domenica 21 marzo 2004

Ungaretti e Gobetti

Corriere della Sera 21.3.04
Una dedica inedita del poeta simpatizzante del regime al fondatore della «Rivoluzione liberale»: «La libertà è una parola vana»
Ungaretti e Gobetti, strana coppia ai tempi del fascismo
di Dario Fertilio


Giuseppe Ungaretti e Piero Gobetti. Poeta attratto dal mussolinismo imperiale, il primo; intellettuale visceralmente «contro», il secondo. Eppure, i loro destini si incrociarono, benché tra le carte del poeta scomparso nel 1970, a 82 anni, non se ne siano trovati cenni (per non parlare dell’intellettuale antifascista, morto in esilio a Parigi appena venticinquenne). Tempo fa, la rivista «Belfagor» segnalò un documento inedito, una dedica vergata da Ungaretti sul «Porto sepolto», la raccolta di versi pubblicata a La Spezia nel 1923. Di quella edizione curata da Ettore Serra, amico del poeta fin dai tempi in trincea del ’15-18, esisteva una copia dimenticata nella biblioteca personale di Gobetti a Torino. Ed ecco, sfogliandola, comparire in frontespizio un’epigrafe di Ungaretti scandita dai versi:
«A Piero Gobetti
La libertà è una parola vana.
Le grandi cose nascono dall ’amore,
dal sacrifizio, dalla disciplina.
L’abbiamo tutti imparato - chi ha
imparato qualche cosa - pagando
di persona.
All’avversario che spero di ritrovare
compagno
Giuseppe Ungaretti
Roma, l’11 luglio 1923»
Non c’è dubbio: un’esortazione rivolta all’intellettuale, di tredici anni più giovane, perché aderisse al fascismo in marcia. Un invito che oggi, riletto a tanti anni di distanza, suona un po’ sinistro: Gobetti, avversario dichiarato di Mussolini, morirà in volontario esilio a Parigi già nel 1926. Come interpretare dunque il gesto del poeta nei confronti di un intellettuale «inossidabile» rispetto alla propaganda del regime? Come poteva spera re, Ungaretti, di ritrovare «compagno» l’antifascista della prima ora? Per rispondere bisogna tentare di chiarire la loro relazione. La differenza d’età non era d’ostacolo: Gobetti si era già legato a Prezzolini e Salvemini, entrambi di qualche anno più anziani di Ungaretti. D’altra parte, loro due erano sempre vissuti distanti, benché Ungaretti, dopo la giovinezza trascorsa in Egitto (al seguito del padre, umile sterratore durante la costruzione del canale di Suez), si fosse stabilito per qualche an no a Parigi: la stessa città rifugio per artisti, intellettuali e militanti politici perseguitati dove di lì a poco Gobetti avrebbe trovato la morte. Forse, l’occasione del primo colloquio era venuta dalla comune amicizia e frequentazione con lo scrittore Giacomo Debendetti. Ma c’era dell’altro, a parte le opposte convinzioni politiche, ad unirli: la passione per la poesia, l'arte, la letteratura.
Questa dedica di Ungaretti getta, infatti, una luce speciale sul Gobetti privato: studente appassionato di poesia, che nel giugno del 1920 scrive al la «fidanzatina» Ada Prospero, poi destinata a diventare sua moglie, di essere appassionato di Dante «tutto musica e luce»; di «adorare» Leopardi; di aver deciso di dedicare la sua tesi di laurea a Vittorio Alfieri, giudicato «il primo uomo nuovo». E che dichiara, tra i moderni, di ammirare Slataper, mentre mantiene rapporti con Saba, sviluppa un’amicizia con Montale (sarà il primo editore dei suoi «Ossi di seppia»), ha come compagni di studi il futuro critico Natalino Sapegno e lo scrittore Carlo Levi. Non solo: l’eclettico Gobetti si appassiona alla pittura, tanto da essere legato a Felice Casorati, e al teatro (diventerà infatti critico teatrale dell’«Ordine Nuovo» e scriverà una recensione entusiastica su Eleonora Duse).
Ecco, dunque, la chiave per comprendere l’affinità tra i due personaggi: il gusto per l’immaginazione creativa, quasi un antidoto alla durezza dei tempi. Strano scambio dei ruoli: Ungaretti mostra un volto politico, al punto da rimproverare la passione gobettiana per la libertà come una specie di lusso borghese in tempi di lacrime e sangue. Ma, se da un lato serve a mettere in rilievo l’esistenza di un Gobetti «privato», l’epigrafe aiuta anche a comprendere qualcosa dell’Ungaretti «politico». Il suo gusto cioè, dopo la scelta interventista che gli aveva fatto sperimentare la disperazione e le miserie di Caporetto, per un movimento come quello fascista, capace ai suoi occhi di restaurare la «magnificenza» della civiltà romana e della tradizione latina sopraffatta dalle barbarie della modernità.