domenica 21 marzo 2004

«lo scienziato e l'artista si rivelano davvero poeti e cioè creatori, nella loro opera come nella loro esistenza»

Corriere della Sera 21.3.04
L’INTERVENTO
Bruno, Cartesio, Copernico: le favole del pensiero
di GIULIO GIORELLO


«Gli dei pigliano piacere nella moltiforme representazione di tutte cose, e frutti moltiformi de tutti ingegni». Così nel 1584 Giordano Bruno, il filosofo che si definiva «lodato da pochi, approvato da nessuno, perseguitato da tutti». Ma non è questa anche la sorte della novità scientifica, quando ancora è un «embrione» e non «trama», cioè configurazione capace di rompere con la costellazione dei pregiudizi stabiliti? Lo hanno sperimentato sulla loro pelle uomini come Copernico e Darwin, colpevoli l’uno di aver «messo in movimento» il nostro globo, l’altro di aver mostrato che il mondo del vivente è in perpetua evoluzione - due vere e proprie «scoperte», perché quel tipo di movimento-mutamento sfugge ai nostri sensi e va oltre l’esperienza quotidiana. Lo scopritore è sempre un narratore: Colombo descrisse minuziosamente la sua conquista del Nuovo Mondo; Copernico si prese la briga di raccontare come aveva imparato a diffidare delle apparenze; Darwin si fece cronista del proprio viaggio intorno al globo - per non dire di Bruno, che mise in scena la sua ricerca di quel Dio «che è dentro di noi, più che noi siamo dentro noi stessi» (e scontò questa scoperta sul rogo in Campo dei Fiori, 17 febbraio 1600). La rappresentazione della realtà è davvero multiforme! Lo può constatare qualunque spettatore, al cinema. E la narrazione cinematografica, prodotta dallo scorrere dei fotogrammi di una pellicola, è una metafora ancora imperfetta di una storia. Quello che importa, infatti, non è la linearità della sequenza, ma la complessità delle forme che producono la trama.
Una particolare disciplina scientifica, l’embriologia, ci fa capire come qualsiasi vita sia una continua metamorfosi di un individuo che, proprio in questo mutare, si definisce sullo sfondo del proprio ambiente. Questo vale anche, a tempi più lunghi, per l’evoluzione delle specie viventi per selezione naturale; nonché, su scala ancor più grande, per quella che nel Seicento si chiamava la «fabbrica dei cieli» - pianeti, stelle, galassie e forse l’intero nostro universo, il quale ha una storia, anzi è storia. Con tutte le nostre audaci ipotesi cosmologiche e i potenti telescopi fissi od orbitanti attorno alla Terra, noi ne siamo i modesti cronisti, ne raccontiamo cioè dei frammenti, e forse ci sfugge il senso della trama complessiva. Giordano Bruno paragonava l’opera del «filosofo della natura» (oggi diremmo scienziato) a quella di un pittore che raffigura «qui una nuvoletta, là uno straccio di cielo»; ma, al contrario degli ordinari pittori, non può mai prendere le giuste distanze da quel che rappresenta, perché appartiene al «quadro» stesso che viene delineando. È questo suo essere al contempo soggetto e oggetto della rappresentazione che fa di lui l’autentico narratore di una vicenda in cui ne va sempre della sua vita.
Prendo a prestito una battuta di Nuccio Ordine (dal suo bellissimo "La soglia dell’ombra", Marsilio, Venezia 2003): «Scrivere la vita e vivere la filosofia». È il destino che liberamente si sceglie qualunque grande scienziato o qualunque grande artista. Sia l’uno sia l’altro si rivelano davvero poeti e cioè creatori, nella loro opera come nella loro esistenza. Proprio per questo, nel nostro mondo che pur si pretende scettico e disincantato, non è mai venuto meno il mito (la parola, in origine, voleva dire «discorso vero») come capacità di riscrivere di continuo il grande libro del mondo. Appunto come capitava al grande Cartesio, quando i suoi detrattori (in realtà gli facevano un complimento) dicevano che la sua opera si sarebbe potuta intitolare Il Mondo è una Favola . E come diceva il maligno Giovenale di Ulisse, che inventava il proprio mito mentre narrava le sue peripezie «agli sbalorditi Feaci».