giovedì 25 settembre 2003

metafisica

La Repubblica 25.9.03

LA METAFISICA
Fin dal primo quadro "La torre rossa" si intuisce l´alto profilo di questa mostra che ricostruisce il percorso dell´avanguardia
ROMA - I CAPOLAVORI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA IN MOSTRA

di FABRIZIO D´AMICO


Fin dal primo quadro della sala d'avvio, che s'intravede già di lontano, al termine della scalinata d'ingresso, s'intuisce l'alto profilo di questa mostra, Metafisica, aperta dal prossimo sabato alle Scuderie del Quirinale: è La torre rossa di Giorgio De Chirico, esposto al Salon d´Automne del 1913 in una delle primissime mostre cui il pittore, che s'era stabilito nell´estate dell´11 a Parigi, partecipava. Fu quello, anche, il primo quadro che De Chirico vendette («a un uomo anziano che si chiamava Olivier Senn», ricorderà più tardi, con intatta gratitudine): una tela non grandissima (un metro di base), misteriosamente capace però d´allargare sulla parete l'eco d'una propria strana spazialità, immensa e silenziosa, costruita attorno a quel luogo vuoto che, unicamente, la pittura narra. Lente, lunghe ombre traversano l'opera: nelle quali pare alitare l'aria ancora accaldata dal sole calante; quinte altissime la cingono, stringendola d´assedio, sino all'orizzonte basso e lontano: mentre in mezzo ad esse s'apre uno spazio deserto, non calpestabile - diresti - da alcuna umana presenza. Già allora, dirà De Chirico, «avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d´autunno, di pomeriggio, nelle città italiane».
Proprio accanto, proveniente dal Museum of Modern Art di New York, sta oggi un altro grande dipinto di quell´anno ancora aurorale e già magico: Il viaggio inquietante, ove frammezzo alla prospettiva ipertrofica, malata e ossessiva delle arcate svettanti e cieche (quasi la versione "italiana" delle cigolanti, gotiche arcate che avevano poco prima assillato lo spazio egualmente ansioso delle Saint-Séverin di Robert Delaunay, certamente conosciute da De Chirico) s'apre, a sinistra, un pertugio. In esso, dal fondo, oltre un muro, s'avanza sbuffando una locomotiva: segno, poi ritrovato in tanti dipinti, della sua natura d´Odisseo, d'una vita sua condotta vagando, senza radici («quel destino» - dirà - «che finora mi ha costretto di andare sempre di gente in gente...»).
Solo un Max Ernst e un René Magritte affiancano i due De Chirico nella prima sala. Di Ernst la Pietà ou la Révolution la Nuit, del 1923; di Magritte La vie secrète, del '28. Nel primo un uomo in bombetta, inginocchiato come per un´offerta, consustanziale diresti al muro che ha alle spalle, regge in braccio un bambino troppo cresciuto, in via di trasformarsi in statua (o di farsi, da statua che era, bambino?: ripetendo un´ambiguità sondata da De Chirico in molti autoritratti dei primi anni Venti); sullo sfondo, graffito sul muro, un ritratto d´Apollinaire, ferito all'occhio in guerra e bendato. Nel secondo, una sfera sta immobile, sospesa nella camera senz´aria, segnata solo, a terra, dalle assi prospettiche dell´impiantito. Provengono, rispettivamente, dalla Tate di Londra e dalla Kunsthaus di Zurigo: così che fin dall´inizio la mostra si svela per quel che è: una mostra di capolavori, provenienti dai più prestigiosi, e gelosi, musei mondiali; e per quel che vuole dimostrare: l'eco profondissima che la pittura degli anni Dieci di De Chirico seppe suscitare in tanta parte dell´arte europea nei successivi decenni (e, infine, sull´avvio della stessa vicenda contemporanea d´oltreoceano).
Ester Coen, che l´ha assai ben scelta e ordinata (curando anche il catalogo Electa), dedicandola alla memoria di Giuliano Briganti - assieme al quale aveva lavorato alla memorabile esposizione sulla metafisica allestita a Palazzo Grassi nel '79 - ha inteso qui, oltre che riproporre ad un'ulteriore generazione l'indagine su un tempo cruciale dell'arte italiana, sottolineare proprio quest'aspetto della vastissima eredità che la pittura dechirichiana lasciò agli amici surrealisti - ben presto trasformatisi, è ben noto, in acerrimi detrattori. Una falange di talenti che se, di fronte al De Chirico tutto mutato degli anni Venti, credettero di poterne denunciare l´involuzione (certo con ciò cogliendo anche occasione per rinnegare, almeno a parole, una lezione avvertita ormai come troppo ingombrante), non smisero però di guardarlo, od anche - come, ad esempio, il caso del dipinto più sopra citato di Ernst clamorosamente dimostra - di ripeterne testualmente modi, temi, forme.
L'assunto della mostra, limpido e peraltro tutt'altro che sconosciuto agli studi, è, nel progresso delle sale, dimostrato con evidenza, e con pregnanza ed esattezza di riferimenti. Non per caso, se non erro, solo una sala (ove s'adunano fra l´altro molti quadri, non grandi, del periodo ferrarese, dal '15 al '18, quando De Chirico, "esule" adesso da Parigi, con l'Italia in guerra e gli amici lontani, comincia a sentire il fascino suadente di una «memoria» di sé, del proprio passato, delle proprie ogni volta recise radici; una memoria alternativamente venata di malinconia o d´orgoglio, e d'ora in avanti in lui sovente ritornante e sempre feconda) si sottrae al gioco dei confronti, ed è dedicata esclusivamente a De Chirico. Ed una sola, l'ultima, è orfana di suoi dipinti: là dove Femme cuillère di Giacometti e soprattutto Light in August di de Kooning spostano il riferimento ad una possibile matrice dechirichiana su un altro terreno (giustamente, peraltro, la Coen sottolinea come la diaspora a New York dei surrealisti, e delle loro collezioni ricche di dipinti di De Chirico, nei secondi anni Trenta abbia contribuito a disseminare anche lì il seme di quella pittura, ingenerando nei suoi confronti un´attenzione diffusa, e in ultimo confermata dal saggio monografico di Soby del '41).
"Metafisica" fu anche la pittura di Carrà - quando uscì da futurismo e primitivismo, e a Ferrara appunto incontrò De Chirico. E alcune delle sue opere più famose sono qui presenti, a dimostrare come la prima complicità con la pittura dechirichiana si dette proprio in Italia: dalla Composizione TA, datata 1916 ma più volte ripresa più tardi, a L'ovale delle apparizioni, da La camera incantata - forse l´opera sua più prossima De Chirico - sino al Figlio del costruttore, in cui Carrà già si protende verso il tempo che verrà. Ancora, fu "metafisico", per brevi mesi ma straordinariamente, Morandi: che fece, fra '18 e '19, un piccolo numero di capolavori in quella chiave stilistica, gran parte dei quali è oggi in mostra: dalla Natura morta con la sfera, già collezione Jucker, a quella della Galleria Nazionale di Roma, a quella col manichino e la strana fiammella al centro, proveniente dall´Ermitage di Leningrado, che fece pensare Arcangeli ad un gioco, quasi, dadaista. Altre cose, di Morandi, son poi da dirsi in uscita da quel suo tempo breve, e già nel clima di "Valori Plastici" - dal quale d'altronde, sotto l'ala di Mario Broglio, sia De Chirico che Carrà traevano impulsi per un fascinoso "ritorno" ad una tradizione che si voleva immaginare "classica". Così il manichino si unisce al pane, e alla bottiglia ben tornita, nelle due nature morte milanesi, e scompare del tutto dall´ultima, con la frutta, il panno e i pani, del '19. Così che quando proprio De Chirico ne presenterà l´opera alla «Fiorentina Primaverile» del '22, scrivendo che «egli partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall´ultima profonda arte europea: "la metafisica degli oggetti più comuni"», in realtà Morandi è già ben oltre quel linguaggio, avviato in solitudine alla sua più alta stagione.

La Stampa 25 Settembre 2003

A ROMA SI INAUGURA DOMANI LA GRANDE MOSTRA SU DE CHIRICO & C., MENTRE A MERANO SI METTONO IN VETRINA GLI «EREDI»
METAFISICA
La banda dei teppisti

di Marco Vallora


GIORGIO De Chirico, inesausto auto-biografo di sé, e non soltanto per via di pittura, annunziandosi come nuovo Vaticinatore salvifico e demonizzando il mondo d'avanguardia, annotava: «Viviamo in un'epoca che non riesce mai a darci quel brivido gelido, quella gioia solitaria e profonda della rivelazione; della composizione concepita come tale, strana, insensata, in cui vediamo tutto un mondo che nessuno conosce, di cui siamo forse i soli abitanti». Difficile riproporre oggi lo choc innocente e sbigottito dello sguardo, che quelle tele-sortilegio provocarono nei primi argonauti, che si imbatterono in quei paesaggi stupefatti e deserti, ove il silente fil di ferro d'un treno passa, cucendo l'orizzonte assopito. Incontri «fatali», che per esempio cambiarono anche la vita d'un Magritte, che di fronte al Chant d'amour 1914 di De Chirico ammise: «È la prima volta che ho visto il pensiero». Ecco: «vedere il pensiero» è comunque l'immediata e conturbante sensazione, che si prova entrando alla mostra «Metafisica», immaginata - come un sogno battagliero - da Ester Coen e benissimo impaginata da Daniela Ferretti, con grandi respiri ossigenati di opere pausate, sino all'impietrito torso della Femme qui marche di Giacometti, e poi, salendo all'empireo della parte più analitica, alla sua totemica Femme-cuillière. Due punti di fuga di questo enigma, che si chiama «Metafisica». Ma entrando, l'impatto con la dechirichiana Tour Rouge (di rara visione) e il già littorio Voyage émouvant, è illuminante: una lezione di storia del pensiero. Mura mattonate, superfici-ostacolo, silenzi allarmanti, arcate bislunghe che scalano e affollano il cielo, come portatili torri di Babele, il fischio afono del treno, che ci viene addosso, quasi il primo film terrorizzante dei Fratelli Meliès, e che poi si solidifica in una cotonina da presepe industriale. Mentre la dongiovannesca statua del Commendatore, che pare entrare in scena per un «attacco» sbagliato, annuncia una pièce pirandelliana, che non avrà mai luogo.
Sospensione caramellata del mondo e rivelazione straniata d'un universo, frequentato soltanto dal «gelido urlo degli dei che muoiono». Ma anche noi visitatori, se la folla «non preme ai nostri polpacci» (lo diceva il perfido Dioscuro) possiamo vivere la curiosa sensazione d'essere i primi, gli unici «abitatori» privilegiati, di quelle disertate pianure urbane. Se ci si guarda alle spalle (dov'è puntato il proiettile sospeso della magica Vie Secrète di Magritte, che come lo Zarathustra di Nietzsche, tanto amato da De Chirico, potrebbe tendere un filo da saltimbanco tra Odilon Redon e il giovane Marco Tirelli) ed ancor più, se ci si lascia distrarre dall'affiche parodica della Pietà di Max Ernst (che «prende in braccio» la spoglia della pittura picassiana di quegli anni, in una sorta di Delvaux alla Max Linder) non solo il senso della mostra si va chiarendo. Ma risulta molto evidente quello che De Chirico predicava. «Il quadro profondo mancherà di tutta quella gesticolazione, di quell'idealismo che attira gli sguardi della folla e fa spiccare il nome di un artista. Ogni faccia spasmodica, ogni movimento forzato sarà messo da parte».
Anti-futurista per costituzione viscerale, egli dipinge un mondo apparente disertato della figure, vuoto d'ogni «crosta troppo umana». In cui anche le sensazioni e la Stimmung romantica, si fanno cose: dure come i carciofi, che nella sua pittura hanno la pelle esplosiva, armata, d'uno shrapnell cascato dall'Olimpo. Al limite due incongrue figurette ventose, tipo Visitazione di Sant'Elisabetta, sovrastate dall'architettura dominante a sottolineare ancora di più l'insensatezza logica della scena. Immobile come una decalcomania filosofica. «In tal modo l'opera si avvicinerà al sogno ed anche alla mentalità infantile». Ma non certo nel senso surrealista del sogno, dell'inconscio. Il «greco» De Chirico, abituato a dialogare con Edipo e la Sfinge - quasi fossero dei commilitoni imboscati - disprezza il frullato edulcorato della psicanalisi freudiana, così «sorella al pettegolezzo». Ed entrerà presto in conflitto con il «poliziotto dei sogni» André Breton. Cocteau, che è molto più perspicace, capisce subito, col suo Mistero Laico, che De Chirico è l'unico, vero anti-Picasso (che infatti fa incetta dei disegni dell'italiano). Picasso, come i cubisti, o i futuristi, vogliono riprodurre (analizzare, capire meglio) la realtà: sono ancora dei vegliardi mimetici. Per la banda dei metafisici, teppisti schopenaueriani, invece, è necessario intraprendere un nuovo, radicale viaggio nell'al di là, scavalcando le simboliche mura di mattoni, che ci nascondono alla vista le verità abissali, plurali, terribili. «Qualcosa di terribilmente superficiale, come un sorriso di bambino che non sa perché sorride. E più che mai sentii allora che tutto ciò era lì fatalmente e senza ragione e non conteneva alcun senso». La rivelazione quasi estatica, che il convalescente, nicciano, De Chirico, vive in Santa Croce, è esattamente il contrario del déjà vu surrealista: non ritrova qualcosa di già esperito nell'inconscio, ma crea delle maschere nuove, che da un lato suggeriscono l'enigma, dall'altra s'impediscono di risolverlo. «Vivere nel mondo - scrive - come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi, che cambiano d'aspetto, che a volte come bambini piccoli rompiamo per vedere come sono fatti dentro -accorgendoci delusi che sono vuoti».
Sono i giocattoli mentali che anche Savinio incomincerà a baloccare miticamente, intasando le sue tele come di nuvole casalinghe: coloratissime maschere del vuoto. Non certo le maschere primitive, africane, che seducono Picasso e Apollinaire: perché il «primitivismo» dei due fratelli è quello del Museo letterario. Ulissi, Polifemi, eroi ariosteschi. E se quegli eroi si stanno murando in scolpiti manichini, facciamo attenzione a quelli coevi di Carrà. Questi sono manichini bonari, sartoriali, non certo biblico-omerici. E stanno scongelandosi, tramutandosi in educati rampolli di casa: come il Figlio dell'Ingegnere, che finalmente ripulito, poco a poco rivela prodigi di gialli fumiganti, esotici scarpini di seta e caldi segreti di casa. Rivelatore invece il confronto tra il purismo arcaico di Brancusi e l'essenzialità acrobatica di Morandi, che ha matrice tutta diversa, addirittura pescando in Chardin. Morandi scarnifica, liofilizza il reale, che però resiste e che lui agghinda in anticipo, come un teatrino, per poi tradurlo in pennellate. Canta l'immagine platonica, iperurania del mondo. Non ha cuore nemmemo di firmare i suoi oggetti anonimi, ammaestrati come cagnini. Solo una data sospesa, 1918, che diventa una fibbia dell'aria, un cediglia sussurrata, un ulteriore fregio metafisico. Che però non cancella la realtà preesistente. Guardiamo invece la Casa del Poeta di De Chirico. Le sue squadre, i suoi righelli, i suoi cavalletti di gruviera, salgono al cielo azzuffandosi con i vecchi affreschi tiepoleschi di casa Govoni. Morandi purifica, Max Ernst duplica il mondo col suo frottage, mentre i De Chirico raccontano favole mai udite. Non badano al Nuovo del Progresso d'Avanguardia. Allevano la melanconia come una sorella divina. E scoprono con Stendhal che «il silenzio è la melanconia di una felicità inedita».