sabato 17 aprile 2004

libri:
un romanzo sulla resistenza dell'identità

La Stampa Tuttolibri 17.4.04
Manea, l’io resiste
«Il ritorno dell’huligano»: grandissima prova narrativa e di scrittura dell’intellettuale romeno, gli orrori dei totalitarismi, dal ghetto all’esilio un percorso che si confronta con il ‘900 di Kafka, Joyce, Proust
di Dario Voltolini


MESCOLANZA di generi, stili e materiali diversi, in particolare di autobiografia e romanzo dell'io, questo importante scavo nella memoria dell'Europa è una grandissima prova narrativa e di scrittura. Norman Manea, lo scrittore romeno da tempo residente a New York, con Il ritorno dell'huligano si conferma autore di primaria importanza nel panorama contemporaneo. Il centro di questo romanzo è una meditazione sull'identità individuale e collettiva nel secolo europeo degli orrori totalitari e bellici. Manea nasce in Bucovina nel 1936, regione esemplare del caos geopolitico del nostro Est: all'inizio della grande guerra era austro-ungarica, nel 1916 fu conquistata dallo zar, poi ripresa dall'esercito austrotedesco, romena dal 1919, sovietica nel 1940, di nuovo romena un anno dopo, sovietica dal 1944, ucraina dopo l'implosione dell'URSS nel 1991. La famiglia di Manea, ebrea, fu deportata in un lager nazista quando il futuro scrittore aveva cinque anni. La storia degli ebrei dell'Est si mescola al delirio dei nazionalismi che caratterizzano quell'area dell'Europa, facendone un modello di follia con caratteristiche parzialmente diverse da quelle che abbiamo conosciuto noi, al Sud e all'Ovest del continente. Il passaggio dal totalitarismo nazista a quello comunista e infine al salto nel buio postcomunista, chiamato capitalista solo in onore dell'ideologia rimanente, ma che meglio sarebbe dire di transizione mafiosa, è stato per il narratore un continuo sfaldarsi e ricomporsi dell'identità. Dal ghetto, dal paesello, alla capitale e infine alla decisione, più volte rimandata, rimossa, non presa, inibita, dell'espatrio, dell'esilio, il percorso di Manea si fa ricerca interiore e culturale, confrontandosi a un livello letterario pienamente consapevole di sé con il ‘900 di Kafka, di Joyce, di Proust. La ricomposizione del racconto qui mette in primo piano l'andamento della memoria rispetto alla cronologia. L'attacco è una magnifica apertura su New York al tempo presente, rifugio dal quale l'autore decide di muovere verso un doloroso e temuto breve viaggio in Romania, la sua patria negata. Il corpo centrale del libro è invece dedicato al tempo vissuto in Romania dall'infanzia alla partenza, e la parte finale al diario dei pochi giorni della visita (con uno strano effetto di sfasamento della precisione: più il tempo è il presente, meno vivide e più ansiose sono le descrizioni). I punti di forza del testo sono molti. Lasciando da parte le considerazioni di ordine compositivo, un semplice campionario di ritratti e di momenti può bastare a indicare quanta ricchezza Il ritorno dell'huligano contenga. La figura della madre è stupenda. Si aggiunge alla galleria di madri ebraiche che innerva la migliore letteratura mondiale. Impulsiva, vitale, carica di un'energia dalle misteriose mutevolezze di segno, è colei che non cede alle prime bordate della storia. Resiste, spera, induce robustezza. È la madre originaria, la placenta metafisica, il gancio che tiene il figlio legato all'universo del ghetto, è la madre-dio, si presenta oniricamente come in uno Chagall disegnata nel cielo, col suo volto invecchiato, col suo sguardo accecato, restando contemporaneamente la ragazza bella che era. Il figlio avrà con lei un momento di pace quasi estratto al corso del tempo, un pomeriggio in treno, una vera e propria oasi narrativa e esistenziale. Una delle pagine più belle dell'intero libro. Ma stupenda è anche la figura del padre, dell'uomo che moltiplica la propria consapevole umiltà fino a farla diventare dignità assoluta, composta, interiorizzata, riflessa in ogni gesto, in ogni atteggiamento, in ogni scelta, così pervasiva e autocosciente da fargli cadere addosso i vestiti in un certo modo. Quest'uomo, umiliato nel campo di lavoro comunista, è un ritratto che non può non turbare profondamente il lettore, toccando zone più profonde della semplice pietà umana, o della solidarietà politica, o dell'assurdità della nostra natura. Si resta senza parole. Anche il passaggio in cui l'autore ridipinge l'attimo in cui la vocazione allo scrivere gli si fece evidente e limpida è una grande, magnifica pagina: «Nella società della Menzogna Istituzionalizzata l'io resisteva solo nelle enclaves che proteggevano, sia pure imperfettamente, l'intimità». In conclusione, come omaggio all'umorismo ebraico che non teme di esplicitarsi in nessuna situazione, preleverei dal testo questa storiella: «Ai tempi di Hitler, un ebreo che corre, tutto agitato, per strada, viene fermato da un altro ebreo, il quale gli chiede che cosa sia accaduto. Non hai sentito? Hitler ha appena ordinato di tagliare un testicolo a tutti gli ebrei che ne hanno tre, risponde quel tale. Ma tu ne hai tre? insiste il primo. Prima tagliano e poi contano, esclama l'uomo allontanandosi di corsa»