La Stampa Tuttolibri 17.4.04
Zweig, l’amore non lascia scampo
di Bruno Ventavoli
FACILE dire amore. Ma il legame tra un uomo e una donna può essere assai più lancinante del semplice erotismo. Lo sapeva bene Stefan Zweig, raffinato analista del sovvertimento dei sensi, nato mentre la Vienna imperiale volgeva al tramonto. Nella bellissima "Novella degli scacchi" racconta la follia d'un gioco razionale e violento. Con "Amok", che torna ora da Adelphi, trascina il lettore nel gorgo d'una passione anomala sbocciata e sbandata nell'umidità soffocante dei tropici. Il protagonista è un medico, con una brillante carriera fallita alle spalle e nessuna speranza di futuro. Era dottore all'ospedale di Lipsia ma, soggiogato da una donna, ha buttato all'aria la rispettabilità e ha accolto l'ingaggio del governo olandese per trasferirsi nelle colonie. Il medico non ha nome. Così come non ha nome la località dove vive. Perché Zweig, amato divulgatore della psicoanalisi in letteratura, non è interessato alle coordinate della realtà bensì ai penetrali dell'animo. Laggiù, dove il clima divora l’anima e condanna a vischiose solitudini, il protagonista si trova al cospetto di una donna occidentale, con gli occhi limpidi e la fronte altezzosa. Lei è incinta d'un uomo che non è suo marito. Lui potrebbe risolverle il problema. Lei sfodera la richiesta d'aiuto come un coltello. Lui si sente umiliato e affascinato, scivola in un delirio che travolge i confini del bene e del male, e l’identità stessa delle sensazioni. Ma sarebbe indelicato rivelare i dettagli di questa novella che si legge d'un fiato come un incubo. Amok uscì nel 1922, sulla Neue Freie Presse, ed è stato portato parecchie volte sullo schermo. Stefan Zweig, figlio d'una ricca famiglia ebrea, era un quarantenne scrittore brillante, prediletto dalle masse. Ma si sentiva sempre più orfano della duplice monarchia dissolta dalla guerra. E vedeva esplodere la virulenza di follie collettive finora sedate nel fondo dell'inconscio. Pochi lo difesero quando l'antisemitismo divenne legalità. Uno dei rari, fu Richard Strass che rifiutò di depennare il suo nome, librettista dell'opera La donna silenziosa, nel 1934 alla prima di Dresda, giocandosi la presenza in sala di Adolf Hitler. Zweig, sempre più reduce del «mondo di ieri», fu spinto dalla follia istituzionalizzata ad emigrare, a perdere sicurezze, a dubitare della propria identità. Visse in Inghilterra e America, pubblicò sotto lo pseudonimo Branch (traduzione inglese di Zweig), quando ogni nome tedesco suscitava sospetti e rancori. E si suicidò con la moglie nel 1941 in Brasile, pensando fosse meglio concludere con un'orgogliosa resa una vita fondata sulla libertà. L'«amok» è un raptus che costringe uomini normali a correre come forsennati uccidendo a casaccio, eccitati dal sangue, schiumanti di rabbia, finché non vengono abbattuti o non si suicidano. Il termine è malese. E malese è quel delirio studiato nell’800, traghettato nelle lingue europee come metafora comune per indicare comportamenti da invasati. Chissà se quella patologia inquietante è davvero esistita, o se è solo frutto di pregiudizi medici razzisti? Esiste, invece, sicuramente, l'amok che coglie ognuno di noi quando il destino ci fa tamponare dall'amore, dalla passione. Non ricordi più com'è accaduto. Capita solo che ti lasci la vita alle spalle e, come il medico della novella o i malesi impazziti, ti getti alla cieca nel furore. E’ difficile trovare scampo. Zweig lo sapeva, e non offre scappatoie al suo personaggio. Lo sappiamo anche noi, disarmati di fronte alla tirannia del cuore. L'amok travolge la vita. Ma una vita senza amok, forse, è troppo banale per essere vissuta.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»