sabato 17 aprile 2004

donne nella storia:
la zarina Caterina la Grande (1720-1796)

La Stampa 17.4.04
Una biografia della vedova di Pietro III: seppe tenere in pugno e modernizzare l’immenso e composito Paese che si trovò a governare, senza esitare a usare la repressione, anche se diceva di non voler versare «sangue inutile». «Disperdere le canaglie» fu la sua risposta alla Rivoluzione francese
VOLEVA A OGNI COSTO EDUCARE L’UOMO NUOVO, COSTRUIRE UNA NUOVA CLASSE MEDIA, EDIFICARE GRANDI OPERE
di Alessandro Barbero


NEL sistema dinastico dell'Ancien régime capitava spesso che un principe fosse sbalzato sul trono d'un paese straniero, di cui non parlava neanche la lingua. I risultati erano talvolta surreali, come nel caso del principe di Holstein-Gottorp, che nel 1761 divenne zar di Russia col nome di Pietro III: prima che sua zia, la zarina Elisabetta, lo designasse come erede, Pietro era stato allevato per succedere al trono di Svezia, e poiché questo paese era storicamente il maggior nemico della Russia, i suoi insegnanti gli avevano inculcato un odio implacabile verso tutto ciò che era russo. Non stupisce che lo zar Pietro III sia durato pochissimo: dopo appena sei mesi, l'esercito lo spodestò e un provvidenziale incidente lo tolse di mezzo, mentre i soldati e il popolo acclamavano imperatrice sua moglie Caterina. Nata principessa di Anhalt-Zerbst, la zarina era tedesca quanto il marito; diversamente da lui, però, aveva preso molto sul serio il suo nuovo ruolo. Entrambi avevano dovuto convertirsi al cristianesimo ortodosso, perché nessun eretico può salire sul trono di Russia; ma mentre Pietro III godeva a ostentare un disprezzo luterano per le cerimonie ortodosse, Caterina ebbe sempre eccellenti rapporti con il clero russo, cosa che contribuì non poco alla sua popolarità. Ma era un'europea del suo tempo e la religione non era certo la sua preoccupazione principale: quello che le premeva era tenere in pugno, e se possibile modernizzare, lo strano paese che s'era trovata a governare. L'immenso impero che si stendeva su due continenti era allora meno popolato della Francia, con appena ventitré milioni di abitanti, compresa una moltitudine turbolenta di tribù seminomadi, di lingua turca e di religione islamica; i governi occidentali stentavano a riconoscerlo come una grande potenza, e in ogni caso non lo consideravano affatto un paese europeo.
I guai maggiori per Caterina vennero dall'arretratezza delle campagne, ferme da sempre a un livello di vita primitivo, e schiacciate sotto lo sfruttamento dei proprietari terrieri. Fra i contadini la nostalgia della libertà perduta animava confuse speranze millenaristiche e sogni di comunismo, l'attesa di una "grande spartizione" per cui un giorno lo zar avrebbe ordinato di consegnare la terra a chi la lavorava. Nelle province più sperdute, l'utopia contadina si fondeva con l'insofferenza degli allogeni, con la rabbia delle minoranze religiose perseguitate, con lo smarrimento d'un popolo avvezzo a venerare lo zar come un Dio in terra e che da troppo tempo riceveva dalla capitale notizie confuse di zar deposti, detronizzati, fatti sparire. Nel 1772, il cosacco Pugaciov si mise alla testa d'una banda di ribelli sostenendo d'essere lo zar Pietro III, ritornato fra il suo popolo per vendicarsi dell'usurpatrice Caterina; per quasi due anni l'incendio da lui suscitato divampò in gran parte dell'impero, prima che una sanguinosa repressione militare mettesse fine all'avventura. Per governare un paese del genere occorrevano metodi che nell'Occidente illuminato non sarebbero stati apprezzati, e Caterina non esitò a usarli. Al rullo del tamburo, nelle piazze delle città, i banditori leggevano il "proclama del silenzio", che proibiva ai sudditi di criticare il governo e in genere di perdere tempo a parlare di politica. Non versò mai sangue inutilmente, ma quando giudicava che ce ne fosse bisogno non si tirava indietro; da Parigi i suoi amici filosofi, con cui intratteneva una fitta corrispondenza, ammettevano che non si poteva fare diversamente ("Tuttavia, è un po' spiacevole essere costretti a disfarsi di tante persone", commentò d'Alembert). Alle speranze dei contadini oppose un drastico rifiuto: per quanto illuminista, aborriva il radicalismo, e dichiarò seccamente che la ricchezza non deve essere distribuita in parti uguali "come il pane nel refettorio dei frati". Alla notizia della Rivoluzione francese, coerentemente, affermò che l'unica cosa da fare era "disperdere le canaglie", e si stupì che Luigi XVI non avesse il fegato per farlo. Questo non significa che Caterina non abbia tentato di modernizzare l'impero, con decisione e spregiudicatezza. Hélène Carrère d'Encausse è stata una grande storica e sociologa dell'Unione Sovietica, e analizzando i metodi di governo di Caterina è inevitabile che si interessi ai paralleli con lo stalinismo: uno dei capitoli si intitola "Educare l'uomo nuovo?". Il paragone può sembrare forzato, ma certe analogie si impongono da sé; come per il progetto di costruire una nuova classe media utilizzando gli innumerevoli trovatelli allevati negli orfanotrofi, gente senza famiglia e senza legami che avrebbe dovuto unicamente allo Stato la sua prosperità. L'analogia è ancora più vistosa per i colossali lavori avviati dal favorito di Caterina, Potemkin: città, strade, fabbriche sorte dal nulla in poco tempo in regioni spopolate. Un luogo comune ("i villaggi alla Potemkin") le considera come operazioni puramente di facciata, ma il giudizio più pertinente, e che fa più rabbrividire, è quello d'un contemporaneo: "Sembra tutto facile quando si sprecano vite umane". Non stupisce che Carrère d'Encausse, dopo una vita passata insieme al fantasma del compagno Stalin, abbia avuto voglia di misurarsi con quello di Sofia di Anhalt-Zerbst, in arte Caterina la Grande.