Mdm/Rs/Adnkronos 26-APR-04 - 13:19
GENERAL MOTORS: LE VENDITE IN CINA SALGONO DEL 70% NEL PRIMO TRIMESTRE
Roma, 26 apr. - (Adnkronos/Marketwatch) - Il colosso statunitense General Motors, primo produttore di auto al mondo, ha annunciato di aver messo a segno un rialzo di quasi il 70% (69,9%) per le vendite di veicoli in Cina. Come si legge in un comunicato stampa pubblicato sul sito web www.gmchina.com, il gruppo ha venduto 122.097 veicoli nei primi tre mesi del 2004 attraverso le numerose joint venture nel paese. L'ottimo risultato dovrebbe aiutare il colosso di Detroit a strappare fette di mercato ai rivali, specialmente alla tedesca Volkswagen, che attualmente domina il mercato cinese con una quota del 33% a fine 2003.
il manifesto 27.4.04
Viaggio nella Zona economica speciale, cuore del boom economico cinese
La furia domata di Shenzhen
Un modello seguito da tutta la Cina, ormai. Ma Shenzhen resta un luogo straordinario, una frontiera interna dove i tre quarti degli abitanti sono «in transito» e i lavoratori sono tutti giovanissimi, spremuti fino all'osso dalle mille aziende attirate dagli sconti fiscali e poi ributtati nella Cina «vera»
di ANGELA PASCUCCI
SHENZHEN Il suono di un Big Ben si alza a fatica sopra il rumore del traffico, congestionato sin dal primo mattino. Una Tour Eiffel illuminata di rosso, a grandezza quasi naturale, si staglia nella notte insieme a un David di Michelangelo. Eccola qua Shenzhen, dove la nuova Cina all'ennesima potenza si offre con un frullato di immaginario globale che vuol essere accattivante e invece lascia inquieti. Come il «Cafe di Napoli»: dipinti che fanno il verso al Rinascimento italiano, palle e stelle da addobbo di Natale che pendono dal soffitto, musica tirolese, menù dal gazpacho alla pizza margherita, all'apple pie; caffè «come a casa tua» (in italiano). Quale casa? In questa énclave del sud della Cina, scelta a metà degli anni `80 come prima Zona economica speciale e prima sperimentazione di denghismo puro, nessuno dei suoi ormai molti milioni di abitanti (tra i 5 e i 7 a seconda delle statistiche) può dirsi a casa. Perché questa è una città abitata al 95% da immigrati, giunti da ogni parte della Cina: fino a 25 anni fa era solo un piccolo centro di 30mila anime, contadini e pescatori, affacciato sul confine con Hong Kong. Il già allora vecchio Deng puntò qui il dito e decise un esperimento di ingegneria economica e sociale inaudito. L'inizio fu stentato, e nell'89 arrivò Tien Anmen, che parve segnare una battuta d'arresto: invece non fermò niente. Anzi, proprio da quel massacro si capì la determinazione dei leader che lo avevano ordinato ad andare fino in fondo nella strada intrapresa: riforme economiche radicali e apertura alla globalizzazione nascente. Così tutto ripartì di slancio, nel 1992, e il nuovo colpo d'avvio Deng Xiaoping lo sparò proprio da qui, avviando un golden rush da nuova frontiera. Perché questo è Shenzhen, un non-luogo di frontiera, selvaggio East senza storia né identità che proprio per questo coltiva il suo mito di nuova civiltà, «terra dei sogni del futuro».
Provate a parlare con chi ci vive, e ne fa parte integrante, beninteso. Come i cittadini a pieno titolo, poco meno di 1,4 milioni di persone che ottengono la residenza permanente per meriti professionali e politici speciali, per intercessione della compagnia da cui dipendono (che, se paga abbastanza tasse, matura il diritto ad un «pacchetto» di residenze) o perché, se sono dipendenti pubblici, superano un esame che comprende fra l'altro teoria marxista-leninista e materialismo dialettico. E' un drappello di eletti, che accede ai servizi pubblici, sanità, scuola, pagandoli meno dei comuni mortali, detentori solo di un permesso di soggiorno da rinnovare ogni anno. Quanto alla popolazione definita «di passaggio» - un fiume di braccia e menti a prezzi stracciati che arriva e se ne va - ammonta in media a quasi quattro milioni di anime. Ma se si contano i clandestini, numerosi dopo l'allentamento dei controlli alle frontiere che separano Shenzhen dal resto della Cina, si va ben oltre i 5 milioni ufficiali.
La funzionaria del governo municipale di Shenzhen, che accetta di incontrare la giornalista straniera a patto di non farlo nel suo ufficio e restare anonima, anche se non dirà nulla di compromettente, fa parte del primo drappello e si vede. Lavora in un dipartimento cruciale, quello che si occupa di attirare gli investimenti. Quarantenne, stretta nella giacca rosso fiamma che accentua la sua vivacità, racconta la vita di una pioniera che, grazie a buone entrature, è approdata qui fresca di laurea vent'anni fa dal lontano Shaanxi. Il Cafè di Napoli fa da sfondo appropriato al racconto soddisfatto di una vita che, condotta in un luogo concepito per dimostrare all'intera Cina che il nuovo corso era possibile e auspicabile, doveva essa stessa essere un modello. Nessuna nostalgia della provincia natia, dove sarebbe impossibile tornare dopo aver vissuto in una città così straordinaria. La signora adora questa metropoli ambiziosa, esagitata, che vuole battere ogni record, anche se ha una sovranità molto limitata. Ma, si intuisce, già non è più come una volta.
Intanto, non è più così straordinaria. Shenzhen doveva essere il primo sasso gettato nel fiume per attraversarlo, secondo la metafora di Deng, ma ormai tutta la Cina è un unico, enorme ponte di pietre ben più grandi, come la megagalattica Shanghai, che non ha i limiti territoriali di Shenzhen e gode di più favori a Pechino. Così il municipio si arrovella per escogitare nuovi incentivi. Strumento primo restano le tasse, il cui livello, tra esenzioni totali per i primi due anni e tassi ridotti nei successivi, attrae ancora molto, come si evince dalla lunga lista di multinazionali investitrici - tutte quelle che contano tra le 500 di Fortune, soprattutto giapponesi e americane, con scarsa ma qualificata presenza europea. Adesso la parola d'ordine è incoraggiare l'alta tecnologia: elettronica, comunicazione, chips, biotech.
L'obiettivo primario del nuovo piano decennale è attrarre dall'interno e dall'estero 300mila cervelli, tecnici altamente specializzati. Di fatto, arriveranno anche altre ondate di migranti, a calmierare i prezzi della manodopera di base. Per gli operai, la municipalità ha fissato un salario minimo di 600 yuan al mese (poco più di 60 dollari), comunque più alto della media cinese. Perché sono i migliori che si vogliono attirare: «diligente, avventuroso, di mentalità aperta, adattabile a nuovi modi e concetti», è l'identikit del cittadino modello di Shenzhen. La nuova frontiera è già tracciata. La funzionaria, anche per obbligo d'ufficio, sprizza ottimismo. E comunque ha in serbo anche altri orizzonti: suo figlio, 17 anni, sta finendo gli studi superiori in Australia (le scuole australiane vengono in Cina a reclutare nuovi allievi). Ma il sogno del ragazzo, dice, sono gli Stati uniti.
Sono vent'anni che Shenzhen cresce a rotta di collo. Ancora nel `92 c'era un'unica grande strada, la Shennan Lu, costeggiata dai primi grattacieli oltre i quali c'erano solo strade sterrate che finivano in campagna. Oggi intorno a questo cardine originario si è estesa a tempo di record una metropoli immensa che non smette di crescere, anche se presto non avrà più suolo per farlo, visto che dispone di poco più di 2.000 kmq (metà del Molise). L'ombra del limite grava su questa frenesia, aggrappata al sogno di un'eterna transizione, come d'altra parte è oggi tutta la Cina, che nasconde dietro questa parola chiave tutte le storture della sua eccezionale metamorfosi. E chi meglio di una popolazione «in transito» può sostenere una transizione? Anche in questo Shenzhen è un caso unico al mondo. L'età media della sua popolazione è inferiore ai 30 anni. Incontrare per strada un anziano è rarissimo. La mezza età è sporadica, apparentemente invisibile: o è rinchiusa nei posti di comando e nei luoghi della ricchezza o sta nel margine oscuro. Come il gruppo di uomini ben oltre la trentina, che l'aria timida e guardinga segnala come clandestini, che a mezzanotte cominciano a caricarsi pesanti ceste piene di malta sulla schiena per portarle dentro un edificio in ristrutturazione. Ma chi riempie i marciapiedi, i negozi, i locali, in un colpo d'occhio irreale, è una folla immensa di poco più che adolescenti, ingoiati ed espulsi con rapidità dalla «fabbrica del mondo» che ha bisogno in continuazione di sangue e mani giovanissime per continuare a pieno ritmo, per essere sempre più competitiva.
La fabbrica qui è ovunque. Al sesto piano di un edificio in un intrico di strade che costeggia una delle grande arterie c'è la Shenzhen Jingyi Electronic Co. Ltd che produce circuiti integrati. Qui 180 operai (80% donne) si avvicendano in due turni. Volti impenetrabili quasi di bambini, diversi l'uno dall'altro perché le provenienze sono diverse, lavorano chini sui banconi, in lunghe file, e montano gli elementi dei circuiti. Giovani mani armate di lunghe pinze incollano rapide e precise componenti minuscole sui wafer che saranno il cuore elettronico di tutti i nuovi oggetti della nostra vita, dai telefonini ai lettori cd. Fa da sfondo sonoro il tonfo delle presse che stampano i circuiti, 24 ore su 24. Il calcolo sul carico di lavoro degli addetti è presto fatto, anche se il proprietario, signor Jin, 48 anni, parla di otto ore al giorno. Decine di tazze da tè, una diversa dall'altra, in fila su un ripiano parlano ancora di vecchia Cina; e per la verità anche i bagni, già fatiscenti anche se l'edificio non è vecchio. Il salario è di 1.000 yuan (100 dollari più o meno): ma comprende l'assicurazione sanitaria, 300 yuan, e un contributo per il dormitorio. Un letto in cui dormire è parte integrante di questo sistema di produzione basato sui migranti, e tutte le fabbriche ne dispongono. Quando si lascia il lavoro, si perde tutto. Licenziare non è difficile; ma c'è anche chi decide di andarsene di propria volontà, visto che il mercato del lavoro è sempre in movimento. In questo quadro di mobilità spinta, la domanda sulle coperture per la gravidanza, vista l'alta percentuale femminile, viene recepita come un non senso. Nessuna operaia arriva alla gravidanza, risponde il proprietario. Sono tutte troppo giovani, e se ne vanno in fretta: il turn over medio è del 10% al mese.
(1-continua)
il manifesto 27.4.04
TORO SCATENATO
Il vero simbolo di Shenzhen non sono i cartelloni e le statue del «fondatore» Deng, innalzati ai crocevia o nei parchi, ma la scultura di un toro in posizione d'attacco collocato davanti all'attuale sede del municipio, peraltro in via di trasloco verso un edificio più grandioso. E forza e furia non sono mancate alla Zona economica speciale, che nei primi vent'anni, in termini di sviluppo economico, è cresciuta al passo del 32% l'anno. Nel 2003, l'aumento del Pil è stato del 17,3% (quando la Cina nel suo complesso ha vagato intorno all'8%). Sempre nel 2003, questa énclave grande quanto metà del Molise si è piazzata al quarto posto tra le città cinesi per Pil realizzato (poco più di 28 miliardi di dollari) e al terzo come percettrice di investimenti esteri (intorno ai 6 miliardi di dollari), ma al primo posto quanto a valore delle merci esportate (circa 62 miliardi di dollari). Tanto che il suo porto per movimentazione è il quarto nel mondo. Il Pil medio pro capite è di 5.558 dollari. Ma il capolinea pare avvicinarsi. Il suolo utile per lo sviluppo si sta esaurendo: restano poco più di 200 kmq in periferia, e 30 in centro. Con la crescita a dismisura, aumentano i problemi sociali, molto legati alla spropositata percentuale della popolazione fluttuante, circa 4 milioni di persone, più molti «illegali». Lo scorso anno i crimini sono aumentati del 57%, i rapimenti del 75%. I tassisti guidano chiusi dentro gabbie di ferro, le finestre delle abitazioni sono chiuse da sbarre, dal primo all'ultimo piano. La corruzione è endemica anche se ufficialmente negata. Ha fatto scalpore questo mese la proposta di dare ai funzionari pubblici «onesti» una liquidazione da due milioni di yuan (oltre 200mila dollari) come premio a una carriera pulita . Essere «speciali» costa caro.
il manifesto 27.4.04
TERRATERRA
Sviluppo insostenibile sul Mekong
di MARINA FORTI
Sembra un compendio dello «sviluppo in-sostenibile». L'elenco comincia con decine di grandi dighe, continua con il progetto di far saltare una serie di rapide con la dinamite per rendere navigabile il fiume, finisce con la scomparsa delle foreste... Il fiume in questione è il Mekong, che nel suo corso tra l'altopiano del Tibet e il Mar Cinese meridionale tocca sei paesi e forma un bacino abitato da 250 milioni di persone. E il «compendio» del suo degrado è nell'Atlante dell'ambiente della sub-regione del grande Mekong, appena pubblicato dal Programma per l'ambiente delle Nazioni unite (Unep) insieme alla Banca asiatica di sviluppo (gli organismi internazionali vanno pazzi per definizioni come «sub-regione»: nel caso del Mekong è in voga dalla metà degli anni `90, quando Banca Mondiale e Banca Asiatica di Sviluppo hanno cominciato a lanciare grandi progetti di infrastrutture e di sviluppo tra i paesi rivieraschi). Il Greater Mekong Subregion Atlas of Environment raccoglie per la prima volta informazioni sulle risorse naturali e lo stato dell'ambiente lungo tutto il fiume, e in questo senso è un primo esperimento di cooperazione regionale. Dice che il degrado ambientale è il problema più pressante a cui debbano confrontarsi i paesi rivieraschi. L'elenco dunque comincia dalle dighe: ce ne sono decine in cantiere, sul Mekong stesso e sui suoi affluenti. La prima a buttarsi sui grandi progetti idroelettrici è stata la Cina, fin dai primi anni `80, nella più grande discrezione. Nello Yunnan il Mekong scorre tra grandi gole con dislivelli notevoli, si presta bene: così la prima diga è stata ultimata nel `96, la seconda nel 2003, la terza è in cantiere e altre cinque sono in fase di progettazione - le autorità cinesi la chiamano «cascata di dighe». Tutto questo ha provocato apprensione a valle, perché così la Cina potrà controllare in larga misura la portata d'acqua del fiume. Del resto anche il Laos ha costruito le sue dighe su due importanti affluenti, che contribuiscono per circa un terzo dell'acqua che scorre verso la Cambogia e il delta.
Soprattutto, l'Atlante guarda le proiezioni demografiche nella regione, e si allarma. Nel 2015 si attende che la popolazione del Mekong sarà salita a 290 milioni, e questo basta di per sé ad aumentare la pressione sulle risorse naturali. Oggi la maggioranza della popolazione nel bacino del Mekong è rurale (il 70% nella parte bassa, dal Laos e Thailandia a Cambogia e Vietnam), e l'agricoltura è praticata sul 21 percento della terra. Con l'aumento della popolazione e (si spera) del livello di benessere di paesi poverissimi come il Laos e la Cambogia, è ovvio che aumenterà la domanda di cibo. La Thailandia, il paese più sviluppato della regione, potrebbe raddoppiare la sua domanda di materie prime nei prossimi 25 anni. Allo stesso tempo è da attendersi una forte emigrazione verso i centri urbani. I fenomeni di inquinamento urbano e industriale, per ora localizzati, potrebbero diventare gravi.
Non solo: la necessità di produrre più cibo spingerà a prosciugare molte zone umide e acquitrinose attorno al fiume per coltivarle, e a colonizzare le foreste per guadagnare altra terra da arare. Aumenteranno problemi già visibili, dall'erosione di pendici montagnose denudate alla salinizzazione. Il bacino del Mekong, in particolare dal Laos a valle, vive di un ciclo stagionale unico: il fiume si gonfia nella stagione delle piogge e straripa, allagando le pianure su cui lascerà un buonissimo limo. Nonostante l'alluvione il fiume si gonfia a tal punto, la corrente è così impetuosa, che l'acqua comincia a risalire lungo alcuni affluenti: è il caso del Tonle Sap, che inverte la sua corrente e risale fino al lago omonimo. Poi le acque si ritirano, il Tonle Sap si svuota, la corrente torna a scorrere verso valle. I pesci che avevano risalito la corrente appena nati tornano a valle cresciuti: è la stagione migliore per la pesca. E il pesce è la principale se non unica fonte di proteine nella regione, soprattutto per la popolazione rurale - e l'industria peschiera interna, poco contabilizata, è la base della sopravvivenza dell'Indocina intera. Tutto questo è minacciato.