però non sarebbe stata ottenuta con le armi, ma con la competizione economica. Questa, in realtà, è la grande lezione che è possibile trarre oggi dagli avvenimenti vietnamiti. Il Vietnam vinse militarmente, ma non riuscì a decollare sul piano economico. E non soltanto per le grandi distruzioni che aveva subito. Come mostra il fatto che, all’interno del Vietnam comunista, comincia già a diffondersi l’idea d’imitare il grande vicino, la Repubblica Popolare Cinese, e di aprirsi al capitalismo, il grande nemico che era sembrato definitivamente sconfitto nel 1975. In realtà, i partigiani che avevano combattuto nel Vietnam del Sud avevano vinto non perché, come si diceva in quegli anni, i popoli vincono sempre contro gli eserciti, ma perché avevano alle spalle, oltre al Vietnam del Sud, anche l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese. L’Urss e la Cina non erano più alleate: tra le due grandi potenze comuniste si era già verificato lo scontro armato sul fiume Ussuri. Ma fecero fronte comune a sostegno del Vietnam, sul piano diplomatico e con rifornimenti di armi l’Unione Sovietica, con un più aperto appoggio militare la Repubblica Popolare Cinese. La guerra del Vietnam, infatti, era stata il frutto non soltanto della lotta tra comunisti e anticomunisti vietnamiti, ma anche della «guerra fredda». E della diversa visione che ne avevano i sovietici e i cinesi. Nel 1955 i primi, pur concordando sulla riunificazione del Vietnam, che avrebbe portato in realtà la sua parte settentrionale, governata dai comunisti, ad annettersi quella meridionale, avrebbero preferito servirsi di mezzi diplomatici più che della lotta armata. I cinesi, invece, erano già allora per la guerra. Alcuni storici ritengono che dal 1957 al 1960 Ho Chi-minh abbia guardato più all’Urss che alla Cina, concentrando gli sforzi sulla costruzione del socialismo a nord; altri sostengono che l’influenza cinese rimase notevole. Comunque sia, a partire dal 1959, seguendo soprattutto le indicazioni dei dirigenti cinesi, Ho Chi-minh decise d’incrementare l’attività rivoluzionaria a sud. Nel 1961 Kennedy aumentò il numero dei consiglieri militari presso l’esercito del Vietnam del Sud e vi inviò anche dei corpi speciali. Fu l’inizio di un intervento sempre più massiccio. Nel 1964, con la motivazione di un attacco che si sarebbe verificato nel golfo del Tonchino da parte di corvette nordvietnamite contro navi americane, Johnson ordinò bombardamenti a nord del 17mo parallelo, che costituiva il confine tra i due Vietnam. Gli aerei americani, che impiegarono anche il terribile napalm, che bruciava ogni forma di vegetazione, bombardarono anche Hanoi, la capitale del Vietnam del Nord. Ma non ci fu un’invasione terrestre. Gli storici si sono chiesti a lungo perché l’esercito degli Stati Uniti non abbia varcato il 17mo parallelo. La documentazione archivistica suggerisce che non lo fecero, perché la presenza cinese nel Vietnam del Nord era diventata sempre più massiccia. Si calcola che dal giugno 1965 al marzo 1973 la Repubblica Popolare Cinese abbia inviato in aiuto del governo di Hanoi circa 300mila uomini, che non si scontrarono mai direttamente con gli americani, ma dissuasero gli Stati Uniti da un’invasione che li avrebbe portati a un nuovo conflitto con la Cina. Mentre proseguivano, nel Vietnam del Sud, i durissimi scontri con i partigiani, gli attacchi al Vietnam del Nord furono limitati ai bombardamenti aerei, pesantissimi e distruttivi, ma non in grado di piegarlo. Nel 1973 il nuovo presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Richard Nixon, succeduto al democratico Lyndon Johnson nel 1969, decise il ritiro delle truppe americane dal Vietnam del Sud, che fu completato due anni più tardi. La guerra inflisse gravissime perdite umane e materiali al Vietnam. Ma anche la società americana rimase profondamente ferita, non tanto per il numero di caduti, quanto per le fratture che aprì nell’opinione pubblica nazionale e per la perdita di prestigio internazionale. Il governo cercò di fare luce su alcune atrocità commesse dalle truppe americane processandone i colpevoli. Il processo più noto fu quello che si tenne per un massacro di civili avvenuto nel villaggio vietnamita di Milay. Il principale imputato sostenne di avere obbedito a un ordine, secondo il codice militare, e la difesa sviluppò questa tesi. Ma l’accusa dimostrò che anche un semplice soldato, in quanto dotato di ragione, deve saper riconoscere se un ordine è illegale. Il senso di colpa che pervase una parte rilevante dell’opinione pubblica statunitense non fu annullato dalla condanna. Nel 1979, quattro anni dopo l’abbandono definitivo del Vietnam, nel film «Apocalipse now» Francis Ford Coppola riprese «Cuore di tenebra» di Joseph Conrad, in un’interpretazione carica di simboli del passato e del presente: l'Apocalisse non aveva ancora travolto l’universo, ma era già avvenuta nel cuore degli uomini. Il film si chiudeva con le stesse parole del romanzo di Conrad, «Che orrore! Che orrore!». L’anno precedente, in un altro film, «Il cacciatore», Michael Cimino aveva ricordato che, ancora una volta, l’orrore, sia pure in misura diversa, era comune. La più tragica conseguenza di quella guerra furono i fatti di Cambogia, dove, dopo la partenza delle truppe statunitensi dall’Indocina, s’instaurò una repubblica comunista guidata da Saloth Sar, conosciuto con lo pseudonimo di Pol Pot, che tentò di realizzare la più aberrante utopia egualitaria che sia stata mai immaginata, facendo morire milioni di cambogiani. La vittoria riportata nel 1975 dai vietnamiti ebbe serie conseguenze sul piano internazionale. Di fronte a quello che sembrava un progressivo indebolimento degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fu incoraggiata a intraprendere un’offensiva mondiale, che avrebbe trovato il suo coronamento qualche anno più tardi con l’invasione dell’Afghanistan. Ma questa si sarebbe conclusa altrettanto tragicamente di come si era conclusa l'avventura vietnamita per gli Stati Uniti. Dopo il Vietnam e l’Afghanistan fu evidente che la «guerra fredda» non si sarebbe decisa sul piano del confronto militare.

La Gazzetta del Sud domenica 1 maggio 2005
Il conflitto nel Vietnam si concludeva trent'anni fa con l'ingresso dei comunisti a Saigon
La fine della “guerra americana”
Ma oggi il regime punta tutto su un'economia “liberale”
Renato Urbinati

Le 10:45 del 30 aprile 1975. Due carri armati sfondano i cancelli del palazzo presidenziale di Saigon. Poco dopo, la bandiera rossa e blu con la stella gialla del Fronte di liberazione nazionale vietnamita sventola sull'edificio. È la fine della guerra, della «guerra americana», ma anche la fine di oltre tre decenni di conflitti in un paese che, per la prima volta da generazioni, finalmente assaporava la pace. Oggi il Vietnam ricorda quella storica data ma senza particolare enfasi. È ormai un Vietnam diverso, più aperto e pragmatico. La guerra, solo fino a poco tempo fa presente e celebrata ovunque, ora è uno sfondo più sfumato. «Saigon è stata liberata. Alle 13:30 il presidente Duong Van Minh ha annunciato la resa incondizionata del regime fantoccio di Saigon», la radio quel giorno così annunciava la pace, ma anche un lungo e difficile periodo di riconciliazione nazionale. Un dopoguerra afflitto da enormi problemi economici e sociali. «Noi non possiamo dimenticare il passato – dice il generale Hoang Minh Thao, che fu alla guida di uno dei contingenti che diedero la spallata decisiva alla capitale sud-vietnamita – non possiamo dimenticare, ma ora bisogna lavorare con tutte le persone giuste che rispettano la nostra indipendenza nazionale, per il futuro e per lo sviluppo del paese». Il primo ministro vietnamita Phan Van Khai, parlando ieri ad Hanoi davanti ai più alti responsabili del paese, ha espresso ancora la volontà di superare le cicatrici della guerra. «Noi vogliamo sviluppare rapporti d'amicizia per rinforzare i legami con i paesi che parteciparono alla guerra del Vietnam», ha detto Khai. «Noi chiuderemo col passato e guarderemo all'avvenire anche rispetto a quelli che erano nel campo opposto, sia che fossero all'interno o all'esterno del paese». L'allusione, chiara, è oltre che al nemico storico, gli Usa, a quanti furono discriminati (spesso insieme alle loro famiglie) dopo la liberazione per aver lavorato o combattuto per il regime filoamericano. In centinaia di migliaia fuggirono da Saigon temendo rappresaglie. Molti abbandonarono il paese, in maniera disperata. «La guerra è finita da trent'anni. Bisogna che ogni vietnamita, sia che si trovi in Vietnam o all'estero, faccia oggi prevalere lo spirito di riconciliazione nazionale per contribuire allo sviluppo del paese», ha detto il primo ministro. Così quel giorno di trent'anni fa – che pose fine a un conflitto che aveva ucciso tre milioni di vietnamiti e cinquantottomila militari statunitensi – è stato commemorato ieri come «una vittoria di tutto il popolo e di tutti i vietnamiti». E il Vietnam, uno dei pochi regimi che ancora si rifanno al marxismo-leninismo, guarda al futuro con occhio diverso. Il Vietnam e l'ex nemico americano hanno frattanto ripristinato legami diplomatici a partire dal 1995, e hanno firmato un patto commerciale nel 2000. Gli Usa sono oggi il maggior mercato per l'export vietnamita e le dispute attuali tra i due paesi vertono piuttosto sulle tariffe e accessi all'import-export, che su quelle di un tempo riguardanti i crimini di guerra o i soldati «missing in action». Lo scorso anno la United Airlines ha ripristinato voli regolari da e per o Chi Minh City (la ex Saigon). Trent'anni fa il paese si liberava del controllo straniero e ritrovava una sua unità, ma la lunga separazione e la guerra avevano esacerbato le differenze tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud. Modi di vita, economie e infrastrutture diverse. Un Nord forse più operoso, ma penalizzato da uno sforzo bellico totalizzante e martellato dai B-52 americani. Un Sud più aperto e «capitalista», ma abituato a un'economia sostenuta dagli Usa e minata dalla corruzione, che ha conosciuto una diaspora consistente verso la fine della guerra con quelli che fuggivano all'avanzata comunista, e un'altra – quella dei boat people – dopo le carestie e la crisi economica a cavallo degli anni Ottanta. Oggi il Vietnam raccoglie i frutti delle riforme varate a più riprese nel paese per rendere l'economia competitiva e più «liberale». Così, con le piantagioni di caffè che coprono quelli che furono campi delle epiche battaglie nella provincia di Khe Sanh, Hanoi è il maggior esportatore mondiale di caffè solubile. Mentre resti dei carri armati Usa, un tempo lasciati ad arrugginire a ricordo perpetuo dell'aggressore yankee, ora sono stati rimossi dalle spiagge di Na Trang, dove sono sorti alberghi e strutture turistiche. Il Vietnam odierno è un paese con un'economia in espansione rapida (la crescita economica negli ultimi dieci anni è stata in media del 7%), un paese dove «l'America ha perso, ma il capitalismo ha vinto», come ha scritto l'«Economist». Ieri nella capitale vietnamita c'è stata una parata militare senza neppure un carro armato lungo la grande Avenue Le Duan tappezzata da grandi ritratti del padre della patria Ho Chi Minh. Si è svolta anche una cerimonia per coloro che nacquero il giorno in cui i tank comunisti sfondarono i cancelli del palazzo presidenziale dell'allora capitale Saigon, dove l'amministrazione del Vietnam del Sud sostenuta dagli americani passò le sue ultime ore prima di arrendersi. A testimoniare la memoria di un conflitto che ha comunque segnato le passate generazioni e la storia della presenza statunitense nel Sud-est asiatico, c'era comunque uno dei massimi protagonisti dell'epoca: Vo Nguyen Giap, oggi 92enne, il mitico generale che, con le sue brillanti tattiche di guerriglia, sconfisse e costrinse alla resa prima i francesi, con la battaglia di Dien Bien Phu nel 1954, e poi gli americani nel 1975, con la marcia trionfale su Saigon. Negli Stati Uniti, invece, in occasione della ricorrenza, al silenzio delle autorità Usa fa da contrappunto un intenso fiorire di iniziative: dai raduni dei reduci di guerra agli incontri degli orfani vietnamiti adottati dalle famiglie americane. Ma la caduta di Saigon evoca ancora dolorosi ricordi. A New York sarà tenuta, inoltre, una cerimonia il 7 maggio prossimo, per il trentesimo anniversario della firma da parte del presidente Gerald Ford del documento che metteva ufficialmente fine alla guerra del Vietnam. «Al ritorno in patria fummo chiamati "baby killers" e invitati a far sparire prima possibile le nostre uniformi – rammenta Joe Mondello –. Sembra incredibile ma dovettero passare dieci anni, dalla fine della guerra, prima di vedere organizzate sfilate per onorare i reduci».

Giaime Pintor

l'Unità 1 Maggio 2005
Giaime Pintor, dalla crisi europea all’antifascismo
L’itinerario di un intellettuale simbolo e controverso in un volume del Manifestolibri
Gian Carlo Ferretti

Un giovane di straordinario ingegno e grande fascino personale, amatissimo dalle donne e ammirato da tutti, caduto a soli ventiquattro anni mentre all'alba del 1° dicembre 1943 con alcuni compagni cercava di unirsi alle prime formazioni partigiane, dopo avere scritto al fratello Luigi una lettera che diventava il testamento della sua generazione. Nella vita e nella morte di Giaime Pintor ci sono tutte le premesse di una mitizzazione che lo hanno anche assimilato ai grandi nomi della martirologia patriottica o antifascista, da Serra a Gobetti. Una mitizzazione in gran parte fondata. Ma l'esperienza intellettuale, politica, umana di Giaime Pintor è stata troppo complessa per non lasciare ancor oggi aperti non pochi interrogativi. Ai quali cerca di fornire risposte una raccolta di importanti contributi, costruita da Giovanni Falaschi con le relazioni di un convegno del 2003 a Perugia e con altri testi, fino a farne un vero organico libro (Giaime Pintor e la sua generazione, manifestolibri, pagg. 365, euro 26).
Ed è proprio Falaschi che stringe in un pregnante nesso problematico, i tratti fondamentali di quella esperienza in piena guerra. Centrale è la dichiarata contrapposizione del «senso tragico» al « senso scolastico della vita», dell'immagine-verità del soldato combattente al «nominalismo» di una intelligencija che va dalla decadenza borghese e francese alla vacuità e stupidità nazista e fascista. C'è in tutto questo da parte di Pintor l'esigenza costante e ancora una volta dichiarata, di una «presa di possesso del concreto» come bisogno esistenziale della sua generazione. Il suo antistoricismo, più ancora che sul progressivo superamento del magistero crociano e sulla parziale utilizzazione della lezione di Nietzsche, si fonda sulla convinzione della rottura insanabile determinata dalla guerra nei confronti di ogni mediazione e continuità con il passato. Da cui deriva l'analoga convinzione di appartenere a una generazione senza maestri, quasi costretta a sottoporre ogni passata esperienza alla prova della contemporaneità. Fino al celebre testo del 1941: «l'ultima generazione (quella nata fra il '10 e il '20) non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito».
Falaschi inoltre, accanto alla ben nota figura del traduttore e dell'intellettuale einaudiano (al quale sono dedicate anche le testimonianze di Bobbio e Giolitti), valorizza con efficacia il Pintor critico letterario, che salvo rare eccezioni (in primis Luigi Baldacci) non ha avuto i riconoscimenti dovuti alla sua complessiva genialità, alla vastità della sua cultura, alla coerenza della sua militanza etica e civile, alla sicurezza delle sue predilezioni: Ungaretti e Montale, Palazzeschi e Gadda, Conversazione in Sicilia e Americana di Vittorini.
Ma è l'antifascismo di Pintor che rimane il tema più discusso, anche in questo libro. Dove si considera sostanzialmente inadeguato per lui lo schema del «lungo viaggio» del lento e lineare processo di maturazione politica attraverso il fascismo fino all'impegno di combattente. Uno schema che ha avuto non poca fortuna, soprattutto nella variante comunista. Mentre risulta priva di vero fondamento e rigore la tesi opposta del «breve viaggio», ripresa qui da Angelo d'Orsi, secondo cui l'antifascismo di Pintor si collocherebbe «nel periodo successivo all'otto settembre, con qualche antiveggenza nei mesi precedenti». Viene soprattutto da Maria Cecilia Calabri e da Hermann Dorowin, la riproposta in termini nuovi e documentati di un itinerario contraddittorio e conflittuale di Pintor, tutto interno alle istituzioni e alle culture dell'Italia fascista e della Germania nazista. Questa tesi ha le sue premesse nella condizione oggettiva e soggettiva di una generazione, che deve cercare le sue ragioni nella realtà in cui è cresciuta e di cui ha perciò esperienza diretta, «mescolandosi (…)nella vita contemporanea per" coglierne i frutti»: con il consapevole rischio di "confondervisi ", ma anche con la possibilità di capirne i meccanismi e i processi.
Maria Cecilia Calabri porta qui una ricca anticipazione della monumentale biografia di Pintor, di imminente pubblicazione presso Aragno. Con la riscoperta e valorizzazione di materiali editi e inediti (dal Sangue d'Europa ai carteggi), di una fitta rete di relazioni, e delle autocensure e censure nei confronti di affermazioni antifasciste e antinaziste. La giovane studiosa ricostruisce in modo esemplare il percorso che vede Pintor utilizzare i privilegi intellettuali, economici e politici dell'appartenenza familiare altoborghese, sfruttare gli spazi concessi dai Littoriali o dalla rivista di Bottai Primato, partecipare a convegni nazisti come quello di Weimar, maturando un dissenso di matrice illuminista e gobettiana. Una «presa di possesso del concreto» dunque, che ha la sua conclusione naturale nella decisione di entrare in una organizzazione di combattimento. Dal canto suo Dorowin illumina con intelligenza l'altro percorso critico-conoscitivo di Pintor: dalle traduzioni dell'amatissimo Rilke alla recensione ironico-critica di un'antologia di poeti del Terzo Reich, dalla penetrante analisi dell'ambivalenza della tradizione romantica alla variegata gamma delle proposte per Casa Einaudi, che vanno da Weber a Löwith, da Jaspers a Sartre, ma che comprendono anche l'autoritario Jünger o il decisionista Schmitt. Per i quali del resto, come per Nietzsche, rimane valido il classico giudizio di Calvino: «l'esempio di Pintor (…)ci testimonia come i libri possano essere buoni o cattivi a seconda di come li leggiamo». La Germania finisce per segnare anche il destino personale di Pintor: tedesca è la bellissima Ilse Bessell grande amore della sua vita, e tedesca è la mina che lo dilanierà a Castelnuovo al Volturno.
Ma è il saggio di Luca La Rovere (oltre a quello di Gianpasquale Santomassimo), che affronta con lucidità critico-problematica il nodo più cruciale dell'antifascismo di Pintor. La Rovere parte dalla sua presa di coscienza di un presente ineludibile del regime fascista, che ha corroso profondamente le fibre della nazione e che ha perciò irrimediabilmente compromesso ogni passata esperienza antifascista. Per Pintor dunque «uscire dall'antitesi fascismo-antifascismo» (al di là di ogni interpretazione strumentale e interessata), significa anzitutto contrapporre alla «restaurazione di un prefascismo tradizionale sconfitto e inutilizzabile, il postfascismo come vera rivoluzione», totale rigenerazione morale e civile. La scelta che porta Pintor alla morte allora, non sarebbe più la logica conclusione di un personale processo di maturazione, ma il concreto inizio di una difficile ricerca collettiva, di un cammino originale della nuova generazione verso la democrazia. Un superamento perciò delle stesse ambiguità e compromessi scontati da tanti giovani intellettuali durante il fascismo.
Quasi tutti i contributi di questo libro tuttavia, si arrestano a una riserva conclusiva: la difficoltà di chiarire fino in fondo una vicenda intellettuale così intensamente e rapidamente vissuta. Fino a ritenere pertinente, come scrive Maria Cecilia Calabri, la formula romanzesca o retorica : «davvero (…) Giaime Pintor si è portato nella tomba il suo segreto».

il David alla Bobulova

Il Tempo 1.5.05

(...)
Nella serata, presentata da Mike Bongiorno e Luisa Corna, ad essere premiata per prima è stata la Bobulova come migliore attrice protagonista, la quale commossa ha ringraziato Bellocchio, per averla scoperta, aggiungendo che il David è stato «il più bel regalo del suo compleanno»
(...)