lunedì 8 settembre 2003

Il Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione: una lettera per Marco Bellocchio

Il Resto del Carlino 8.9.03
La grazia di inventare il vero
di Sergio Zavoli


Caro Bellocchio,
le scrivo per «fatto personale», com'è in uso dire: il suo film Buongiorno, notte mi ha portato a riflettere su qualche creduta certezza del mio mestiere. Forse lo ricorderà: ho dedicato molto lavoro a un programma televisivo intitolato La notte della Repubblica, al quale seguì C'era una volta la Prima Repubblica. Li cito perché proprio da lì parte il ragionamento che lei, con il suo film — bello, sottile, suggestivo — mi induce a fare. Non si aspetti un discorso di critica cinematografica, materia cui sono estraneo, né un'analisi storica, anch'essa non di mia stretta pertinenza; vorrei dire soltanto che il buon cinema, come il buon teatro e la buona letteratura, si disfa della realtà quand'anche la sua legittima sopraffazione finisca per andare ben oltre la ragione stessa da cui nasceva. Il dato iniziale del film, infatti, è la premessa oggettiva per fare di una «storia vera» un'invenzione, che è la bellezza della sua opera, ma non può svincolarsi dal messaggio che pure aveva in animo di superare.
Questo percorso, di per sé, non avrebbe nulla di contestabile se il film, d'impianto straordinariamente civile, non ci emozionasse a tal punto proprio in rapporto a una storia da cui non può prescindere. Il cinema, quando recentemente si è messo in mani diverse dalle sue, non a caso ha prodotto il peggio che su una vicenda come il «caso Moro» si potesse immaginare. Ma lei è un intellettuale rigoroso, oltre che un artista. Ecco, dunque, perché le scrivo: per sottoporle un problema che certamente considerò quando decise di affrontare una tale impresa. Mi riferisco a una questione che coinvolge chiunque si occupi, in qualsiasi modo, della storia. A che serve, se la si può ricreare? Anzi, se il ricrearla risulta così emozionante? Non è più tempo di memoria, si sente dire. A questa sentenza ha messo mano chi, avendo della storia un sentimento quotidiano e indistinto, vorrebbe liberarsi di ogni precedente responsabilità civile, morale, persino psicologica. Non lei, consapevole che toglierci la memoria significherebbe non soltanto privarci di gran parte dell'identità, ma anche offrire alla storia l'alibi di un'innocenza che non ha mai avuto, non ha e non avrà neppure domani. Le dobbiamo semmai gratitudine per averle dedicato una pagina alta del suo cinema, senza pretendere di nascondersi dietro le impunità cui oggi si aspira da ogni parte. Fino a concepire, rivado al caso Moro, dietrologie degne dei «gialli» più spericolati e corrivi.
Adesso, lei lo sa bene, la storia non trascina più le cose con l'antica lentezza, ma sembra farle correre insieme con noi, tutti i giorni. Ricorda i tempi in cui nelle case si parlava della stessa cosa per settimane e per mesi? Aveva ragione Biagio De Giovanni quando disse che, per effetto della velocità impressa dalla comunicazione, il nostro futuro sarebbe stato di continuo nell'attualità, fino a concepire di poter assistere alla nostra storia, vivendola e criticandola, diciamo, dal vivo. Cioè ipotizzando che l'avremmo trovata sempre più nella cronaca, destinata a diventare la nostra storia stessa. Ma a lei basterà, in ogni caso, la benedizione di Nietzsche, secondo il quale «non esistono i fatti, ma le loro interpretazioni». Fellini è andato oltre dicendo che «l'immaginazione è il modo più alto di pensare!». Collabora anche la psicologia, e persino la psichiatria, azzardando che l'uomo d'oggi non ha più in sé lo spazio né mentale né etico per contenere i suoi «mea culpa» generazionali. E allora si rifugia nelle metafore, i veri simboli della realtà.
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Lei, Bellocchio, ha ridato dignità a questo spazio, sempre meno occupato da una memoria sempre più spodestata. Tuttavia, per rioccuparlo, si è servito non della storia, ma dell'introspezione, dell'intimismo. Cercando dentro «quella» storia il solo aspetto congeniale alla sua creatività: quello che Calvino chiamava «la natura irreale del vero», grande matrice di parabole e allegorie, drammaturgie e catarsi. Lei, dunque, potrà capire perché un giornalista che ha speso nella presunta ricerca del vero tutta la sua forza, personale e professionale, esce dalla sala cinematografica domandandosi se la funzione del proprio lavoro non possa apparire accessoria e ininfluente, marginale e superflua. Eppure, in una società la cui scuola sta coltivando il disegno di contrarre al massimo il Novecento, per approfondire quanto più è possibile l'Ottocento — con la pretesa che le spigolatrici di Sapri rappresentino la nostra continuità storica assai più, poniamo, delle donne partigiane di L'Agnese va a morire — mi sorprendo a riflettere sul dovere, direi etico, di far passare anche nelle drammaturgie la lezione della storia.
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Lei, Bellocchio, ha giustamente aspirato al «Leone d'oro». E credo, con sincerità, che l'avrebbe meritato. Ma al di fuori del suo ambito più specifico, dubito che il riconoscimento avrebbe potuto aggiungere alle qualità del film quella di contribuire a una comprensione ontologicamente meno rarefatta e parziale della più grande tragedia politica del nostro tempo. Lei mi dirà che non era nelle sue intenzioni uno scopo del genere. È vero, non spettava a un artista, specie del suo rango, supplire a una storia non detta, anzi tenuta nascosta dall'inconfessabilità proprio della politica. Sciascia e Petri, forse, avrebbero volto il racconto in questo senso. Nel suo film ci ha stupito e commosso un'altra lettura dell'affaire più crudele del secolo scorso; tale da superare, per la complice ragnatela del «contesto», anche il complotto per l'uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Quella nostra, disperata viltà ha oscurato mezzo secolo di Repubblica. E non se n'è giovato nessuno, neppure chi fece aggiungere nel disperato messaggio del Papa agli «uomini delle Brigate Rosse» quel definitivo «rilasciatelo senza condizioni» che decretò la morte di Aldo Moro. Fu lo stesso Mario Moretti a confermarmelo: «Quando Moro lesse quelle parole si fermò e, puntando il dito sulla frase, disse: "Ecco, qui tutto è finito!"».
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La storia, così come la intendiamo comunemente, a mio avviso non ha motivo di esserle grata, ma quella del cinema ha già accolto la sua intelligenza e la sua sensibilità nei posti d'onore. Io stesso, che ho trascorso con i carcerieri di Moro ore e ore per ricostruire e approfondire, nei limiti del possibile, tutte le fasi del rapimento, della prigionia e dell'esecuzione di Moro, ne sono uscito come spaesato, con una vaga ricchezza in più.
Ho ancora davanti agli occhi la brigatista Laura Braghetti, oggi protagonista ispirata e disadorna di Buongiorno, notte, quando mi confessò: «Io dico che la più grave malattia di questo secolo, fra le tante, è l'ideologia. Noi siamo stati resi ottusi dall'ideologia! Essa ci ha fatto perdere le dimensioni della ricchezza dell'uomo. Questa, secondo me, è la nostra tragedia personale!». Dentro tutto ciò vive un grande rimpianto: di come non dovevamo consentire all'ideologia di renderci guerrieri, di farci soldati di una guerra che poi era solo nostra. Alla richiesta di dire se provava qualche rimorso rispose: «No, più semplicemente provo dolore». Perché più semplicemente?
Perché secondo me — fu la risposta — il rimorso assolve! Mentre il dolore è un compagno di questa esistenza. Ho perso il senso di felicità piena. Oggi sono una persona serena, però non ho felicità, perché questa mia vita io l'ho segnata facendo in modo che fosse tragica. E la tragedia mi accompagna. Il rimorso mi lascerebbe altri spazi, io invece... E poi il rimorso lo trovo molto cristiano e io non sono cristiana, sono una persona laica, che pensa di poter saldare i debiti, anche morali, attraverso l'impegno, la disponibilità, il sapere quanto male si è fatto, averne coscienza; e riparare, razionalmente, civilmente
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So bene che lei, per il suo film, aveva bisogno di cancellare ogni traccia di verismo, sostituendolo con un apparato immaginativo che conferisse al racconto una narratività filtrata dalla disperazione e dal sogno di una donna.
Il suo film, che raccomanderei a tutti di vedere, ha ricevuto un consenso pressoché unanime; e quanto alle mie sommesse considerazioni sul rapporto che viene a crearsi — nei casi più nobili, non nella routine — tra storia e immaginazione lei può attingere anche a questo bellissimo, paradossale, inaccettabile giudizio: «insegnare la storia è pericoloso. Essa è scritta col sangue. In fondo, tutto ciò che impariamo è come dimenticare. Ai giovani dobbiamo insegnare a usare più l'immaginazione e meno la memoria». Ammiro la costruzione dialettica, ma non posso essere completamente d'accordo.
Lei, peraltro, non doveva fare della cronaca, mettendo insieme dei documentari, ma costruire un film che prendesse dalla storia l'unico dato non opinabile: quello di essere la fonte di un'ispirazione che — con «l'imprecisione della grazia», direbbe ancora Fellini — riflettesse un recondito percorso di quella tragedia.
Non è in discussione, dunque, il vero, che sarebbe una pretesa fuori luogo, ma neppure la verosimiglianza, sciocca, brutale, oscena parola per un film come Buongiorno, notte. È in gioco soltanto la mia sensazione di essere un cronista attardato, per i più giovani, dalla pretesa di aver voluto e volere ancora spiegare una storia che, reinventata da lei, sembrerà più vera del vero.
Con stima.