venerdì 26 marzo 2004

Alexandre Kojève

Repubblica 26.3.04
Il grande interprete di Hegel alle prese con la fine della storia

Nato a Mosca nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti, approda dopo la Rivoluzione d'Ottobre a Parigi
Esce ora in Italia "Il silenzio della tirannide", un´inedita raccolta di saggi curata da Antonio Gnoli
Il saggio iniziale è incentrato sul confronto con Leo Strauss a proposito del rapporto tra filosofia e politica, sovranità e silenzio
Sulla "Fenomenologia dello Spirito" tenne un mitico corso negli anni Trenta frequentato da Aron, Lacan, Bataille, Merleau-Ponty, Caillois e Klossowski
di FRANCO MARCOALDI


Anche Alexandre Kojève, «l´occulto maestro del '900», ha conosciuto (post mortem) il suo quarto d´ora di popolarità. E´ avvenuto quando Francis Fukuyama si è avventurato in una frettolosa rilettura della sua teoria sulla «fine della storia», applicata al crollo del Muro di Berlino e al conseguente, irresistibile trionfo planetario delle democrazie liberali. Tutti abbiamo potuto verificare, negli anni successivi, l´inanità di quell´idillico quadro. E così, svanita la breve stagione di glamour del saggio di Fukuyama, Kojève è tornato a svolgere il ruolo che gli è più proprio: per l´appunto quello di maestro occulto.
Perché tale indubbiamente è stato, come dimostra la platea d´eccellenza che dal 1933 al 1939 seguì, ogni lunedì, presso l´École Pratique des Hautes Études, il suo seminario sulla «Fenomenologia dello Spirito» di Hegel: Jacques Lacan, Raymond Aron, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, André Breton, Pierre Klossowski... Insomma, si farebbe prima a dire quale grande figura della cultura francese del tempo non ha partecipato a quel seminario, tenuto da un emigrato russo appena trentunenne che oltretutto era finito lì per caso, chiamato a sostituire l´amico Alexandre Koyré.
Una ragione di tale successo vi sarà pur stata. E la ragione era che tutti questi esimi signori si trovarono di fronte un insuperabile incantatore di serpenti, il quale, dopo aver letto la Fenomenologia per ben quattro volte senza averci capito un bel niente (ipse dixit), ora invece da quel prodigioso sistema di pensiero estraeva un unico, abbagliante cristallo, da cui si evinceva, per l´appunto, «la fine della storia».
Torneremo su quella che è rimasta la più celebre (ed enigmatica) formulazione di Kojève. Ma per il momento cerchiamo di tratteggiare un po´ meglio la vita di questo irripetibile personaggio: raccontando il suo prima e il suo dopo, così diversi e distanti da quella strepitosa parentesi accademica (peraltro condotta secondo uno stile assolutamente antiaccademico).
Nato nel 1902 a Mosca da una ricca famiglia di commercianti, nipote di Kandinsky, Kojève (il cui vero nome era Alexandr Kozevnikov), dimostra da subito una stupefacente capacità di apprendimento. Ancora bambino riceve lezioni private e impara il latino, il francese, l´inglese e il tedesco. La Rivoluzione d´Ottobre scoppia quando lui ha appena quindici anni; e mentre nel paese si aggrava la penuria alimentare, Kojève, assieme ai suoi amici, si dà al mercato nero e viene arrestato dalla nuova polizia politica. Liberato grazie ai suoi legami familiari, conclude il liceo e cerca di iscriversi all´università, ma stavolta l´origine sociale gli è d´impedimento: l´iscrizione gli viene negata e Kojève decide di lasciare la Russia in compagnia dell´amico Georges Witt.
Arrivati nella Polonia anticomunista, i due finiscono in galera sotto l´accusa di essere agenti bolscevichi infiltrati e dopo svariate peripezie raggiungono la Germania, dove ad Heidelberg Kojève segue i corsi di Karl Jaspers (con il quale rimarrà anche successivamente in contatto). I suoi interessi, nel frattempo, cominciano a dilagare; affascinato dal buddhismo, il Nostro studia tibetano, cinese, sanscrito. Ma un sapere enciclopedico è tale solo se è capace di includere anche la scienza (ecco così i nuovi studi di matematica e fisica dei quanti) e la teologia (su cui verte la tesi, dedicata a Solov´ev). Del resto Kojève, nel frattempo sposatosi con la cognata di Koyré e trasferitosi a Parigi, ha tutto il tempo che vuole per studiare: la coppia infatti, almeno in un primo tempo, «vive nel lusso e nell´ozio». Fino a quando cessa improvvisamente il flusso delle entrate, legate a uno zio venditore di formaggi, e dunque risulta quanto mai gradita l´occasione di sostituire l´amico Koyré nei seminari su Hegel.
E´ allora che nasce la teoria sulla «fine della storia»; teoria «impalpabile e suggestiva», indagata ora nelle sue mille nuances da Antonio Gnoli nella sua illuminante postfazione alla nuova raccolta di saggi di Kojève, curata dallo stesso Gnoli e uscita proprio in questi giorni da Adelphi (Il silenzio della tirannide, pagg. 267, euro 29, 50). Se presa alla lettera, quella teoria è facilmente smontabile: come definire conclusa una storia che sta conoscendo l´orrore dei totalitarismi e sta precipitando nel baratro della seconda guerra mondiale? Il primo a saperlo, naturalmente, è Kojève: ovvio che «succedono sempre nuovi avvenimenti, ma dopo Hegel e Napoleone non si è detto, non si può dire nulla di nuovo».
Questo è il punto: il ciclo della modernità si è concluso. Hegel ne è stato il massimo interprete, insegnandoci fondamentalmente come lo sviluppo della coscienza umana si leghi al desiderio di «riconoscimento» e come questo desiderio - nell´incessante confronto tra Signore e Servo - provochi lotta, sangue, violenza, rivoluzioni, lavoro. La cesura di questa plurisecolare vicenda avviene con lo «Stato universale e omogeneo» napoleonico, che inaugura un nuovo processo, ancora in atto, di progressiva integrazione tra gli uomini, tesa a un globale e reciproco riconoscimento. Da qui la fine della storia come ininterrotto esercizio di «negazione» e da qui anche (e soprattutto) la fine del processo speculativo che l´ha accompagnata.
Kojève sarà conseguente con questo assunto e nel dopoguerra, abbandonata qualunque idea di insegnamento, diventerà un «grand commis» dello Stato francese, influenzando fortemente la politica economica del governo. Il che non gli impedirà di continuare ad «esercitare una attività pubblicistica quasi clandestina»: per l´appunto quella di cui dà conto ora Il silenzio della tirannide.
Si tratta di un gruppo eterogeneo di scritti, «raccolti per la prima volta al mondo», che ancora una volta riflettono l´impressionante vastità di interessi di Kojève: al saggio iniziale, incentrato sul confronto con Leo Strauss a proposito del rapporto tra filosofia e politica, democrazia e tirannide, sovranità e silenzio, si accompagnano le velenose lettere inviate a Bataille giusto a proposito del silenzio («riuscire a esprimere il silenzio (verbalmente!) significa parlare senza dire nulla»). E ancora: all´apparente futilità delle recensioni dei libri di Françoise Sagan fa da contrappunto un futuribile progetto politico che vedrebbe la Francia quale volano di un nuovo impero latino, capace di bilanciare sulla scena mondiale gli imperi anglo-americano e slavo-sovietico.
Naturalmente nulla impedisce al lettore di godersi ogni singola lettura per ciò che essa offre: tantissimo, visto che Kojéve dà immancabile sfoggio di un´intelligenza superba (e a tratti urticante), di uno stile inimitabile e di un gusto mai pago per il paradosso (come quando, a seguito di un serrato ragionamento su Marx, la teoria del plusvalore e il fallimento della rivoluzione sociale nei paesi capitalisti, arriva a concludere che Henry Ford è stato «il solo grande marxista autentico e ortodosso del XX secolo»). Sì, nulla vieta di abbandonarsi a questo piacere. Ma poiché è l´autore a lasciare lungo il suo zigzagante percorso svariate tracce, tanto vale provare a seguirle.
Cominciamo allora dal primo saggio, quello che dà il titolo al libro e su cui Gnoli concentra buona parte del suo intervento: il vero oggetto della serrata disputa tra Kojève e Strauss concerne la natura della tirannide sul finire della storia. Mentre l´ebreo tedesco sostiene che per poterla riconoscere, anche nel suo «silenzio», bisogna tornare a interrogare la scienza politica classica, la saggezza degli antichi, Kojève vede questa strada sbarrata (anzi meglio, superata) dalla logica a specchio di una storia che «non parla più» e di un pensiero filosofico, ad essa connesso, giunto ormai al capolinea («dopo Hegel e dopo Napoleone non si è detto, non si può dire nulla di nuovo»). Il che spiega perfettamente la sua successiva scelta di diventare funzionario dello Stato, ruolo in cui si diverte infinitamente di più - «è una forma superiore di gioco» - di quanto non gli accada intrattenendosi con i filosofi. «I filosofi non mi interessano» - dice a Gilles Lapouge - cerco solo dei saggi, e me ne trovi anche uno solo».
Che dire? Il solito Kojève sarcastico, dissimulatore, paradossale? Certo che sì: il russo andava celebre per questi suoi tratti caratteriali. Però, guarda caso, essi si sposano perfettamente alle conseguenze teoriche sulla fine della storia.
Altri due scritti presenti nel libro ci confortano a proseguire lungo questo itinerario. Il primo è il formidabile "L´imperatore Giuliano e l´arte della scrittura", intesa come esercizio di dissimulazione e camuffamento dei pensieri. L´imperatore chiarisce da subito a Salustio che lui «non scriverà tutto ciò che pensa e non penserà tutto quello che avrà scritto». Non amando affatto le persone che si prendono troppo sul serio, in particolar modo in ambito politico e religioso, l´imperatore intende dimostrare che solo ironizzando e dissimulando si possono liberare - coloro che ne sono capaci - «dai pregiudizi "del teatro" e "del foro", conducendoli così verso la Saggezza (...), quindi a un pieno soddisfacimento di sé».
Fin qui Giuliano; ma a ben vedere sembra lo stesso, identico programma intellettuale fatto proprio da Kojève nel dopoguerra, fino all´anno della sua morte (1968). E si ha la medesima impressione leggendo tra le righe anche il secondo degli scritti in questione: ovvero "I romanzi della saggezza. Raymond Queneau"; dedicato a chi, fra tanti, fu forse l´interlocutore con cui l´esule russo entrò in maggiore sintonia.
Dove sta scritto, si domanda Kojève, che il saggio debba vivere in eremitaggio, abbarbicato alle colonne, subendo martìri? Queneau, che è un vero hegeliano, dimostra al contrario che si può essere saggi nella più assoluta ordinarietà; senza sottoporsi a «trattamenti eroici quanto fastidiosi» e anche «senza un retroterra guerriero e rivoluzionario, ovvero "storico"». I personaggi di Queneau, indifferenti a successi e sventure, vivono coscienti e soddisfatti di sé e al contempo sono alla portata di tutti: «La loro banalità potrebbe certamente deluderci. Ma non sarebbe tanto peggio per noi?». Anche questo è un prodotto della post-storia: il cammino verso «la domenica della vita».
La dissimulazione, il gioco, il paradosso, la ricerca della saggezza al di fuori dei luoghi deputati: ecco ciò che il Kojève del dopoguerra tenacemente persegue - una volta che «il centro non tiene più», per dirla con Yeats. Perciò non si può che condividere in toto le parole con cui Gnoli conclude il suo saggio dedicato all´«Occulto maestro del '900»: «La fine della Storia non era un modo di chiudere i conti col passato per aprire altrove una nuova bottega filosofica; significava alludere all´ultima cosa che l´Occidente cercava di difendere con inutile ostinazione: l´umana e imperturbabile superficialità a cui il Logos e la Storia erano giunti».