domenica 1 febbraio 2004

Pietro Ingrao domenica 1 febbraio su Liberazione

Liberazione 1.2.04
INGRAO: LA PACE UN PROGETTO POLITICO

Pacifismo, è un fare per la pace
non una passività calabrache
di Pietro Ingrao


Il dibattito sulla non-violenza, aperto da Fausto Bertinotti, si sta sviluppando e allargando sulle colonne di Liberazione e de il manifesto, e questo davvero è un bene (della discussione avvenuta nella direzione di "Rifondazione" so troppo poco per esprimere giudizi o porre interrogativi).

A me sembra una iniziativa politica urgente e feconda. Personalmente io però sarei incline a non estenderla ad una riflessione sulla violenza "in generale" nella vita umana: e non solo perché in un dibattito che assuma tali dimensioni e livello io ho idee assai più incerte; ma perché mi sembra che una riflessione sulla violenza debba innanzitutto misurarsi sui drammatici eventi in corso: sul ritorno imperioso e sconvolgente che ha avuto sul globo in cui abitiamo la "guerra di massa": nel tempo - non dimentichiamolo mai - dell'atomica, l'arma suprema, di cui l'uomo della strada, il semplice cittadino sa quasi nulla. Penso insomma alla nuova "violenza pubblica", posta in campo dai reggitori degli Stati (o degli imperi, se volete): l'evento che mi sembra il grande fatto nuovo con cui si apre questo secolo, e chiama in campo, con urgenza, la risposta degli spiriti pacifici (per ricorrere a un vocabolario antico).

E ciò che mi preme è se e come costruire una strategia e una risposta politica ai nuovi "signori della guerra": un obiettivo, che certamente sarà aspro e difficile e per nulla lineare.

Lotta alla passività

Intanto e prima di tutto, esso chiede una lotta contro la passività. Ci sono oggi milioni di esseri umani che si limitano a guardare - illudendosi che il conflitto armato possa essere gestito e patito solo da corpi speciali, che fanno questo per mestiere o vocazione: e che si possa lasciare a loro quel compito sanguinoso e grave, se mai - patriotticamente - rendendogli onore quando cadono e perdono la vita. I campi di battaglia, a volte e spesso, sono lontani e in certo modo circoscritti: perché dunque temere l'urto delle armi quando esso non mi tange, non giunge al mio cortile di casa?

Il pacifismo è lotta contro questa illusione: è l'evocazione di una corresponsabilità, e insieme la coscienza, l'individuazione degli attori: dei "signori della guerra" e delle forze e delle istituzioni (dei poteri) che li muovono e li sorreggono. Pacifismo è fissare e diffondere nei popoli questa mappa. E farne un aspetto centrale della lettura del mondo in cui oggi viviamo: della sua falsa "innocenza", e del nuovo terribile slancio che torna a prendere l'uccidere di massa.

In questa luce, pacifismo è forse e prima di tutto la questione della secolare discussione sulle armi: sulle risorse che per esse vengono impegnate e consumate, e se ciò è paragonabile e compatibile con i mezzi necessari allo studio, ai saperi, alla scuola, e anche alla salute dei cittadini. Insomma: aprire di nuovo ed efficacemente un contenzioso sulle "spese militari" (vi ricordate questa parola?): su quanto costa "l'uccidere pubblico", e quanto esso si mangia del nostro pane. Non abbiamo troppo appannato questo tema?

Quindi pacifismo oggi è anche trarre fuori dagli armadi finiti in soffitta una parola antica: disarmo. Ci fu un tempo in cui questa parola era sulla bocca di molti, ed esso fu nei programmi o nelle promesse dei governi, e - certo - nelle grandi lotte delle popolazioni e dei cittadini.

Oggi quella parola è scomparsa. Pacifismo è resuscitarla: non solo sulle bocche di tanti, ma nelle battaglie dei Parlamenti, nelle scelte dei governi: con la coscienza che oggi più ancora - forse - della quantità delle armi, conta la loro nuova qualità. E riconoscere, rendere pubblici gli strumenti di morte e i nuovi veleni che sono in mano a chi comanda gli eserciti, e quali guasti e stermini sono possibili.

I bilanci militari

Rileggiamo i bilanci di questa e altre repubbliche. Riapriamo il discorso su dove - forse! - stanno (e come e in mano a chi) gli arsenali atomici. Portiamo questi temi anche nelle scuole, perché gli adolescenti già sappiano su che poggia il potere che prepara il loro domani.

Lo so: tutto questo - e altro ancora - riguarda il prima della guerra: un tema che sembra scomparso dalle nostre agende e che il pacifismo - come lo vedo io - ha l'enorme compito di resuscitare. Forse sbaglio: ma io penso che abbiamo accettato troppo quietamente il ritorno della guerra di massa. Non abbiamo fatto scandalo. Non abbiamo misurato ed evocato la gravità dell'evento.

Poi ci sono le guerre che già esistono: sono troppo ingiusto se dico che ad esse il mondo - e anche un campo di cui noi facciamo parte - in un certo modo anche a ciò sta adattandosi? Per amaro che sia noi non abbiamo fatto il possibile per impedire la seconda guerra all'Irak. Né - mi sembra - sia ancora terminata la guerra in Afghanistan. E poco o nulla io so dirvi delle molte e crudeli guerre che squassano l'Africa, rispetto a cui la parola "pacifismo" sembra proprio suonare bizzarra e distante.

L'art. 11 esiste!

Ma c'è stata anche un'assenza che riguarda direttamente noi: noi italiani. Abbiamo tollerato che in questo Paese fosse gravemente scavalcato ciò che impone esplicitamente la Costituzione di questa Repubblica, quando all'articolo 11 consente solamente la guerra di difesa. E l'assurdo, il ridicolo è che mesi or sono non uno qualsiasi, ma il Presidente della Repubblica, rompendo un lungo silenzio, ha confessato che sì l'articolo 11 esiste. Dunque esiste ma non vale: e noi abbiamo mandato i nostri soldati in Irak.

Il diritto alla resistenza

Quelle truppe italiane - per me - sono aggressori; e pacifismo - nel suo senso più elementare - è lottare perché cessi quell'aggressione armata. Quale motivazione più urgente per invocare e costruire una corrente pacifista? E chiamarla subito a un compito così necessario e bruciante? E non è questo sopravvenire della guerra preventiva una ragione nuova per invocare il ritorno al dettato dell'articolo della Costituzione italiana? Perché non accade? E invece Massimo D'Alema, autorevole dirigente dei Ds, parla ancora di "astenersi" nel voto prossimo su questa presenza illegale di truppe italiane in Irak.

E qui - bisogna dirlo- s'apre un problema nuovo e aspro per noi pacifisti: la questione del diritto del popolo irakeno. Noi pacifisti potremmo negare al popolo irakeno il diritto di resistere, anche con le armi alla mano, all'aggressore straniero? E però - ecco il dubbio - non rinneghiamo così la nostra vocazione alla non - violenza?

Personalmente io ritengo che non si possa rifiutare a chi nel suo paese è aggredito da un esercito straniero la possibilità di difendersi e respingere l'aggressore anche con le armi. Ma penso e spero che l'esistenza attiva e coraggiosa di una movimento pacifista di respiro internazionale divenga il luogo costruttivo in cui esplorare, vagliare e decidere quale sia la strada migliore per assicurare libertà e pace a quel paese aggredito.

La scelta pacifista

Insomma il pacifismo non è solo una dichiarazione di fede e un mero rigetto dell'uso delle armi. Non è una strategia delle mani pulite e della pura speranza nella pace. E' un soggetto politico-sociale capace di intervenire nei punti di crisi contro la pratica della violenza, e per la individuazione e la costruzione di vie pacifiche. E' un fare per la pace: non una passività da calabrache. E la sua efficacia sta proprio nell'agire (e prevenire) sul conflitto e nel conflitto. E noi, con questa scelta e questo dibattito sul pacifismo, stiamo cercando ed esplorando le vie per pensare il conflitto, nelle condizioni - nuovissime - in cui si presenta in questo inizio di secolo.

Terrorismo: netta condanna

E qui l'orizzonte si allarga. Io credo che dalla riflessione che sono venuto sommariamente sviluppando emerga chiaramente l'obbligo (uso volutamente questa parola così rigida) di una condanna del terrorismo messo in campo da una parte del mondo arabo ferito. Non solo esso è una via che si fonda sulla violenza nel senso più crudo e nudo. E' una strada che non solo dà un alibi- per ipocrita che sia- all'aggressore occidentale, ma poggia tutta sullo scontro armato, e sulla carta avvelenata delle armi. E' l'opposto sanguinario della via che il pacifismo propone. Ed un compito urgente che dobbiamo affrontare è il dibattito e la ricerca sulle vie per combatterlo. Qui sinora c'è un'assenza nostra, che richiede una riflessione nuova da avviare: e prima di tutto cerchi di comprendere come il pacifismo si sia indebolito ad Oriente, proprio là dove si era sviluppata l'azione fulgida e militante della figura e del pensiero di Gandhi (e non dimentico - certo - le differenze grandi e la distanza fra il mondo arabo di oggi e l'India di Gandhi).

Penso che in questa luce dobbiamo sconsigliare e combattere anche la strada povera e dolente dei kamikaze: quell'uso disperato e misero della morte sacrificale è ancora violenza, per giunta inutile e infeconda, e quasi dimentica delle dimensioni della lotta.

Il mondo d'oggi

Al tempo stesso io sento e temo l'inefficacia e la sterilità di questa critica. Il pacifismo può superare questa sterilità, solo individuando, costruendo strade diverse dall'urto armato. E la nostra discussione di questo parla, di questo deve discutere: non una scelta astratta fra pace e guerra, tra violenza e carità, ma la costruzione di una strategia concreta contro la violenza nel nostro tempo.

Certo: andiamo pure a sfogliare quelle pagine di Lenin e di Gramsci - che in altro tempo mi parvero così obbliganti e oggi invece mi appaiono così dubbie -, e a rileggere e resuscitare quel tempo. Ma guardando il mondo nella sua inaudita e tragica luce di oggi.