giovedì 26 giugno 2003

"soffriva di depressione e di schizofrenia"

La repubblica 26.6.03
NEL DESERTO DI WALSER
Soffriva di depressione e di schizofrenia La sua arte lo spinse a cancellarsi
Era il gennaio del 1929, quando fu accolto a Berna nell´istituto per malati di mente
Le forme di catatonia da cui era afflitto ricordavano piccoli esercizi taoisti
Scriveva preferibilmente a matita e sui margini del foglio con una grafia minuta
Fleur Jaeger

Si richiede: un vestito di lana per l´inverno, di buona qualità. Un vestito per l´estate, di buona qualità. Otto magliette bianche, dieci paia di calze, dodici fazzoletti, due paia di scarpe di cuoio senza borchie. I vestiti devono essere nuovi o in ottimo stato. Ciò che manca o non è in buone condizioni verrà, senza altro avviso, messo in conto nella retta del manicomio se entro un mese dall´ingresso nell´istituto il paziente non lo fornisce.
La direzione controlla la corrispondenza.
Se un paziente muore prematuramente, entro il trimestre, l´anticipo della retta verrà restituito.
Queste sono le regole della Heilanstalt Waldau a Berna, istituto per malati di mente. Il 25 gennaio 1929 vi entra Robert Walser, scrittore e piuttosto indigente. «Innanzitutto qui dentro farò in modo di essere contento e tranquillo» scrive alla sorella Lisa. «Es ist nett, è carino poter ascoltare musica alla radio». Uno psichiatra, il Dottor Morgenthaler, ha consigliato di internare Robert Walser. I motivi: depressione e tentativi di suicidio. Anche un fratello dello scrittore si è suicidato, e un altro è morto nella stessa Heilanstalt Waldau. Robert Walser accenna ad alcuni tentativi di suicidio che definisce «hilflos». Alla lettera, hilflos significa «inerme». Così sarebbe: inermi tentativi di suicidio. Questa singolare espressione accenna a tentativi non riusciti, senza esito, vani. O suicidi senza infelicità, se si pensa al caso di Walser. La parola «inerme» sembra dopotutto la più adatta. Inoltre hilflos significa anche «privo di aiuto». Si potrebbe così supporre che un suicidio abbia bisogno di avere un aiuto per giungere a un buon esito. Aiuto che si potrebbe definire «volontà suicidale».
Aveva forse R. W. una volontà suicidale? Era diffidente, circospetto verso il suicidio. Verso la grande volontà. Si sentiva stanco. Non riteneva il suicidio un gesto estremo. Non è infelice, in cuor suo considera beati coloro che possono essere disperati. Forse un suicidio può compiersi senza disperazione, per un labile desiderio di morte. Un labile desiderio che potrebbe averlo accompagnato da quando sentiva höhnische Stimmen, «voci beffarde», che lo perseguitavano. E forse da molto prima, da quando scriveva alla sorella Lisa che a Dio non piacciono le persone tristi. Anzi, scriveva: «Gott hasst die Traurigen. Dio odia i tristi». E aggiungeva: «Versimple nur. Semplifica». Non farla lunga. Anche qui si potrebbe riflettere sulla traduzione: pare che quel «versimpeln» possa significare: «minimizzare». Walser scrive: «Es ist etwas Herrliches um´ s Versimpeln. C´è qualcosa di splendido nel semplificare». O anche: «È bello semplificare». Quanto a lui, si definisce «ein gefühlloser Halunke», un mascalzone, un malandrino - meglio la parola tedesca: un Halunke «senza sentimenti». Allora forse Walser era già incline, silenziosamente incline, senza sentimenti, agli «hilflose Selbstomordversuche», ai suicidi inermi. Si attribuisce «un paio di tentativi abborracciati» di togliersi la vita. Non è neppure riuscito a fare un cappio come si deve.
Un referto del prof. Kuhn dice che R. W. è affetto da typische stuporöse Katatonie. Da tipica catatonia stuporosa. Come si presenta R. W. in quanto tipico caso di una tipica catatonia stuporosa? R.W. è un esemplare tipico? Com´è la sua immagine? Forse ha qualcosa nello sguardo, una luce, una irradiazione maligna, uno smarrimento, una vaga ebetudine. O una «tipica» ebetudine. Una tipica ebetudine che si manifesta nei gesti remissivi. Nel non agire. Nel dire, senza dirlo: «No, grazie». Che cosa è tipico e che cosa non lo è? O è una parodia di un qualche paziente che Walser ha osservato? Forse la tipica catatonia del paziente Walser non è che un piccolo esercizio taoista.
Ora lui è a Herisau, contro la sua volontà. Internato per sempre. Non scrive più. Non vuole più sentire referti medici, illazioni, domande. Non vuole più rispondere. Vuole tacere. Che altro c´è ancora? Morirà un giorno di Natale durante una passeggiata. Questo non basta? Cerca di essere come tutti, che strana idea. Lui non lo è. Non può essere come tutti. Lui è senza sentimenti. Vorrebbe essere niente. Questo è molto ambizioso. Tra l´altro, ausserdem, è bello essere niente, es hat eine höhere Glut, als da Etwas zu sein. Essere niente ha «un ardore più alto che essere qualcosa». «Ausserdem ist es gerade so schön, nichts zu sein, es hat eine höhere Glut, als das Etwas zu sein».
«Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». È carino, è grazioso, è bello. Questo avrebbe potuto dire R. W. ascoltando la frase: «Preferisco di no». Che è di Bartleby, scrivano e ancor prima impiegato subalterno nell´ufficio delle lettere smarrite a Washington. Lettere di nessuno, perdute, che saranno gettate alle fiamme. Quanto spesso quell´intercalare disarmante tornava negli scritti di Walser. Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön. Potrebbe dare l´insonnia. Come al galoppo questi tre aggettivi ci inseguono, Walser ne cosparge la superficie, con estrema cortesia. E con altrettanta cortesia Bartleby risponde: «Preferisco di no». E se qualcuno avesse offerto a Bartleby di decifrare i microgrammi di Walser, o se fossero stati trovati tra i mucchi di carta destinati? Scritti a matita, apparentemente indecifrabili. L´inchiostro ha disgustato Walser, questo Bartleby l´avrebbe percepito, anche lui ha cominciato a disgustarsi dell´inchiostro, oltre che del resto. Del cibo. Mangiava biscotti allo zenzero. Poi non si nutrì più. La matita è più vicina all´annullarsi, al cancellarsi. A un gioco infantile. Walser scrive a Max Rychner: «...ed è copiando i miei appunti, appunti a matita che, come un bambino, riimparai a scrivere...».
Negli ultimi anni in cui Walser scrisse, la grafia diventava sempre più minuta. Quasi in una corsa frenetica, dove vocali e consonanti a volte venivano abbandonate, smangiate. Non gli basta la carta, del resto ne ha pochissima e deve accontentarsi di quella che trova. «Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». Un foglio del calendario: in quel pezzo deve starci tutta la storia che scrive. Può anche non finire le storie che racconta. Dipende a volte dalla dimensione dei pezzi di carta. La carta misura quindici centimetri, ebbene in quei quindici centimetri deve svolgersi la storia. La lunghezza di quel che scriveva era determinata dai centimetri o millimetri di spazio a disposizione. Ed era forse questo che attraeva Walser: coprire quello spazio vuoto. Sovrapporre al vuoto un altro vuoto. Scriveva ai margini del foglio e la grafia, sorella del linguaggio, sembrava presa da una furia, dalla furia di riempire e svanire. Dissolto ogni altro sentimento, rimaneva quel mite e inflessibile horror vacui che lo spingeva a coprire la carta, a folleggiare come uno spettro. Con una costellazione di segni, di pensieri, con una scrittura segreta, che a volte lui stesso non riusciva a decifrare. Perché poi rileggere? Ciò che è scritto, è scritto. Walser non ha più tempo. I fogli di carta sono reali, li ha appena scritti, ma la loro sostanza non è che un´illusione. Il foglio vuoto è come una Öde, un paesaggio bianco desolato. Scritti, quei fogli hanno la configurazione di un vuoto increspato. Di una distesa del deserto. Le due immagini convergono, come se il vento avesse sfiorato le dune, lasciando tracce.