domenica 1 febbraio 2004

il premio Nonino
Marcello Cini ed Edgard Morin

Liberazione 1.2.04
Utopie per un altro domani
di Rina Gagliardi


Il prestigioso premio Nonino - conferito ai "maestri del pensiero", ovvero a intellettuali che si sono distinti non solo per la qualità, ma per l'originalità creativa della loro riflessione - è toccato quest'anno a due grandi figure europee: Marcello Cini ed Edgar Morin. Un fisico ed epistemologo italiano, protagonista del dibattito politico sulla scienza, un sociologo francese (anzi parigino) quasi italianizzato per scelta di vita, che ha largamente contribuito alla riflessione sulla complessità allargandola a molti campi del sapere (ivi compreso il cinema e il "divismo").
Sul "manifesto" di ieri, due ampie e belle interviste ai premiati [vedi di seguito ndr] ne mettono in evidenza - oltre alle non piccole differenze - anche alcune affinità: come per esempio, l'approccio critico alla "mercificazione" del mondo, della natura, del sapere. Ovvero, la curiosità intellettuale indefessa, quella che spinge ad oltrepassare sempre gli ambiti della propria disciplina o della propria "competenza". Ovvero ancora, l'uso della categoria della complessità: che non è l'opposto della "semplicità", ma, per un verso, la straordinaria interdipendenza tra le parti di un sistema ma anche, per l'altro verso, l'irriducibilità dei livelli superiori di aggregazione alle proprietà dei livelli inferiori. (Per capirci: un organismo vivente non è solo la somma delle molecole che lo compongono, è qualcosa di diverso da esse, è un "intero" che non potrà mai esser scomposto in parti eguali). Si può forse dire, in breve, che Cini e Morin sono due grandi critici del "pensiero unico" e, perfino al di là delle loro posizioni politiche, due grandi utopisti.

La non neutralità della scienza
Marcello Cini - che ha "appena" compiuto ottant'anni - ha alle spalle una lunga e gloriosa milizia politico-culturale. Il titolo di "maestro" gli si addice in modo speciale, sia per quello che ha insegnato - come professore di meccanica quantistica e di fisica teorica alla Sapienza di Roma - a molte generazioni di giovani, sia per quello che ha elaborato in campo ambientale, epistemologico, politico in vari luoghi della sinistra (dal Pci al Manifesto, dalla rivista "Sapere" al movimento rossoverde e antinucleare), sia, in fondo, perché così si intitola il suo libro recente (e da tutti comprensibile: i Dialoghi di un cattivo maestro, racconto di vita e, anzi autobiografia, che muove dal rapporto con una nipotina che non ama la fisica né quindi la capisce. Fin dagli anni '60, Cini è uno dei pochissimi scienziati autorevoli che solleva dubbi sul valore "indiscusso" dei voli nello spazio: in un'epoca nella quale la gara spaziale affascina tutti, e ci si divide politicamente, tra chi "fa il tifo" per l'Urss e chi per gli Stati uniti d'America, Cini propone un altro "terreno politico", appunto l'utilità scientifica (ma non solo) dell'industria dello spazio e scrive, proprio sul primo numero della rivista "Il manifesto", un saggio decisamente controcorrente.
Negli anni '70, diventerà un collaboratore assiduo del quotidiano, anzi, un ispiratore fondamentale delle sue pagine culturali. Uniche nel panorama editoriale italiano dell'epoca, grazie alla presenza e al lavoro di Michelangelo Notarianni, su di esse si svolgerà una ricerca quasi quotidiana attorno ai temi della scienza e della sua critica politica, dell'ambiente, del nesso salute\politica, in una visione ampiamente internazionale. Tra gli interessi di Marcello Cini, c'è anche la psicanalisi: in particolare per l'esperienza di Ignacio Mate Blanco e la sua riflessione sul rapporto tra l'inconscio e l'"infinito" matematico.
Nel 1976 Cini pubblica il suo libro più famoso: L'ape e l'architetto. La sua tesi fondamentale è che la scienza non è neutrale. Non l'uso della scienza, che ovviamente dipende da coloro che controllano le risorse e hanno il potere, ma la scienza stessa, le sue direttrici di ricerca, i suoi paradigmi, i suoi stessi progressi. Non esiste, insomma, la "Scienza" con la S maiuscola, capace di percorsi inequivoci e unilineari: esiste invece la scienza storicamente determinata, influenzata dal proprio contesto economico, politico e culturale. Questa idea era contenuta, in nuce, nel movimento del '68 e si era affacciata nella stagione più ricca delle lotte operaie, tra il '68 e i primi anni '70: il libro di Cini, scritto assieme a Michelangelo De Maria, Giovanni Ciccotti e Gianni Jona-Lasinio, sistematizza queste intuizioni e queste pratiche in una nuova teoria, capace, a sua volta, di contestare sia l'egemonia positivista (la scienza come verità univoca e metastorica) sia le (già allora incipienti) tendenze a rifiutare il progresso scientifico e tecnologico, in nome di un umanesimo superstizioso e antimoderno. Ma perché oggi si parla così poco di non neutralità della scienza? Dice Cini nell'intervista a Marco d'Eramo sul "manifesto": forse è un concetto "dimenticato". Forse, anche, perché negli ultimi anni il paradigma scientifico dominante non è più quello della fisica, ma quello della biologia, che è per sua natura "evolutivo" e legato alla categoria di complessità. Temi affrontati da Cini nel suo libro più importante degli anni ‘90 "Un Paradiso perduto".

Due utopie…
Un fisico e un comunista, dunque, in un'epoca, come la nostra, «in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica». Come vive Marcello Cini questa duplice perdita? «Quand'ero ragazzo» dice «la fisica era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione; il comunismo era l'utopia di una società di eguali, felici, che possono dispiegarsi e rispettarsi. In fondo queste due utopie le ho ancora…Tutto si è rivelato più complicato, ma non credo che i giovani debbano rinunciare a queste utopie». Una conclusione in fondo non troppo diversa da quella dell'"altermondialista" Edgar Morin che si ritrova oggi a fianco del movimento dei movimenti, essendo stato un precursore della critica di questa globalizzazione. «Stiamo dirigendoci verso la catastrofe» dice Morin, a proposito dei "quattro motori incontrollati" della scienza, della tecnica, del profitto e dell'economia: qual è la strada da seguire? Quella indicata tanti anni fa, per primo, da Victor Hugo: gli stati uniti del mondo, «il movimento dell'inconscio collettivo verso una società-mondo» che ancora non esiste e che si scontra con la vocazione imperiale degli Usa. Questa è la prospettiva che ci delinea un "vecchietto" di 83 anni, capace ancora di leggere le cose con occhi freschissimi e ardore politico giovanile.

il manifesto 31.1.04
MONDI POSSIBILI
Alla svolta di una avventura

Un incontro con Marcello Cini a mo' di bilancio di una stagione che sta abbandonando i suoi paradigmi scientifici. «Quando ero un ragazzo la fisica era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione. E il comunismo prefigurava una società di uguali, di felici, di persone capaci di esprimersi compiutamente. In fondo queste due utopie le ho ancora. Come provo ancora curiosità per le infinite manifestazioni del pensiero»
di MARCO D'ERAMO


Oggi Marcello Cini riceverà il premio Nonino 2004 in quanto «maestro del pensiero italiano». Per me Cini è stato maestro non solo nel solo in senso generico, ossia in quanto pensatore che ha introdotto il concetto di «non neutralità della scienza» e in quanto scienziato politicamente impegnato, ma in un senso più concreto: è stato, infatti, mio professore di fisica quantistica, è stato l'unico docente a interloquire con noi nel '68, mi ha fatto fare la tesi nel suo gruppo di fisica teorica e, dopo la laurea, mi ha fatto entrare come borsista all'Istituto Enrico Fermi; non solo, ma è stato uno dei fondatori del giornale, il manifesto, per cui lavoro e che ora state leggendo. Cogliamo l'occasione del premio per tracciare insieme una sorta di bilancio di tutto quel che è cambiato da quando, era il 1976, uscì per Feltrinelli L'ape e l'architetto, che Cini scrisse insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Gianni Jona-Lasinio. Il libro fece epoca, ruppe la tirannia che positivismo e scientismo esercitavano sul discorso relativo alla scienza e ne rese evidente la non neutralità quando in gioco è non soltanto la scelta dell'oggetto della ricerca, ma anche le categorie concettuali con cui interpretare il mondo.

Oggi il termine «neutralità della scienza» è quasi scomparso dalla circolazione.
Mi pare caduto in disuso anche perché basta aprire i giornali per accorgersi che si è diffusa l'idea per cui sembra sia la società a stimolare nuove conoscenze scientifiche, indirizzandole in una direzione piuttosto che in un'altra. Certo, è più sofisticato andare a guardare in che modo gli strumenti concettuali scientifici hanno radici nel contesto sociale. Le stesse categorie con cui s'interpreta il mondo sono storicamente determinate.

Alan Sokal ha fatto tutto un numero contro questa idea.
Certo, questa idea è riconosciuta più nella cultura generale che non tra gli scienziati, i quali si battono ancora come leoni per negare la storicità delle categorie scientifiche. Tutt'al più possono riconoscere che ci sono finanziamenti maggiori o minori per certi settori piuttosto che per altri. Perché gli scienziati hanno bisogno che sia riconosciuto uno status speciale delle verità della scienza: verità che devono essere svincolate dalla contingenza.

Come mai tutta la filosofia della scienza - da Karl Popper a Imre Lakatos, a Thomas Kuhn a Paul Feyerabend, compresa la stesura dell'Ape e l'architetto, si è concentrata tra gli anni '50 e fine anni '70, mentre poi sembra che questa produzione si sia esaurita?
Perché molte idee della filosofia della scienza sono ormai acquisite. Un filosofo che pretendesse di andare in cattedra ripetendo quelle cose, difficilmente sarebbe riconosciuto come pensatore. Ma forse io sono troppo ottimista. Forse quelle idee semplicemente sono dimenticate.

Di solito la storia non risolve i problemi, li accantona, non sapremo mai se avevano ragione i guelfi o i ghibellini...
Sì, forse i problemi si accantonano e poi bisogna ricominciare da capo a riscoprirli o a ripeterli. Ma lo stesso Paolo Rossi che - a proposito dell'Ape e l'architetto - negli anni '70 ci chiamava con spregio «epistemologi della domenica», dilettanti sprovveduti, credo che oggi sia disposto a concedere molto su questo terreno. Senza parlare dei post-moderni, dei Richard Rorty, che sono odiati da scienziati come Sokal. Ma mi sembra che nella filosofia della scienza sia ormai riconosciuto il fatto che le categorie scientifiche nascono da un tessuto culturale più vasto di una data epoca. È solo il realismo ingenuo degli scienziati a resistere, nella concezione astorica della scienza.

Forse ha influito anche lo spostamento del paradigma scientifico, da un paradigma fisico-matematico a un paradigma biologico.
Non c'è dubbio, il modello di scienza non è più la fisica, che è stata detronizzata. Vi sono due livelli: da un lato la storicità della natura, l'evoluzione del sistema solare, l'evoluzione della vita, l'evoluzione delle civiltà. Il pensiero evoluzionista è diventato comune alla maggioranza delle discipline. Per fare una battuta, nell'interpretazione della natura il pensiero eracliteo è diventato dominante rispetto al pensiero parmenideo. Dall'altro lato, a livello della conoscenza, le stesse categorie d'intepretazione di questa natura storica sono anch'esse storiche. Il pensiero che s'impone è quello biologico-evolutivo. La fisica è stata la disciplina che ha permesso di conoscere e dominare la materia inerte: questo capitolo è quasi concluso. Si fanno speculazioni sulla cosmologia, però diventa sempre più inverificabile. Anche le teorie del tutto, come le stringhe, stanno diventando una specie di metafisica. La grande rottura sta, invece, nel fatto che è cominciata l'avventura della conoscenza della vita e della mente umana. E nessuno si sogna di pensare alle leggi della mente umana come alle equazioni di Maxwell. Nessuno ricerca «l'equazione del cervello». L'oggetto stesso della scienza è mutato. Seguendo Gregory Bateson, c'è una gerarchia anche ontologica che separa gli organismi viventi. I linguaggi necessari a descrivere i diversi livelli di organizzazione della materia non sono riducibili l'uno all'altro. Non ha senso spiegare le proprietà delle proteine, del Dna, con le equazioni degli atomi che le compongono. I linguaggi devono tenere conto della natura sempre più complessa di questi livelli.

Negli anni '80 si è fatto un gran parlare di complessità, a proposito e a sproposito. È stata anche usata come una sorta di giustificazione per il disimpegno politico: poiché la società è complessa non c'è più lotta tra classi.
È un termine ambiguo che, anche in ambito scientifico, ha significati diversi a seconda delle discipline: la complessità algoritmica della matematica ha un significato preciso e non ha nulla a che vedere con la complessità del cervello umano o con la complessità delle strutture frattali, per non parlare poi della complessità della società. Il termine «complessità» va usato a proposito. Quel che indica, però, è il predominare del processo di scambio di informazioni tra le parti di un sistema, per tenere insieme quel sistema. La circolazione dell'informazione è il collante che tiene insieme un sistema complesso. Il che non accade in un sistema «complicato», anche se vi avvengono retroazioni, sistemi di autocorrezione.

C'è un lato paradossale: gli scientisti hanno sempre paragonato la natura o la società al prodotto tecnologico più avanzato di quell'epoca. Nel '700 la natura era paragonata a un orologio; nell'800 la società era paragonata a un treno («la locomotiva del progresso»). Oggi, in fondo, il termine «società complessa» non fa altro che usare per la società la metafora del computer, il nostro prodotto tecnologico più avanzato.
Anche la mente umana è stata paragonata a un computer. Ma l'idea che la mente funzioni come un computer è sempre più criticata. Di recente proprio sul manifesto c'è stata una discussione sul cognitivismo. Ma anche lì, i neurofisiologi più avanzati, da Jean-Pierre Changeux ad Antonio Damasio, insistono sulla commistione intima del cervello con il corpo, per cui diventa fondamentale il peso dell'interazioni tra corpo e cervello anche nelle funzioni puramente cognitive dell'uomo. Un computer senza muscoli e senza pancia...

Ricordi il dissenso tra Anassagora e Aritostotele? Anassagora diceva che l'uomo è uomo perché ha le mani, mentre per Aristotele l'uomo è uomo perché ha la ragione.
I riferimenti al passato si ripresentano sempre. Se leggi Damasio, aveva torto Cartesio e aveva ragione Spinoza. E a dirlo è un neurofisiologo hard.

Molte persone, anche colte, diffidano della conoscenza del corpo umano offerta dalla scienza occidentale, si affidano alla medicina cinese, a quella ayurvedica, all'omeopatia. C'è forse anche un aspetto di superstizione, ma se uno dovesse prenderle almeno in parte sul serio, dovrebbe porsi il problema dei diversi piani di realtà. Capire quali potrebbero essere le interazioni fra queste conoscenze e queste realtà.
Un esempio clamoroso è quello di Francisco Varela, uno scienziato di fama internazionale, che ha seriamente considerato l'importanza delle filosofie orientali come ponte tra l'esperienza vissuta in prima persona, emotiva, di autocoscienza, di percezione di quel che Bateson chiamerebbe il sacro, e la descrizione dall'esterno di queste esperienze che fornisce la scienza. Questa differenza è tipica della fenomenologia, da Edmund Husserl a Paul Ricoeur: lo si vede nel dialogo tra Changeux e Ricoeur (La natura e la regola, 1998, trad. it. Raffello Cortina, ndr) che tentano di trovare un elemento comune e non ci riescono. L'unico terreno comune lo trovano nel ricollegarsi all'evoluzione, evoluzione della mente umana, del modo di percepire e conoscere. C'è una differenza ontologica tra spiegare e ricostruire dall'esterno la correlazione tra emozioni e funzionamento di certi organismi e il fatto di vivere le emozioni. Insomma, non tutta la realtà è ricostruibile e rappresentabile attraverso forme di conoscenza - che chiamiamo scienza - basate, per dirla con Galileo, su «sensate esperienze e certe dimostrazioni».

A proposito di «sensate esperienze», uno dei dogmi della scienza era la ripetibilità degli esperimenti. Ora invece per ragioni diverse, gli esperimenti sono sempre meno ripetibili. Intanto per il costo: quando un esperimento costa all'incirca 9.000 miliardi di euro (tanto richiede l'ultimo acceleratore progettato), ripetere indipendentemente l'esperimento vorrebbe dire spendere altrettanto. E poi, molti particolari degli esperimenti sono tenuti segreti, o per ragioni militari o, soprattutto nella ricerca biologica, per questioni di brevetto. Insomma la verificabilità o falsificabilità, tanto cara a Popper, è diventata del tutto aleatoria.
Siamo sempre legati alle tradizioni. Gli scienziati, Antonino Zichichi in testa, si proclamano eredi di Galileo, ma è pura giaculatoria. È come la ricerca genealogica delle famiglie nobili che fa risalire l'ascendenza alle crociate: è oziosa, perché oggi non si usano le mazze ferrate come alle crociate. Gli scienziati (tra cui molti miei autorevoli colleghi) che hanno firmato il manifesto «Galileo 2001», si richiamano a Galileo per dire che gli ambientalisti inventano fandonie e sono terroristi, ma questo è come andare in guerra con le mazze ferrate.

La fine della ripetibilità degli esperimenti fa parte di una tendenza più generale che John Horgan ha chiamato - in un libro dall'omonimo titolo - La fine della scienza (1996, trad. it. Adelphi).
Io non sono d'accordo con la tesi della fine della scienza. Mi vengono in mente i libri di Pino Longo, per esempio l'ultimo, Il simbionte (Meltemi 2003), o Il nuovo golem (Laterza 2000). Mi piacciono molto, lui mi piace anche come romanziere, l'ho anche recensito sul manifesto. Però abbiamo due idee della scienza un po' diverse. Se si identifica la scienza con le sue definizioni classiche, è vero, non c'è più scienza. Quel che sostengono in parte Galimberti e in parte Pino Longo è che la macchina ha preso il sopravvento, che c'è una dinamica di espansione e sviluppo incontrollato delle macchine. E perciò non c'è più scienza, ma tecnologia che si autoriproduce, in cui gli uomini diventano strumenti delle macchine. Quindi non si può più parlare di conoscenza della natura, perché non c'è più natura. Gli entusiasti del progresso ribattono che è da quando è stata inventata l'agricoltura che la natura è artificiale. Ma ci sono le discontinuità, da questo punto di vista hanno ragione Steven Jay Gould e Niles Eldredge con la teoria degli equilibri punteggiati nell'evoluzione. Ogni scalino porta a un'artificializzazione crescente del mondo, che si accompagna però a una divaricazione tra chi è intriso, travolto da questo meccanismo e chi sta ancora al medio evo. Io ho ottant'anni e apprezzo di avere una protesi nell'anca, il cristallino nuovo e farmaci che mi fanno andare avanti, non lo nego; ma nel Terzo mondo la speranza di vita è ancora di quarant'anni. E se va avanti così, rischia di esplodere tutto.

Come se ne esce?
Finora non abbiamo parlato del mercato, ma se vai a grattare, il nodo del problema è che sotto sotto c'è la riduzione di tutto a merce. Il capitalismo è nato per trasformare in merce i beni materiali, cioè quelle cose che se le consumo io, non le consumi tu, e viceversa. Adesso siamo a una svolta in cui il capitalismo cerca di trasformare in merce tutte le forme non materiali di soddisfazione dei bisogni più svariati. Tutto deve essere ridotto a merce. Perciò dobbiamo ridare alla conoscenza la sua natura di bene che non si consuma, ma anzi si moltiplica nella sua fruizione sociale. E questa macchinizzazione dell'uomo la fermiamo se riesciamo a far retrocedere la mercificazione del conoscere (non è una cosa da poco, perché significa sconfiggere Bill Gates) e a riportare la produzione di comunicazione, di conoscenza, di bellezza, alla loro natura di scambi tra esseri umani. Tutto il movimento del free software si richiama alle tradizioni delle società scientifiche del '600 e fa parte di questo tentativo di demercificare l'immateriale, la conoscenza.

Hai scritto che hai passato gran parte della tua vita concentrandonti sul comunismo e sulla fisica. Ora viviamo in un mondo...
... in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica. Oggi non farei più il fisico, anche se ho lavorato fino a pochi mesi fa sulla meccanica quantistica, perché quando uno ha un'idea fissa, continuo a girarci attorno. Devo dire che la scienza mi affascina ancora. Sono un grande curioso, anche delle ricerche sul cervello, sulla mente, sulla vita, perché a livello di divulgazione elevata posso non solo apprezzarle, ma leggerle in una certa ottica, inquadrarle. Il comunismo era un'utopia, come la fisica. Quand'ero ragazzo la fisica era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione; il comunismo era l'utopia di una società di uguali, felici, che possono dispiegarsi e rispettarsi. In fondo queste due utopie le ho ancora. C'è la curiosità per tutto quel che mi circonda, per il mondo, per le infinite manifestazioni del pensiero. Per quanto riguarda la società, i problemi sono lì, anzi si complicano: allora pensavamo che bastassero ricette molto semplici per rendere giusta la società e felici gli uomini. Si è rivelato molto più complicato, ma non credo che i giovani debbano rinunciare a queste utopie. Nei prossimi cinquant'anni i nodi dell'ambiente e delle diseguaglianze verranno al pettine. È un mondo minaccioso, ma è una ragione in più per impegnarcisi.
La parabola di Marcello Cini
Tra ricerca scientifica e impegno politico, tra curiosità sempre di nuovo attivate e riepiloghi di un passato da custodire e reinterpretare, la lunga militanza di Marcello Cini, fisico e padre dell'ambientalismo, viene oggi premiata con il Nonino. Il suo libro più noto resta «L'ape e l'architetto», scritto a più mani con i suoi collaboratori (Feltrinelli, 1976). Da allora, la necessità di analizzare criticamente i paradigmi dell'epistemologia corrente - alla luce dell'avvertimento per cui la scienza è tutt'altro che neutrale, e la vita non è soggetta a brevetti - lo ha portato a scrivere, tra l'altro, «Trentare variazioni su un tema» (Editori Riuniti, 1990), «Un paradiso perduto (Feltrinelli, 1994) e il suo racconto di vita «Dialoghi di un cattivo maestro» (Boringhieri, '91)


il manifesto 31.1.04
MONDI POSSIBILI
Il paradigma dell'umano

Sociologo della complessità, tra le figure più prestigiose della cultura contemporanea, profondo nelle analisi quanto eclettico nelle curiosità, oggi Edgar Morin viene premiato con il Nonino come «maestro del nostro tempo». E, vigile e lucido nei suoi 83 anni, continua a schierarsi con gli altermondialisti e a mettere in guardia: «se la nave-terra va avanti spinta dai quattro motori incontrollati della scienza, della tecnica, del profitto e dell'economia la catastrofe ecologica sarà sicura»
di GIANFRANCO CAPITTA


Edgar Morin ritira oggi nella distilleria dei Nonino il premio che porta il nome della famiglia, come «maestro del nostro tempo». E per una volta sembra che quel premio sia troppo e insieme troppo poco. A differenza di altri nomi illustri che l'hanno preceduto, lui è ben noto e quasi familiare al pubblico italiano, e da noi tante volte è venuto, come invitato o come turista; molte volte è stato intervistato, conosce così bene non solo l'amata Toscana ma anche il sud più profondo, tanto da parlare la nostra lingua in modo fluente e preciso. Nello stesso tempo però, lui «maestro» lo è stato davvero, già prima del `68, per chi si affacciava alla letteratura, al cinema, all'antropologia o al mondo. Prima che attorno a lui partissero semiologi e strutturalisti a fare del gusto scienza. Oggi è bello e rassicurante trovarlo lucido e vigile, acuto e aggiornatissimo, schierato a 83 anni con i movimenti giovanili di oggi contro la tentazione del potere unico, teorico della complessità e guida tra le forme del pensiero. Ebreo per nascita, comunista per scelta sotto il nazismo, partigiano, poi uscito dal Pcf in polemica con lo stalinismo. Una vita tra le massime istituzioni culturali di Francia e all'Unesco, per cui continua a curare un progetto. Profondo nelle analisi quanto eclettico nelle curiosità della vita quotidiana (insieme a Roland Barthes fondò Communications), nei primi anni '90 aveva rilasciato in Francia una lunga intervista su tirannia e persecuzione del telefono, cui però riconosceva il potere di una chiamata felice. Ora sente segreterie e legge sms sul cellulare, che chiede di poter tenere acceso perché sua moglie è rimasta a casa, malata. Ne sottolinea anzi l'utilità, per la possibilità che offre di potersi collegare col mondo quando si vuole. «Per il resto si può spegnerlo quando si vuole».

Cambiano solo i modi della comunicazione?
Venti anni fa la medicina prevedeva l'eliminazione dei virus e dei batteri, invece è arrivato l'Aids, c'è stato un autentico «risorgimento» dei batteri, poi c'è stata la Sars, ora c'è l'influenza dei polli. Vediamo che nella lotta umana contro le malattie, non è l'uomo il più forte: c'è una combinazione genetica contro di noi. Penso che lo stesso succeda con Internet. E' il modo più armonioso che esista per comunicare. Non mancano i problemi, ma per scrivere è fondamentale: io sono stato un mancino «contrastato» perché ai miei tempi a scuola mi impedivano di scrivere con la sinistra. Con il computer non solo ho ritrovato autonomia, ma anche la possibilità di correggere e rivedere i miei testi. Anzi, il mio modo di scrivere è più chiaro grazie all'uso del computer, rispetto a prima.

Della globalizazione lei, tra gli intellettuali, ha maggiormente denunciato i pericoli, schierandosi accanto ai movimenti no-global.
Altermondialisti, che è un'espressione molto più bella. Quando, nel 1999, è scoppiata la protesta di Seattle, è stato un fenomeno di altermondialismo. Il mondo non era più merce. E' un'altra visione del pianeta. Per me c'è un legame stretto con i movimenti internazionalisti del passato, che pure avevano questa visione. Anche se avevano dei limiti: non vedevano quelle realtà umane e sociali che erano le nazioni, e non avevano neppure l'idea della terra-patria. Avevano un'idea universalista molto forte, quel pensiero umanista di Stati uniti d'Europa, Stati uniti del mondo, che era stato sviluppato da scrittori come Victor Hugo. L'altermondialismo è in qualche modo figlio di tutta questa storia. E' un laboratorio di un mondo nuovo, per quanto disordinato e contraddittorio. Penso che la parte critica sia ben enunciata, mentre non lo è altrettanto la parte costruttiva. E' questo il problema, per cambiare non basta denunciare, non basta opporsi, bisogna proporre.

Nel processo di planetarizzazione che è cominciato per l'occidente con la conquista dell'America e poi la conquista del mondo, con tutti i suoi lati negativi, terribili, che oggi si perpetuano in Africa e nei paesi che sono stati decolonizzati e pagano le conseguenze di tutto questo, oggi l'aspetto economico è molto crudele, ma si può anche dire che ha dei risvolti positivi. Per esempio che le patate e il mais sono arrivati in Europa e hanno impedito molte carestie, e allo stesso modo la canna da zucchero e il caffè sono arrivati in America, come anche il cavallo: un processo di interscambio. Si tratta di processi che si sono sviluppati anche a livello culturale. Marx nell'800 diceva che era arrivata l'epoca della letteratura mondiale: oggi posso leggere notizie della Cina e del Giappone ma è ancora insufficiente l'universalizzazione dei diritti umani, dei diritti delle donne, delle idee di democrazia. Che pure fanno parte di questo processo. E' un processo molto complesso, con aspetti addirittura antagonisti. Un altro aspetto ambivalente: esiste la modernizzazione della nazione, aspetto tipico dell'Europa occidentale, e questa è stata necessaria per l'emancipazione dal colonialismo. Ma è stata anche causa di tutti i difetti dello stato nazionale come potere assoluto, regime dittatoriale, caratteristiche storiche delle nazioni europee, il nazismo e il fascismo. Il fenomeno della planetarizzazione della nazione è al tempo stesso positivo e negativo. Le nazioni, per problemi comuni a tutta l'umanità, abbandonano parte del loro potere. Questo è un problema cruciale: è in questa modernizzazione che dobbiamo pensare, per ragionare in modo complesso.

La complessità come sistema di lettura è diventata per lei un metodo di indagine. Dentro questa complessità possono nascere movimenti altermondialisti, ma dall'altra parte il potere si è rafforzato in blocchi economici ancora più duri, anche se si presentano morbidamente avvolti nelle suggestioni di massa, attraverso la televisione.
Non si può paragonare però questo potere ai sistemi totalitari che abbiamo conosciuto. Se rimane la pluralità nell'informazione, e soprattutto nell'informazione politica, nella pluralità della stampa. Nell'universalità della televisone c'è qualcosa di positivo che permette un'azione critica. Per parlare degli Stati Uniti, qualche decennio fa c'è stato un movimento critico molto importante che ha pesato sulla guerra del Vietman, ed era un movimento tutto interno. Adesso non esiste più un movimento del genere. Perché è cambiata la congiuntura mondiale, perché lo sviluppo della potenza statunitense non ha trovato più il contrappeso dell'Unione Sovietica, e non esiste ancora una superpotenza cinese.

Con la globalizzazione degli anni 90, si sono formate le infrastrutture di una società-mondo. Non una società nazionale espansa a livello mondiale, che non esiste ancora. Ma ci sono le infrastrutture. Una società ha bisogno di un territorio con comunicazione mondiale, per esempio Internet, e di un'economia mondiale. C'è, però infelicemente senza controllo e senza limitazioni. Il processo impedisce le strutture per svilupparsi, ma oggi le nazioni e le idee sono paralizzate. Come esiste un movimento dell'inconscio collettivo verso un società-mondo che non esiste, così gli Stati Uniti pensano che il loro ruolo sia quello imperiale, come in un'altra epoca avevano fatto i romani. Cosa che è stata anche positiva in passato quando gli Americani hanno salvato l'Europa dal fascismo.

Oggi il problema è sapere se la comunità internazionale ha la possibilità di riformare le Nazioni Unite, per rinforzale. Oggi è più evidente che o c'è un'iperpotenza imperiale, o le Nazione Unite. Ma l'impero americano non ha trovato una politica a livello dell'umanità, che non è certo un intervento militare in Iraq. Io rifiuto un'idea di sviluppo che sia unicamente un'idea tecnoeconomica, che non sia una politica per l'umanità. Politica è per prima cosa lottare contro la grande ineguaglianza. Tutto il mondo non ha lo stesso trattamento. Non vengono trattati allo stesso modo Israele e Palestina. Il mondo islamico lo capisce molto bene. Bisogna lottare per una pace giusta e per una uguaglianza di trattamento, Una politica per l'umanità deve porsi i problemi fondamentali dell'alimentazione, dell'acqua, della sanità e delle medicine. Tutto questo è molto più importante di quella cosa che viene chiamato sviluppo.

Terzo punto. Capire che la miseria umana non è solo nella povertà di mezzi, che si misura in quantità di denaro. La miseria è subordinazione, umiliazione, cose che non si misurano in dollari. C'è bisogno di una politica per l'umanità a misura di pianeta. Secondo: una politica della civilizzazione: che significa che non basta esportare le cose buone della civiltà occidentale, i diritti, ma anche vedere tutti i difetti dell'Occidente, l'egemonia del processo tecnomaterialista e del profitto, la perdita del senso della qualità della vita.

In altre civiltà che magari chiamiamo «sottosviluppate», possiamo trovare molti valori fondamentali: ospitalità, amicizia, relazione umana, solidarietà. Viviamo in una civiltà dominata dal calcolo economico e quantitativo, che non vede la sofferenza umana, o la felicità, che sono invisibili. Dobbiamo cambiare questa mentalità. E c'è una simbiosi di civiltà con realtà che sono altrettanti tesori di pensiero. Nel fondo della civiltà cinese ad esempio, con il tao e il confucianesimo. Tesori che possiamo trovare anche in società microscopiche, come quelle indie dell'Amazzonia, che conoscono segreti della medicina. Queste sono le condizioni che permettono un cambio. Ma finora gli Usa basano il loro tipo di pensiero unicamente sulla strategia, ma tutto questo non basta. Siamo arrivati a un momento nel quale il processo di autodistruzione è avanzato. Stiamo dirigendoci verso la catastrofe. Se la nave spaziale va avanti spinta dai quattro motori incontrollati della scienza, della tecnica, del profitto e dell'economia, allora la catastrofe ecologica sarà sicura. Invece che cercare una soluzione verso l'alto, finiremo in una scelta al ribasso come fossimo Mad Max.

Lei è stato uno dei primi tra gli studiosi di scienze umane a occuparsi di cinema. Con Jean Rouch, ha lavorato nel 1960 a un film da cui si fa nascere la novelle vague francese.
Rouch ha utilizzato quelle condizioni tecniche che hanno permesso di fare il film, fuori delle grandi produzioni... I film erano condizionati dal dover scivolare verso il lieto fine, il raggiungimento della felicità, celebrato dal bacio finale. Nel 1960, nella crisi di questa ideologia, quando si è capito che non bastava il benessere materiale, ma ci voleva un benessere profondo, dell'intera persona, non è più stato necessario che il film finisse con un happy end, ma si è potuta mostrare la forma tragica o ambivalente (era successo anche in un film di Martin Ritt) , una rottura della standardizzazione. Lo stesso accadeva nella stampa femminile francese, che fino a quel momento si era occupata di felicità e di piccoli problemi coniugali e poi è cambiata, ha affrontato problemi come la solitudine, il divorzio, i figli che se ne vanno, l'invecchiamento. Il cinema è arrivato a osservare questo.

Un suo libro famoso di quegli anni era sulle star e il divismo, su cui lei ha scritto forse l'analisi più approfondita. Da Reagan in poi, e fino a Schwarzenegger i divi sono diventati leader politici.
C'è stata la «divizzazione» della politica, processo che era già cominciato con Kennedy, sempre ritratto con la moglie, e con i bambini, come allora facevano solo le star. E si è generalizzato fuori degli Stati uniti.

Anche il nostro capo del governo è una star mediatica.
Anche molti presentatori televisivi si sono dati alla politica, e penso che questo porti a una degradazione della politica. Perché la politica non è più un'attività pensante. Nell'800 c'erano i Marx, i Bakunin, i Proudhon, o per i conservatorei pensatori come Toqueville. Oggi non c'è più riflessione, il politico non ha tempo per leggere. E' un campo per tecnocrati e per specialisti in economia, vedono solo i listini di borsa, che sono solo quantitativi, non hanno più la capacità di pensare la società e il futuro, perché il futuro è difficile da pensare. Questo è un fattore di degrado. A ciò si aggiunge il divismo con il ruolo evidentemente nuovo della televisione. Ma quando c'è una lotta politica tra due di pari grado, entrrambi rimangono della propria idea, solo una piccola minoranza può determinare il cambiamento.

Allora dobbiamo confidare in quella minoranza?
Quando l'alternativa è tra due possibilità entrambe negative, che può fare una minoranza?
Il metodo di Edgar Morin
Nato a Parigi nel 1921, il suo straordinario viaggio intellettuale lo ha condotto innanzittutto alla sociologia da lui intesa come disciplina in cui meglio può agire la strategia dell'atttenzione per l'umano e, attraverso lo studio della filosofia e della scienza, alla scoperta che non vi è forma di sapere che non sia in primo luogo la fioritura del vissuto. Autore di studi sui più vari argomenti - i media, il cinema, i temi del lessico politico del '900 - ha creato le grandi linee di una sociologia del presente, basandosi soprattutto sul concetto di complessità che si ritrova nei suoi numerosi volumi de «Il metodo». Un progetto-percorso inaugurato nel 1977 con «La natura della natura» (trad. it. Feltrinelli) che rimane uno dei testi fondamentali del pensiero complesso a cui erano seguiti «La vita della vita» (Feltrinelli `87) «La conoscenza della conoscenza ('89) e «Le idee» ('93) e, dieci anni dopo «L'identità umana» (Cortina 2002). Parigi collegato all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, ha fondato la rivista «Communications». Tra gli altri numerosi libri tradotti in Italia: «I divi» (Mondadori 1963); «Il paradigma perduto» (Bompiani 1974); «Il cinema o l'uomo immaginario»( il Saggiatore 1979); «Introduzione al pensiero complesso» (Sperling & Kupfer, `93); «Pensare l'Europa» (Feltrinelli '88); «Terra-patria» (Cortina 1994); «Introduzione a una politica dell'uomo», «Lo spirito del tempo» (Meltemi 2002).