venerdì 16 aprile 2004

le scelte culturali di Repubblica
Oliver Sacks e il valore terapeutico della botanica...

Repubblica 16.4.04
IN MESSICO PER AMORE DELLE FELCI

Anticipiamo alcune pagine da "Diario di Oaxaca" del celebre neurologo
Un aspetto poco noto dello scienziato che ha il talento di un vero scrittore
La civiltà precolombiana distrutta dai conquistadores
Lo straordinario sistema di comunicazione degli Aztechi
Una riunione di appassionati che somigliava a quelle del secolo scorso
Esce oggi "Diario di Oaxaca" di (Feltrinelli/Traveller pagg. 141, euro 12,00) di cui anticipiamo alcuni brani
di OLIVER SACKS


Sono cresciuto negli anni Trenta a Londra, in una casa con un giardino pieno di felci. Mia madre le preferiva alle piante da fiore, e anche se avevamo rose rampicanti, gran parte delle aiuole era stata adibita alla coltivazione delle felci. Avevamo anche una veranda, sempre calda e umida, dove pendeva un´enorme felce barbuta (Polystichum plyblepharum) e dove prosperavano felci sottili e delicate o anche felci tropicali. La domenica, talvolta, mia madre, o una delle sue sorelle, anch´esse appassionate di botanica, mi portavano a Kew Gardens, e fu lì che vidi per la prima volta felci torreggianti, alte dai cinque ai dieci metri, avvolte da fronde, e riproduzioni delle forre hawaiiane o australiane. All´epoca quei posti mi sembravano i più belli che avessi mai visto.
Mia madre e le sue sorelle avevano ereditato l´amore per le felci dal padre, mio nonno, che era arrivato a Londra dalla Russia verso la metà dell´Ottocento, quando in Inghilterra impazzava ancora la pteridomania, la grande mania per le felci dell´epoca vittoriana. Moltissime case, compresa la loro, disponevano di terrari (Wardian cases) pieni delle più svariate specie di felci, talvolta rarissime. Questa moda era già passata intorno al 1870 (anche perché aveva portato all´estinzione di diverse specie), ma mio nonno aveva tenuto i suoi Wardian cases fino alla morte, avvenuta nel 1912.
Le felci mi affascinavano per la loro forma a spirale e per le loro caratteristiche vittoriane (che le facevano somigliare ai coprispalliera di trine e alle tende di merletti della nostra casa). Ma, ancora di più, mi intrigavano per la loro origine antica. Mia madre mi raccontava che il carbone che usavamo per riscaldare la casa era composto prevalentemente di felci compresse o altre piante primitive, e talvolta, rompendone un pezzo, si intravedevano le forme del fossile. Le felci erano sopravvissute, senza subire grandi cambiamenti, per oltre trecento milioni di anni. Altre creature, come i dinosauri, erano scomparse, ma le felci, all´apparenza così fragili e vulnerabili, erano scampate a tutte le vicissitudini, a tutte le estinzioni che la terra aveva conosciuto. Il mio senso di un mondo preistorico, di immensi archi temporali, era stato stimolato per la prima volta dalle felci e dai loro fossili. (...)
Dall´aereo si gode una vista incredibile del Popocatépetl, con il cratere ben visibile, circondato da una catena di picchi innevati. Mi chiedo perché le vette più basse siano ricoperte di neve, mentre il cono vulcanico, più elevato, non lo è; forse, mi dico, il calore che emana dal cono vulcanico, anche quando non è in eruzione, è sufficiente a sciogliere la neve. Circondato com´è da queste magiche, straordinarie vette, si capisce perché gli atzechi avessero stabilito lì, a duemilatrecento metri d´altitudine, la loro capitale, Tenochtitlan.
Il mio vicino (al suo secondo rum e coca, nel quale gli faccio compagnia) mi chiede il motivo del mio viaggio in Messico. Affari? Turismo? «Né l´uno né l´altro», gli rispondo, «una spedizione botanica alla ricerca delle felci». Sembra interessato, e mi parla del suo amore per le felci. «A quanto pare», aggiungo, «Oaxaca ha la più grande varietà di felci del Messico».
Il mio amico è lusingato. «Non vi limiterete alle sole felci, spero?». E incomincia a parlare con eloquenza e passione dell´epoca precolombiana: la straordinaria raffinatezza dei maya in matematica, architettura, astronomia; la scoperta dello zero, che compirono molto tempo prima dei greci; la ricchezza e il simbolismo della loro arte; e gli splendori della capitale, Tenochtitlan, che contava più di duecentomila abitanti. «Più di Londra e di Parigi, più di qualsiasi città dell´epoca, fatta eccezione, forse, per la capitale dell´impero cinese». Parla della forza e della prestanza dei suoi abitanti, racconta di come gli atleti corressero in staffetta per 400 chilometri, senza sosta, da Tenochtitlan al mare e ritorno, per assicurare ogni giorno il pesce fresco alla famiglia reale. Racconta dello straordinario sistema di comunicazione degli aztechi, secondo soltanto a quello degli inca, in Perù. Alcune delle loro conoscenze, alcune delle loro conquiste, continua, hanno un che di sovrumano, come fossero veramente stati figli del sole o esseri venuti da un altro pianeta.
«E poi», conclude in una visione dolorosa del passato che è forse comune a tutti i messicani, «e poi giunse Cortés, con il suo esercito di conquistadores, a portare non solo nuove armi, ma nuove malattie, sconosciute alle popolazioni indigene: vaiolo, tubercolosi, malattie veneree, persino l´innocuo raffreddore. C´erano quindici milioni di aztechi in Messico prima della Conquista, ma nel giro di cinquant´anni ne rimasero solo tre milioni, ridotti in stato di povertà, degrado e schiavitù. Molti trovarono la morte negli scontri armati, ma un numero ancora maggiore dovette soccombere, indifeso, alle malattie importate dal Vecchio Continente. Anche la religione e la cultura locale ne risultarono impoverite e indebolite, sostituite dalle tradizioni e dalla chiesa dei conquistadores. Ma da ciò derivò anche una miscela ricca e fertile, una combinazione genetica fisica e culturale al tempo stesso». Il mio vicino continua a parlare della «doppia natura» e della «doppia cultura» del Messico e dei messicani, la complessità, positiva e negativa, che deriva da questo duplice corso storico. E infine, mentre stiamo atterrando, mi parla delle strutture e delle istituzioni politiche, della loro corruzione e inefficienza, dell´estrema iniquità del sistema sociale di un paese che ha più multimiliardari di qualsiasi altra nazione, tranne gli Usa, ma anche il maggior numero di poveri che vivono in condizioni disperate.
Quando sbarchiamo dall´aereo nella città di Oaxaca, scorgo in attesa nella hall dell´aeroporto John e Carol Mickel, i miei amici del Giardino botanico di New York. John è esperto di felci del Nuovo Mondo, del Messico in particolare. Ha scoperto più di sessanta specie di felci nella sola provincia di Oaxaca, e ha descritto (insieme al suo giovane collega Joseph Beitel) le settecento e più specie della regione nel libro Ptedirophyte Flora of Oaxaca, Mexico. Sa trovare meglio di chiunque altro l´ubicazione talvolta segreta o variabile di ognuna di quelle specie. John è stato a Oaxaca moltissime altre volte dopo il suo primo viaggio, nel 1960, ed è lui che ha organizzato per noi questa spedizione.
Mentre la sua competenza specifica è la tassonomia, la capacità cioè di identificare e classificare le felci risalendo alla loro evoluzione e affinità evolutiva, egli è allo stesso tempo, come tutti i pteridologi, un esperto botanico ed ecologista, poiché non si possono studiare le felci in natura senza tener conto di come e dove crescono, del loro rapporto con le altre piante e gli animali, del loro habitat in generale. Carol, sua moglie, non è una botanica di professione, ma il suo entusiasmo, e i molti anni trascorsi con John, ne hanno fatto un´esperta al pari del marito.
Il mio primo incontro con John e Carol avvenne un sabato mattina del 1993. All´epoca vivevo nel Bronx, nei pressi del Giardino botanico di New York. Quel giorno stavo facendo quattro passi nei paraggi insieme al mio amico Andrew. Entrammo per caso nel vecchio edificio dove ha sede il museo e Andrew, che mi aveva sentito parlare più di una volta in toni entusiastici delle felci, notò un cartello che annunciava una riunione dell´American Fern Society per quel giorno stesso. Il fatto mi incuriosì (non ne avevo mai sentito parlare), così ci incamminammo per il labirinto di corridoi all´interno dell´edificio, finché al piano superiore trovammo la sala in cui si svolgeva l´incontro, cui partecipavano una quarantina di persone. Vi si respirava un´atmosfera vagamente retrò, quasi vittoriana. Si sarebbe potuto trattare benissimo di una riunione di appassionati di botanica degli anni Cinquanta o Settanta dell´Ottocento. John Mickel, appresi in seguito, era uno dei pochi professionisti del gruppo.
Andrew mi sussurrò all´orecchio: «Questo è il genere di persone che fa per te», e come al solito aveva ragione. Non c´era dubbio che fossero le persone giuste, e anche loro sembravano riconoscermi come un appassionato di felci.
Era un gruppo originale, eterogeneo. Si trattava in genere di anziani, pensionati, ma c´erano anche molti giovani sui vent´anni, alcuni dei quali lavoravano nelle serre o nelle sezioni di orticoltura del Giardino botanico. C´era anche qualche professionista, naturalisti o insegnanti; diverse casalinghe e addirittura un conducente di autobus. Alcuni abitavano in città, in appartamenti con vasi alle finestre; altri abitavano in campagna, in case con giardini o perfino serre. Era chiaro che la passione per le felci non teneva conto delle differenze sociali, ma poteva prendere chiunque, a qualsiasi età, e diventare parte essenziale della sua vita. Alcuni, avrei scoperto in seguito, facevano più di cento chilometri in auto per partecipare alle riunioni.
Mi capita spesso di partecipare a congressi di neurologia, ma la sensazione che provavo a quella riunione era totalmente diversa; si respirava un´aria di serena libertà e una mancanza di rivalità che non avevo mai riscontrato in un incontro professionale. Forse grazie a quest´atmosfera tranquilla e accogliente, al comune entusiasmo e alla passione per la botanica, forse perché non sentivo nessun obbligo professionale gravarmi sulle spalle, incominciai a frequentare quelle riunioni in modo regolare, ogni mese. Prima di quell´esperienza non avevo mai fatto parte in modo convinto di nessun gruppo o associazione; ora aspettavo con ansia il primo sabato del mese. Dovevo essere all´estero o veramente malato, per mancare all´appuntamento mensile con l´American Fern Society.

Copyright: Feltrinelli editore Aprile 2004