giovedì 31 luglio 2003

Michelangelo Buonarroti

La Gazzetta di Brescia 31.7.03
GRANDI ARCHITETTI
L’esperienza di Michelangelo nella città eterna, oltre gli schemi dell’arte antica
L’impronta del genio su Roma rinascimentale
di Chiara Fabbrizi

E venne Michelangelo. Pittore, scultore, poeta, mistico, e architetto. Nelle sue lettere il Buonarroti dice di rifiutare la «professione di architettore», ma sia vera o falsa la modestia che si nascondeva dietro questa affermazione, magari fatta dal nostro genio per distinguersi dagli altri architetti in un momento in cui questa professione era piuttosto degradata, è certo che già nella Cappella Sistina egli fece architettura. Nell’immenso affresco, infatti, il meccanismo narrativo è scandito da una netta struttura architettonica creata non solo da archi, cornici e pilastri dipinti, ma anche da alcune figure, come gli Ignudi, collocate in posizioni simmetriche e usate come se fossero elementi architettonici. L’architettura non diviene con ciò serva della pittura, ma si fonde ad essa: è un miracolo reso possibile dalla forza del linguaggio michelangiolesco. Una delle caratteristiche di questo gigante dell’arte è che lasciò molte opere incompiute, in particolare quelle architettoniche; e se nessuno si sognerebbe di completare con qualche altro colpo di scalpello i celebri Prigioni, che così come sono sembrano tesi nello sforzo di uscire dalla pietra, non ci si è potuti permettere il lusso di tenersi palazzi e chiese allo stadio di abbozzi; e la conseguenza è stata un inevitabile snaturamento dei progetti da parte di coloro che gli succedettero: così i Dioscuri snaturano piazza del Campidoglio, la piatta facciata del Maderno nasconde la cupola michelangiolesca di San Pietro, il geniale progetto per Santa Maria degli Angeli a Roma non ebbe seguito, le fortificazioni per Firenze rimasero sulla carta e così via. L’incompiutezza di queste opere, tuttavia, non scalfisce il loro valore rivoluzionario. Che prendesse in mano un pennello, uno scalpello o un compasso, infatti, Buonarroti riuscì sempre a creare qualcosa di nuovo, avventurandosi su strade mai battute prima, senza temere di affrontare percorsi faticosi e accidentati. L’originalità del genio michelangiolesco è già evidente nelle opere fiorentine, come la Biblioteca Laurenziana, la prima biblioteca di formazione profana a gareggiare in lustro con l’Apostolica in Vaticano; o la Sagrestia Nuova di San Lorenzo, rispettosa del precedente edificio progettato da Brunelleschi. È nelle opere romane, tuttavia, che si riflette chiaramente la forza della gestione michelangiolesca dello spazio, e innanzitutto nella piazza del Campidoglio, esempio di architettura e urbanistica di altissimo livello, benché del progetto michelangiolesco conservi tracce frammentarie e discontinue. Prima dell’intervento di Michelangelo il colle era raggiungibile dalla scala dell’Aracoeli e appariva sormontato, oltre che dalla chiesa dell’Aracoeli, dal Palazzo Senatorio e da quello dei Conservatori, tra loro convergenti: Michelangelo ruppe la continuità che c’era con la chiesa chiudendo la piazza con un terzo palazzo, gemello di quello dei Conservatori e attuale sede dei Musei Capitolini. Con questo gesto creò di fatto una distinzione tra Stato e politica da una parte, e Chiesa e apostolato dall’altra. Lo spazio della piazza risulta compresso in modo da essere esplosivo; la simmetria dei due palazzi gemelli e divergenti crea un’apertura in più direzioni, e le facciate dei palazzi sono allo stesso tempo le pareti della piazza, che appare così una vera e propria struttura architettonica. Una nuova scala ne rese poi l’accesso autonomo da quello dell’Aracoeli: si trattava di una cordonata, ovvero una scalea con gradini larghi e bassi che nel progetto michelangiolesco non prevedeva le statue dei Dioscuri che oggi offuscano sia la prospettiva sui palazzi, sia la statua di Marco Aurelio. Sotto appariva la città varia e multiforme, sopra, la forma perfetta e unica della piazza, simile a una sala «nella quale attrarre e chiudere il visitatore», come dice Bonelli: da lassù ben presto si sarebbe potuto dominare anche la cupola della nuova chiesa intitolata a San Pietro. Questa è una delle tracce più grandiose che il passaggio di Michelangelo lasciò nella Città Eterna. Per il più grande tempio della Cristianità l’artista aveva in animo di riprendere la pianta a croce greca progettata da Bramante, ma la basilica che oggi conosciamo, frutto del contributo di tanti architetti diversi, conserva ben poco delle idee michelangiolesche, spazzate via soprattutto dall’intervento di Maderno. Fu invece Bernini, con la costruzione del baldacchino, a restituire centralità alla cupola michelangiolesca riflettendone la luce, così come con il colonnato esterno pose tra due parentesi la piatta facciata di Maderno deviando lo sguardo verso il «Cuppolone» tanto caro ai romani. Poco distante dal Campidoglio la mano di Michelangelo si nasconde ancora dietro l’originalissima Porta Pia, un’opera nella quale il lessico del classicismo viene rielaborato ed espresso in una sintassi nuova, eretica: ecco allora che una pausa, uno spazio vuoto sostituisce il capitello sopra i pilastri, in un gioco alternato di fedeltà e apostasia nei confronti del repertorio rinascimentale. Fu proprio questa libertà nell’interpretare la tradizione che rese il Buonarroti poco simpatico agli architetti suoi contemporanei. Odiato dal Vignola e dalla cosiddetta «setta sangallesca», fu letteralmente detestato da Pietro Ligorio, il quale, quando seppe di dover collaborare con lui a San Pietro, si dimise pubblicamente. L’ostilità dei suoi colleghi più «allineati» si riflette nel modo in cui le opere da lui iniziate o progettate furono portate a termine. Basta guardare la chiesa di Santa Maria degli Angeli nell’area delle Terme di Diocleziano, sempre a Roma, per capire che avremmo avuto un altro notevolissimo esempio di ottima architettura e gestione urbanistica, se solo si fosse seguito il progetto michelangiolesco: la chiesa sarebbe risultata perfettamente fusa alla zona archeologica nella quale è inserita e il luogo sacro avrebbe interloquito con lo spazio profano delle antiche terme dalle quali sarebbe stata ricavata - invece di esserne isolata come appare oggi, - proprio come desiderava il committente Pio IV, che intendeva sì alimentare il culto divino, ma anche tutelare quella «veneranda antichità». Forse fu solo un caso se Michelangelo non lasciò opere architettoniche finite. Tuttavia è più suggestiva l’ipotesi, avanzata da Bruno Zevi, che il non-finito sia la cifra caratteristica di un’arte che vuole celebrare la sconfitta della forma rispetto alla vita, il rifiuto programmatico di non dare soluzioni definitive a problemi necessariamente sempre aperti. E forse Roma stessa, città organica e policentrica, sempre in corso di definizione, può essere considerata, per dirla ancora con Zevi, un gigantesco «non-finito michelangiolesco», a cui gli immediati successori del Buonarroti non poterono fare altro che apportare piccoli ritocchi.