Corriere della Sera 16.4.04
ANTEPRIMA Vent’anni dopo «Bach», Piero Buscaroli rilegge ora la vita e le opere del grande musicista tedesco. Con l’intenzione di correggere «due secoli di falsi»
Povero Beethoven, genio tradito dai critici
di PIERO BUSCAROLI
Anticipiamo un brano tratto dal libro «Beethoven» di Piero Buscaroli (Rizzoli, pagine 1.359, € 45) che sarà in libreria da mercoledì 21 aprile.
Tutt’altro che la festa del 1927, il doppio centenario della nascita correva melenso nel 1970 tra le sfilate dei concerti interrotte dalle scariche d’insulti sparate dalla nuova cultura germanica. Solo contributo di qualche peso rimase De Last Decade, 1817-1827 , di Martin Cooper. Nella recensione del «New York Times» un tale Donald Henahan paragonò l’opera di Beethoven nel suo insieme a un logoro repertorio di devozioni: «neppure gli ultimi lavori trascendentali, le Sonate per pianoforte, i Quartetti, la Missa Solemnis, appaiono più quel supremo fortilizio ch’erano stati per pochi adepti della metafisica musicale. Grazie all’implacabile girare del fonografo e alla radio sua vorace alleata, Beethoven è sbattuto nelle nostre orecchie notte e giorno, la musica che avevamo creduto inesauribile ci appare logora come un vecchio talismano. Grattati via i significati emotivi, le esecuzioni degli specialisti ci piovono addosso condite da salse d’analisi e sentenze, registrate o al vivo, dei chiosatori dei programmi e dei filosofi d’incisione. Un giro dopo l’altro, Beethoven si avvita nella sua tomba a 33 rivoluzioni e 1/3 al minuto. Sempre più difficile è udire le ultime opere, solo un esperto viaggiatore negli stili musicali può immaginarle quali suonarono ai contemporanei. Il Beethoven extramusicale sta morendo. Prima che passi molto tempo, resterà di lui solo la musica. Accade a lui quel che già è accaduto a Monteverdi e Orlando di Lasso. Tutto ciò, naturalmente, può non essere un male...».
Il libro che presento nacque quale malinconico dovere d’una battaglia di retroguardia: del gigante dovevano restare album, cassette, odiosi cumuli di compact. E invece, nei vent’anni che seguirono quel misero centenario, si scatenò imprevisto un paradosso a tal punto immane, che la sua enormità non è ancor ben misurata da quanto avanza della cultura europea. Bastò che un Solgenitsin abbassasse il piccone, e si produsse il crollo, per esaurimento e putrefazione, dell’intera cultura entro cui l’immagine di Beethoven era cresciuta deviata, falsificata. Tutta l’Europa delle idee e delle arti diventava un solo cantiere del revisionismo.
Nella storia delle biografie («Vi è solo biografia!» ammonì Nietzsche) cominciai con Sebastian Bach. E intanto Beethoven figlio della Révolution mutava i connotati, via via che la Révolution finiva nelle pattumiere. Per cominciare la galleria dei falsi: Beethoven non fu mai illuminista; non fu mai giacobino; non fu mai amico dei francesi, cui portò, da quando li vide invasori della Germania, forsennato odio.
Il rifiuto che preparavo contro la sentenzina americana e globalista sulla fine del Beethoven extramusicale divenne la non sperata occasione di restituire il gigante alla sua verità, all’autentica immagine, da due secoli lordata e confusa. Quando mi parve d’aver consolidato d’una muraglia di ristampe la nuova immagine di Bach, intrapresi la revisione di Beethoven quasi dovere naturale. Come aggredissi falsificazioni e sciatterie, il lettore trova fin dai primi passi di questo libro . Maturato e cresciuto lungo un trentennio nel tanfo agonico, epigonale dell’ultima squallida critica, americana e europea, unisce il primitivo proposito, salvare Beethoven dalla nuvola letale dello spirito dell’epoca, con la radiosa opportunità di rivedere, ossia correggere, ossia cancellare due secoli di falsi.
Dopo il Bach del 1985 e La morte di Mozart del 1996, schiero questo libro come terzo e maggiore sforzo nella revisione storica della musica condotta attraverso le biografie. Quanto tempo ancora la scombinata musicologia ufficiale potrà fingere che non esistano, non so e non m’interessa. Sanno i lettori.
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Che l’invocata, e poi proclamata, scomparsa delle biografie totali produca l’avvento del primo Beethoven veritiero, è uno degli arciparadossi fabbricati dal destino burlone per premiare i solitari che, nell’urto vertiginoso di passati irrisolti e futuri impenetrabili, spiegano indomite vele contro venti e tempeste. Senz’averlo voluto, mi son trovato a scrivere un’altra «nuova immagine», cui auguro ugual favore del Bach che continua a ristamparsi dopo diciannove anni. Se alla «nuova immagine» di Bach toccano ancora distinzioni come quella che mi regalò il «Treffpunkt Kultur» della televisione austriaca che, or sono tre anni, intimò alla bravissima Pia de Simony di ridurre, in un documentario registrato a Bologna nel mio studio, il ruolo concesso a quel Buscaroli inviso ai bonzi luterani della Gesellschaft lipsiense , il lettore può immaginare qual furore prenderà retori e chiacchieroni nell’apprendere che l’autore aveva battezzato Sinfonie allemande quella che per noi è la Nona Sinfonia , ed era una risposta di tedesco al Congresso che lasciava intatta la Francia, rovina della civiltà d’Europa, e divisa la Germania che aveva vinto il distruttore.
Il giorno che nei Quaderni di conversazione, la cui edizione è completa dal 2001, lessi che il 25 Gennaio 1824, a Caroline Unger che gli chiedeva quando si sarebbe eseguita la Nona Sinfonia, di cui doveva cantare la parte del contralto, Beethoven parlò di Anfechtungen , opposizioni, e la ragazza insorse sdegnata gridando «Opposizioni? Ma chi si permette?» (v. pagg. 1.169 segg), collegai il contrasto, ai biografi ignoto, alla Sinfonie allemande . Compresi che solo la lettura critica, nell’ingrato originale tedesco, dell’ignota fonte diventata primaria, una lettura diplomatica e perfin paleografica, avrebbe permesso di riscrivere questa vita in un definitivo gesto revisionista. Le preziose novità rimaste occulte nei Quaderni diventavano secondarie rispetto all’imponente evidenza che il contrasto nasceva da quell’ allemande , sopravvissuto solo per la tenacia di Gustav Nottebohm. Il lettore riporterà facilmente a galla la rete sommersa e potrà misurare perché la «nuova immagine» sia riuscita con Beethoven tanto più faticosa che con Bach. E per la sua posizione, nonostante ogni apparenza, centrale nella società di corte; e per il ruolo, enormemente cresciuto, della storia universale nelle storie personali. E per il trono dominante che nel frattempo la musica aveva occupato sull’assemblea delle «arti sorelle».
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«La politica è il destino dei moderni», scrisse Napoleone. Se ne è accorto questo autore quando ha intrapreso la riscrittura politica del giovane Beethoven scoprendo che era tutto cancellato e calpestato in una infame devastazione: il patriota tedesco ridotto a balbettante insignificanza, i canti guerrieri scritti per i volontari, cancellati oppure omessi dagli elenchi, nascosti dalle biblioteche che li possedevano. Ha dovuto contendere a unghiate la figura del giovane alla turba giacobina che l’aveva imprigionato; restituire peso e coerenza al costante fierissimo sentimento anti-francese, ridotto a bizzarria d’incostante ingrato. Nessuno aveva voluto misurare quanto fosse concreto e sensato, seppur ristretto ormai a un’esile striscia, il margine di indipendenza che restava tra la bestiale violenza rivoluzionaria diventata invasione, e la nauseante grettezza delle monarchie che, costrette ad allearsi nonostante si odiassero tra loro, le si opposero con meritati disastri.
Lasciando a parte i soliti Goethe e Schiller, che a nulla servono su questo terreno, ho radunato i Seume e Louis Ferdinand, il giovanissimo Körner e Varnhagen von Ense, trattati con badiale fastidio dai biografi mestieranti, per far compagnia a Beethoven in quell’itinerario di speranze assassinate, sentimenti traditi e catastrofi spirituali che prelude allo sdegnato isolamento dell’ultimo decennio. Nessuno degli storici di Beethoven aveva tentato di interpretare con amore e onestà quel tumulto di fresca ingenuissima gioia, che nel lurido nido di vermi dell’infame Congresso, modello mai superato della pace con frode, pochi mesi bastarono a trasformare in delusione, tradimento e pianto. La Germania, le cui forze, quando si unirono, vinsero finalmente il tiranno, si trovò restituita alla confusione e divisione che l’avevano lacerata, dai «trattati» di Münster e Osnabrück in poi. I suoi principi si univano sol per tenerla divisa e, con la complicità d’inglesi e perfino americani, più impotente e sola che la sconfitta Francia. Se un giorno del 1824, a Baden dov’era entrato in un caffè in compagnia di Carl Czerny, gli bastò leggere in un giornale che Walter Scott scriveva una Vita di Napoleone per gridare: «Napoleone! Non lo potevo soffrire, ma ora la penso tutto diverso!», non era lo scatto di bizza incoerente che ripetono certi biografi senza onore e senza sapere, ma il tratto finale di un’ira e di uno sdegno: l’ultimo distacco da quella monarchia infame che tre anni dopo lo ricompenserà disertando i suoi funerali. Senza che nessuno, tra imperatori arciduchi e ministri, immaginasse di lasciarlo a capo di una folla, quale mai s’era vista per la dipartita d’uno di loro: venti o trentamila, quanti in quella Vienna torpida e avvilita si sentivano ancora «i rappresentanti del popolo tedesco», come li chiamò Franz Grillparzer nel suo discorso.
Devi aggiungere, infine, il mutato ruolo reciproco, la rifondata gerarchia delle diverse arti e l’assunzione della musica, proprio per l’opera e la figura di Beethoven, a quel vertice dominante cui, secondo Walter Pater, le altre arti furono costrette da allora a guardare con invidia. Su questo cammino, l’ascesa del mio nuovo restaurato Beethoven sarà ancora più aspra. Dovrà vedersela con una musicografia senile e suicida. Ai divieti innalzati dai Dahlhaus si mescolano ora le lodi e invocazioni al grottesco tentativo abortito di Adorno, di salvare dalla morte, che per tutte e due era fatale, musica e filosofia, con una unione e fusione: puerile, più che innaturale. Da compiersi, infine, nel nome di Beethoven, per cui nulla significava la filosofia, la meno artistica, la meno attraente tra le occupazioni possibili.
Ma non voglio trasformare questa Notizia nell’indispensabile antefatto personale, che il lettore troverà nei primi due capitoli. Sua funzione è introdurre argomenti pratici, cominciando con le avversità cui la mia restituzione di Beethoven dovrà confrontarsi. Delle quali la più minacciosa, come al solito, è quell’abitudine, contesta di paura e pigrizia, che si trova comodo chiamare tradizione. È il rifiuto di abbandonare i cementi calcinati e le tavole marcite della Maginot del falso, in cui continuano a rotolarsi gl’intendenti e i cosiddetti interpreti. Quei tali di cui dicevo dianzi, che ancora non avendo misurato e assimilato la potenza dell’anticiclone che si scatenò una ventina d’anni fa, ancora non hanno capito ch’è tempo di spedire in soffitta il mascherone per richiamare Beethoven all’autenticità che mai poté rivelare: nella sua «unica Opera», per cominciare proprio col suo manifesto ideale, politico, sentimentale.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»