giovedì 25 settembre 2003

Giancarlo Santalmassi e Adriano Ossicini, su «Buongiorno, notte»

(segnalato da Licia Pastore e da Lucia Ianniello, che segnala anche un articolo apparso su Il Giornale di oggi, dal titolo: "L'effetto Bellocchio sulle librerie: tornano Braghetti, Faranda & c." che non sono riuscito a trovare in rete)

Il Riformista 25 Settembre 2003

SVOLTE. L'ULTIMO ATTO DI RESISTENZA AL DOMINIO DELLE REAZIONI EMOTIVE
Buongiorno, notte: come eravamo al Tg2
Perché Bellocchio nel suo film ci ha preferito al Tg1: l’età del’innocenza tv finì allora, non a Vermicino

di Giancarlo Santalmassi


Del contenuto di Buongiorno, notte sì è discusso molto, ma sarebbe giusto parlare anche del linguaggio usato dal regista. Oltre a quello cinematografico c'è anche quello documentario, teatrale e televisivo. Del repertorio cinematografico e documentario ci sono I tre canti di Lenin di Dziga Vertov; Paisà di Roberto Rossellini; I 600 giorni di Salò di Nicola Caracciolo: servono per esprimere l'opinione dell'autore sulla formazione ideologica dei terroristi e sulla loro confusione culturale.
La finzione «teatrale» è così spuria rispetto al contesto da sembrare girata a parte: Paolo VI che butta per aria la lettera con i consigli che gli vengono dai palazzi della politica; e poi la seduta spiritica, in cui lo stesso regista si include tra gli spettatori. Sequenze in cui Bellocchio sembra esprime un suo giudizio tra il rabbioso e lo scettico sulla possibilità di ottenere la liberazione del prigioniero, o di scoprire il suo carcere.
Infine c'è il linguaggio della Tv. Per Bellocchio (Repubblica 15 settembre), «È un personaggio molto rilevante, una presenza costante nel covo, che ha la funzione di mescolare la realtà storica con la finzione cinematografica. Una Tv che restituisce forte la realtà». Ed è della Tv che vorrei parlare perché nel '78 c'ero e sono anche oggi nel film, visto che Bellocchio ha scelto proprio l'edizione straordinaria del Tg2 da me condotta per introdurre questo «personaggio» che i brigatisti guardano con la stessa ansia con cui scrutano gli elicotteri in volo su Roma alla ricerca di tracce dello statista democristiano. Sono immagini che ci restituiscono una televisione fortemente diversa, nella quale sono bene in evidenza le tracce della crisi della Rai di oggi.
Dunque, perché il Tg2 e non il Tg1? La risposta è nell'analisi dei Tg Rai di quel giorno (ma anche di Tv private, di Gr pubblici e privati e di quotidiani di opinione e di partito) condotta da un gruppo di ricerca dell'Università di Roma coordinato dal prof. Mario Morcellini e uscita col titolo «Il ruolo dell'informazione in una situazione di emergenza: 16 marzo 1978». Lo dice con chiarezza a pagina 176 e dintorni: «L'edizione straordinaria del Tg1 appare contraddistinta dalla costante preoccupazione di assicurare largo spazio alle valutazioni e commenti dei membri ufficiali del sistema politico. Il modo in cui viene assolto il compito di comunicare l'eccezionale gravità dell'accaduto è costituito dal privilegio costantemente accordato ai richiami emotivi, dall'uso di registri congestionati, di elevate ridondanze e insistenza su elementi di dettaglio che contribuiscono a conferire all'informazione teletrasmessa dal Tg1 una forte connotazione drammatica, determinata anche dalle continue interruzioni dalla regia, dall'intervento improvviso di altri redattori, cui si accompagna l'assenza di indicazioni sulle reazioni popolari, col pericolo di rinchiudere il telespettatore in una prospettiva meramente individuale. Nel Tg2 sembra prevalere l'esigenza di facilitare negli utenti – accanto ad una comprensione razionale dell'accaduto, delle possibili cause che l'hanno determinato e delle sue conseguenze politiche – il dominio delle loro reazioni emotive. Così può forse interpretarsi l'ordine e la compostezza dello studio centrale interamente gestito da un unico conduttore cui va aggiunta l'importanza accordata sin dai primi momenti alle reazioni popolari nel palese tentativo di convogliare le energie individuali e le tensioni emotive verso forme di impegno e di mobilitazione nella straordinaria anche un importante collegamento col processo alle Br in corso a Torino, sulla consapevolezza del sequestro di Moro tra i brigatisti in carcere e l'impatto su una città già colpita dagli assassinii di Casalegno, Berardi, Coco, Croce e un collegamento con Montecitorio con Emmanuele Rocco, autore di una nota che può forse essere interpretata come l'unico vero momento di esplicita riflessione sulle generali conseguenze del fatto».
Una diagnosi impietosa. Si discute ancora se oggi sia «servizio pubblico» la tv dell'emozione, dell'enfasi, della lacrima e del dolore. Dopo la riforma del '75 i giornalisti del vecchio telegiornale unico di area cattolico-democristiana optarono in maggioranza per il Tg1. Gli altri, quelli dei settimanali come Tv7 o di «AZ-un fatto come e perché» (qui si era formata la mia esperienza), di area laica, socialista e comunista, scelsero il Tg2. Andrea Barbato, Aldo Falivena, Ennio Mastrostefano, Italo Moretti, Piero Angela, Brando Giordani, Sergio Zavoli erano le armi per combattere la concorrenza fortissima nata mediaticamente nel 1975 tra la destra e la sinistra di allora. Convivenza tra riformisti e massimalisti che si incrinò inesorabilmente nel '78, proprio sulla linea della fermezza sul caso Moro.
C'è un altro brano della Tv di allora usata da Bellocchio in modo assai sofisticato, e che vale una annotazione: la voce di Tina Anselmi (fuori campo: nel film il televisore è nella stanza accanto) che parla dei malati di mente (pazzi, nel politically uncorrect dell'epoca) messi in libertà dalla legge Basaglia. Un problema che una sinistra riformista oggi dovrebbe meditare. Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalla stessa Chiara-Braghetti due anni dopo l'assassinio di Moro, è stato l'unico a coglierne il valore, anche politico, di quella citazione. «Bellocchio aveva conquistato la mia antipatia da quando a 21 anni avevo visto il suo film Matti da slegare. A me il suo matto che usciva dal manicomio convinto che preti e padroni (non la propria malattia mentale) fossero la vera causa di tutti i guai, suoi e del mondo, sembrava più matto e pericoloso di prima. Ma allora dirlo non era molto di moda. Se nonostante queste premesse il film è riuscito a conquistarmi vuol dire che identici ingredienti – musiche, locomotive, falci e martelli, facce dei carnefici e formidabile umanità di Moro – parlano in modi diversi a diversi spettatori.
PS. Non è vero che la Tv perse l'innocenza nel 1981 con l'insensata cronaca da Vermicino del fallito salvataggio di Alfredino Rampi. L'innocenza dell'intero sistema dei media italiano andò perduta tre anni prima, col caso Moro. Gli assassini, i loro complici materiali e morali, aiutati dalla debolezza della Prima Repubblica, tentarono di usarla, di influenzarla, di ricattarla. Allora – semmai qualcuno ancora ci credesse – cessò la presunzione di neutralità dell'informazione. Vermicino aprì un'altro interrogativo: se la società dell'informazione sia anche la società della conoscenza.

www.clorofilla.it 35.9.03

Rassegna Stampa. Europa. Il film di Bellocchio sulla prigionia di Moro: il giudizio artistico prevale su quelllo storico e politico
"Buongiorno, Notte", Ossicini: «E' solo poesia»
di Adriano Ossicini


Era abbastanza comprensibile che un film che affrontava sul piano narrativo il periodo della "prigionia" di Aldo Moro oltre tutto partendo, in qualche modo - come ha dichiarato Bellocchio - anche dalle riflessioni di una "brigatista" addetta fra l´altro alla "custodia" del prigioniero, avrebbe suscitato oltre che un notevole interesse ovviamente anche delle polemiche ed era facile prevedere che queste avrebbero travalicato quello che deve essere un giudizio su un´opera cinematografica, che è quello artistico. A mio avviso questo è avvenuto in modo non solo particolarmente ampio, ma con giudizi e affermazioni che credo richiedano una riflessione.
Questa riflessione la faccio tenendo conto che, proprio per il ruolo che io ho avuto in quel momento drammatico, sia come amico di infanzia di Aldo Moro, sia perché politicamente impegnato come parlamentare in quel dibattito e in quelle decisioni politiche, capisco che quei drammatici avvenimenti, comunque riproposti, spingano inevitabilmente a dare giudizi storici e politici.
Però, nonostante la mia partecipazione emotiva, anzi proprio per questa, credo che sia giusto ribadire l´importanza che il giudizio sul film sia quello sul livello poetico di un´opera narrativa.
Non c´è dubbio che Bellocchio abbia voluto dare, anche nella sua interpretazione del testo che aveva preso come spunto, dei suoi giudizi storici o politici. Era inevitabile; ma questi non vanno, secondo me, analizzati come elemento di valutazione dell´opera poetica dato che, come io credo, in questo film sul piano narrativo questo aspetto poetico ci sia.
In fondo, molti personaggi storici sono stati variamente interpretati molto al di là o al di fuori di una stretta analisi storico-politica, sulla base di aspetti che in qualche modo si ritenevano indispensabili per una narrazione quale quella che è rappresentata da un´opera che contiene nelle sue immagini possibilità di messaggi suggestivi come quelli di un film.
Bellocchio ha ritenuto molto più spesso sentimenti che fatti; ha centrato il suo discorso su rapporti psicologici in una dinamica di gruppo molto limitata, spesso addirittura chiusa in uno spazio brevissimo, come quello drammatico della prigione di Moro. A mio avviso questa narrazione ha mantenuto uno indubbio valore, ci ha partecipato emozioni non trascurabili ci ha posto di fronte a soluzioni immaginative suggestive.
Il giudizio estetico è complesso ed io non sono tra coloro che vogliono entrare nella polemica sul fatto che il film di Bellocchio meritasse o no il massimo premio a Venezia. Mi pare soltanto sbagliato sfuggire, almeno in parte, da una valutazione del percorso narrativo di questo film con richieste o polemiche sul piano storico e politico.
Oltretutto la vicenda del rapimento e dell´uccisione di Moro è così complessa che ancora non è possibile dare in modo serio e definitivo né un giudizio storico né un giudizio politico.
Certo si sente in qualche modo la polemica di Bellocchio contro il partito della non trattativa. Ma anche la divisione tra chi da principio dichiarò che comunque non si doveva trattare e chi dichiarò che si doveva trattare non è poi così schematica come spesso la si vuole rappresentare.
Io per esempio, firmai un documento assieme ad altre personalità che solo Lotta Continua pubblicò, nel quale si dichiarava non giusto negare ogni possibilità di trattativa, a priori.
Questo non toglie che nel convulso succedersi degli avvenimenti non mi sia poi reso conto della problematicità, della difficoltà e per molti aspetti della impossibilità, di una seria trattativa.
Una breve notazione infine.
Se anche non si è ritenuto, a Venezia, premiare un film, comunque, di notevole spessore con il massimo riconoscimento, penso che almeno si poteva emblematicamente premiare la straordinaria recitazione del protagonista Roberto Herlitzka, che a mio avviso rappresenta uno dei momenti più alti del film stesso.