mercoledì 17 dicembre 2003

storie dell'uomo
i popoli del Libro

La Repubblica 17.12.03
Le fonti e l'attualità dell'ultimo libro di Pietro Citati
da dove vengono
LE SCINTILLE DI DIO
"Le notizie dei Profeti e dei Re" del teologo Muhammad at-Tabari risale a undici secoli fa
di SANDRO VIOLA


Suppongo che il seme da cui è cresciuto l'ultimo libro di Pietro Citati ("Israele e l'Islam - Le scintille di Dio", Mondadori, pagg. 273, euro 17), sia un altro libro: "Notizie dei Profeti e dei Re", scritto undici secoli fa da uno storico e teologo persiano, Muhammad at-Tabari. O per meglio dire, il sunto che il visir Bal'ami ricavò dai centoventi volumi che componevano l'opera monumentale di at-Tabari. La silloge Tabari-Bal'ami è infatti uno dei testi medioevali che meglio illustrano quanto furono spiritualmente vicini, nella costruzione teologica, nell'intarsio delle mistiche, e per il fascino che a lungo esercitarono l'uno sull´altro, ebraismo ed islamismo.
È vero che già sapevamo dal Corano d'una consaguineità religiosa tra i Popoli del Libro, provata con l'adozione da parte dell'Islam di molte figure dell'Antico Testamento, Adamo e Abramo, Giuseppe, Mosè e Salomone. Ma è leggendo at-Tabari, argomenta Citati, che comprendiamo meglio «come le due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente, siano sorte l'una sull'altra, avviticchiate come due alberi che uniscano le loro radici».
Che Citati abbia un giorno preso a leggere l'opera d'un teologo sunnita del X secolo, questo non meraviglia certo. La sua diversità, nell´esigua pattuglia della nostra critica letteraria, sta proprio qui: nell'entusiasmo vorace con cui avvicina ogni genere di testi, nell'agio con cui si muove - per fare solo pochi nomi e titoli - da Omero al "Sogno della camera rossa", dall'"Asino d'oro" a Goethe, dai cabalisti a Manzoni e a Tolstoj, dagli autori dei pochi bei romanzi di questi anni (Banville, Sebald o Wescott), a Kafka e a Proust. Niente orti conclusi, dunque, o specializzazioni: niente che possa tarpare le ali della sua inesausta passione per la lettura.
C'è da chiedersi semmai se a spingerlo verso quest'ultima escursione in tempi e testi tanto antichi, sia stata una ragione per così dire contingente. E la risposta mi sembra che affiori già dalla frase riportata più sopra. Come se fosse stata la vista delle «due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente» - l'ininterrotta ondata di violenze che scuote la Palestina, l'ossessivo conteggio dei morti che la radio e la televisione recano ogni giorno nelle nostre case, l'apparente irrimediabilità di tutto quel male -, a suscitargli il bisogno di calarsi nella storia dei rapporti tra Israele e l'Islam.
Oggi, scrive Citati, «i cristiani non sanno più niente dell´Islam e del giudaismo; gli ebrei non sanno più niente del cristianesimo e dell'Islam; e l'Islam, come diceva Maometto, vive "esule" nella storia». Scoppiano le bombe, e tra la Gente del Libro crescono il sospetto, l'avversione, l'estraneità. Ma quali furono, dopo la nascita dell'Islam, i rapporti fra i tre monoteismi? Come si videro e trattarono più tardi, per lunghi periodi del Medioevo e all'inizio dell'epoca moderna, ebrei, cristiani e musulmani?
Nel 1454, leggiamo in Israele e l'Islam, un rabbino d'origine francese scrisse una lettera ai suoi correligionari: in essa, dopo aver descritto i dolori che l'Europa cristiana, «il clero e i monaci, questi falsi sacerdoti», infliggevano «all'infelice popolo di Dio», il rabbino Isaak Zarfati esortava gli ebrei a migrare in Turchia. «La Turchia è un paese d'abbondanza dove troverete riposo. Di qui, la strada vi è aperta verso la Terra Santa. Non è meglio vivere sotto il dominio dei musulmani, piuttosto che sotto quello dei cristiani? Qui ogni uomo può vivere un'esistenza pacifica all'ombra della sua vigna e del suo fico... Oh,Israele! Perché dormi? Alzati e lascia finalmente questo paese maledetto!». La maledetta, dunque, Europa dei cristiani.
Di fatto, per molti secoli dopo l'Egira i rapporti tra ebrei e popoli islamici furono rapporti di comprensione e tolleranza. Di reciproca, anche se razionalmente confusa, attrazione. Nelle Notizie dei Profeti e dei Re, at-Tabari riscrive la Bibbia «con tocchi di lievissima grazia araba». La fonde con la lettera coranica, la adatta con «i colori della favola e della leggenda»: ma in sostanza l'assorbe con l'identica devozione che egli riserva alle parole del suo Profeta. E quando rievoca la figura di Salomone, racconta che se egli ha «il dominio dell'universo» è perché tale dominio «gli è garantito dal possesso d'un anello sul quale sta inciso il nome occulto di Allah».
Eccole quindi, avviticchiate come scrive Citati (se non già alla soglia d'un sincretismo), le radici delle due civiltà religiose. Ma questi slanci d'identificazione non vengono soltanto, come nel caso di at-Tabari, dal versante musulmano. Vengono anche dall'ebraismo. Alla fine del XII secolo, l'ebreo Binyamin da Tudela viaggia tra Costantinopoli, Gerusalemme e Baghdad. E se nella Costantinopoli cristiano-greca deve constatare che «gli ebrei vivono oppressi», nelle terre islamiche trova invece gran segni di rispetto per i propri correligionari.
Per prima cosa vede che «nessuno osava offendere i luoghi sacri ebraici»: i quali erano anzi, in molti casi, venerati. E a Bagdad, dove vivevano quarantamila israeliti, Binyamin da Tuleda scopre estasiato che il califfo «tiene il popolo d'Israele in grande favore e si avvale dei servizi di molti ebrei». Poi, come preso da un'infantile euforia, comincia ad esagerare. Inventa che il capo della comunità israelita veniva fatto accomodare dal califfo in trono, «mentre tutti i re musulmani rimanevano in piedi al suo cospetto». Fantasie che scaturivano, probabilmente, dall'aver visto sul Bosforo come i greci detestassero gli ebrei. Ma nelle sue esagerazioni, ecco poi un dettaglio che ci lascia affascinati. Così come nel racconto di at-Tabari Salomone porta infatti al dito un anello con inciso il nome di Allah, nella Baghdad narrata da Binyamin da Tudela il capo della comunità giudaica «indossava un turbante con un velo», e sul velo il sigillo di Maometto.
Fu forse nel Cairo medioevale - Cordoba e Granada a parte - che ebraismo e islamismo convissero con più frutto. Lì gli ebrei, scrive Citati, appartenevano alla «classe suprema: alti funzionari, agenti governativi, medici di corte, dell'esercito e della marina, uomini d'affari di rilievo "connessi al governo e ben noti ad esso"». Al punto che un poeta musulmano se ne irritò profondamente, e scrisse: «Mi raccomando, diventate ebrei, perché il Cielo stesso è diventato ebreo». Frase che mi riporta alla mente quel che sarebbe accaduto sei o sette secoli dopo, nella Budapest inizi Novecento: dove la morchia dell'antisemitismo cominciò a estendersi tra la piccola borghesia urbana e l'aristocrazia di campagna, proprio alla vista dei grandi successi finanziari e mondani degli ebrei ungheresi.
Ma torniamo al Cairo medioevale. L'intensa partecipazione alla vita economica e sociale della grande città egiziana, non impediva agli israeliti di conservare intatti l'identità e il fervore religioso. Come sarebbe stato nei secoli successivi a Kiev o a Norimberga, a Livorno e Ancona, a Parigi o a Salonicco, gli ebrei erano prima d'ogni cosa uomini di preghiera. I loro bambini «imparavano i testi sacri a memoria, perché, come dice lo stupendo passo talmudico: "il mondo esiste soltanto attraverso il fiato degli scolari"».
L'esistenza «sulle rive del Mediterraneo, sotto il dominio arabo, d'una grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», il tempo in cui almeno due dei tre Popoli del Libro vissero nel reciproco rispetto, intersecando i loro costumi, devozioni e culture, stanno al centro di Israele e l'Islam. Ma nel libro di Citati c'è altro ancora da segnalare: la leggenda cabalistica, insieme poderosa e incantevole, delle «scintille di Dio», la vicenda - un romanzo - dell'ultimo Messia, e il racconto della caduta di Gerusalemme nel 72 dopo Cristo, che Citati ricava con pagine appassionanti da Giuseppe Flavio.
Dissoltasi l'antica armonia di quella «grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», ecco irrompere il Rifiuto, gli odii, l'antisemitismo nelle sue forme contemporanee. L'emergere del fanatismo rivoluzionario wahabita, il suo diffondersi sulla spinta delle ricchezze saudite e nel torpore distratto dell'Occidente, il suo estremo approdo nelle carneficine orchestrate da Osama Bin Laden. Israele e l´Islam si chiude infatti con un capitolo sull´antisemitismo. Di cui Citati tratta con un equilibrio e una chiarezza che fanno dimenticare la confusione, gli eccessi retorici e polemici, la strumentalità in cui sembra avvolto, da qualche tempo, l'argomento.