venerdì 26 marzo 2004

storie:
Pietro il Grande

Corriere della Sera 26.3.04
Due saggi ripropongono la figura del fondatore di San Pietroburgo. Che secondo alcuni fu un precursore di Stalin
Messia o Anticristo, il doppio volto del Grande zar
COLPEVOLISTI
di Vittorio Strada


Tra quelli che Hegel chiamava gli «individui cosmico-storici», cioè tra le personalità che nella storia hanno realizzato trasformazioni epocali, il più enigmatico e controverso è Pietro I detto il Grande. Enigmatico non solo per la sua personalità labirintica, che sfugge a una decifrazione chiara, ma per il suo stesso operato che ancor oggi, a distanza di quasi tre secoli, si sottrae a un bilancio univoco. Controverso perché la sua figura e la sua azione fin dall’inizio sono state al centro di una discussione, all’interno della cultura russa, che per intensità e radicalità non ha uguali, coincidendo con la determinazione dell’identità della Russia e della specificità della sua storia. Per avere un’immediata impressione visiva degli estremi in cui la stessa persona fisica del sovrano è stata percepita e raffigurata basta percorrere la distanza che a San Pietroburgo, la città da lui fondata, divide la piazza del Senato dalla Fortezza dei Santi Pietro e Paolo: la prima è sovrastata dal celebre Cavaliere di bronzo, il monumento equestre di Étienne Falconet che rappresenta Pietro in un sembiante eroico, coronato con un serto di alloro, maestoso e minaccioso sul dorso di un destriero che s’impenna sopra un immane basamento di roccia; in uno slargo della seconda troneggia una scultura di Mikhail Shemiakin: Pietro è seduto rigidamente su una poltrona, di poco sollevata dal suolo, la testa sproporzionatamente piccola, calva, il tronco massiccio, le gambe lunghe e sottili, le mani dalle dita proteste e affusolate come tentacoli, il tutto simile a un inquietante extraterrestre o a un grottesco robot. Due ipostasi di Pietro che, sdoppiato anche sessualmente (etero e omo), era polarmente visto già dai suoi contemporanei: da alcuni come un nuovo Messia, da altri come un apocalittico Anticristo.
Due storici angloamericani offrono ora l’opportunità di «rileggere» il sovrano russo e la sua azione: contemporaneamente sono usciti due libri con lo stesso titolo Pietro il Grande , l’uno di Paul Bushkovitch (Salerno editrice), l’altro di Lindsey Hughes (Giulio Einaudi editore), entrambi di buon livello, il primo più attento al sistema politico russo e alla sua riforma operata da Pietro, il secondo più aperto alla figura del sovrano e all’evolversi della sua percezione tra i posteri. Precisi sono i bilanci che entrambi gli storici, autori di altri studi su Pietro I e la sua epoca, tracciano alla fine delle loro ricerche, anche se il bilancio vero dovrebbe estendersi dai risultati immediati al «tempo lungo» poiché le trasformazioni di Pietro, riformatrici o rivoluzionarie che siano, hanno segnato l’intero sviluppo storico successivo e come tali anche oggi sono discusse in opere letterarie recenti come quelle di Michail Kuraev e Daniil Granin, oltre che nelle pubblicistica di Aleksandr Solzenicyn.
Sulla comprensione della figura e dell’opera di Pietro il Grande pesa ancora una inevitabile, ma spesso banale analogia con la rivoluzione bolscevica e i suoi capi, Lenin e Stalin. Per alcuni la proiezione reciproca di immagine (di Lenin e Stalin su Pietro e viceversa) suona come un’esaltazione di tutti loro in quanto individui «cosmico-storici» che, con metodi efferati, operarono un grandioso sovvertimento, nazionale (Pietro) e metanazionale (Lenin e Stalin). Per altri, fautori di una Russia autoctona e antioccidentale, Pietro è invece il responsabile di una europeizzazione traumatica che ha sradicato la Russia, spingendola, alla fine, nel baratro di una rivoluzione, quella bolscevica, rea di aver denazionalizzato ulteriormente il Paese, privandolo della sua più intima natura religiosa e spirituale.
Pietro è stato il primo a tentare quella «modernizzazione» che poi altri Paesi «tradizionali» o «arretrati», dal Giappone alla Turchia, in altri modi hanno realizzato e che Pietro affrontò decisamente a partire dal taglio delle barbe patriarcali, dall’imposizione di vestiti di tipo occidentale, dalla liberazione della donna dal gineceo, dall’introduzione del calendario europeo, dal rifiuto della xenofobia, eccetera fino alla fondazione dell’Accademia delle scienze e a tutta una serie di riforme amministrative, sociali, militari.
Se questi sono, in breve, i problemi generali che uno studio di Pietro il Grande pone, non meno rilevante è la figura del sovrano, figura enigmatica, s’è detto, quasi in lui convivessero diverse personalità che via via contradditoriamente si manifestavano. Centrale è, nella sua biografia, il rapporto col figlio, Alessio (Aleksej), neghittoso e fiacco d’animo e di corpo, agli antipodi del padre, che lo fece processare e torturare a morte, quando si convinse di non poter affidare a lui, legato alle forze conservatrici e forse strumento di una loro congiura, l’eredità delle sue riforme. Pietro, che si fregiava del titolo di «Pater patriae», sentiva questa paternità civile come superiore a quella carnale, e voleva che la sua amata creatura, la nuova Russia negatrice della vecchia Moscovia, non finisse assieme alla sua esistenza fisica.
Spietato fu Pietro con i suoi sudditi e i suoi nemici in nome di quel «bene comune» che costituiva il suo criterio direttivo. Ma fu anche barbaricamente crudele, smodato, tirannico nelle sue manifestazioni personali, nello spirito dell’epoca, del resto. La crapula burlesca e buffonesca, di cui erano centro il «Collegio della sbornia» da lui fondato, le feste in maschera da lui organizzate, le parodie delle cerimonie religiose e civili da lui praticate, la sua volontà di nascondere a volte il suo rango e indossare i panni di carpentiere, ad esempio, o di riverire una sorta di sua controfigura regale da lui stesso creata per celia, tutto ciò costituisce l’aspetto bizzarro e carnevalesco del regno di Pietro, che però ne ebbe un altro sanguinario e grandguignolesco, quasi questa dissacrazione ludica facesse parte della sua sovversione e ricostruzione culturale secolarizzata dalla società russa che, se aprì una ferita a lungo sanguinante, agì anche come un potente stimolo creativo. Forse la chiave per interpretare la figura di Pietro il Grande sta in una teatralità barocca che gli permetteva di giocare a suo piacere vari ruoli, al di là di quello di sovrano, in un mondo che egli aveva messo sottosopra, strappandolo a un passato sempre più lontano dai tempi nuovi.

«Pietro il Grande», di Paul Bushkovitch, storico a Yale, è edito da Salerno (p. 524, 29): illustra i 50 anni del regno e la fondazione di San Pietroburgo. Il saggio di Lindsey Hughes, che insegna storia russa a Londra, è edito con lo stesso titolo da Einaudi (p. 342, 30), ed è dedicato sia alla figura dello zar che alla persistenza del suo mito fino a oggi