lunedì 19 luglio 2004

Francesco Petrarca (1304 - 1374)

La Stampa 19 Luglio 2004
SETTECENTO ANNI FA NASCEVA IL GRANDE POETA ITALIANO DEL «CANZONIERE»
Petrarca, non ci fu soltanto Laura
Solitario nei versi, coraggioso e forte nella vita
di Giorgio Calcagno


IL bambino nato in vico dell’Orto ad Arezzo il 20 luglio 1304, figlio di un fiorentino che, come Dante, era dovuto fuggire dalla patria per salvarsi la vita, venne battezzato con il nome di Francesco. Ma rimase, fino all’età adulta, senza cognome. Il padre, Pietro detto Petracco, nonostante la professione di notaio, non ne aveva nessuno da trasmettergli. Gliene fu dato uno trentun anni dopo, nel 1335: quando il non più tanto giovane Francesco, costretto a cercarsi da vivere, scelse la carriera ecclesiastica e ottenne un canonicato. Per «Francisco Petrachi de Florentia», era scritto nel documento di nomina, concesso in Avignone da papa Benedetto XII. Solo più tardi il «florentinus» cercò di addolcire quel brutto cognome in Petrarca, assai più in sintonia con il suo mondo onomastico. Il cantore di Laura, capace di inventare tanti giochi sul nome attribuito alla sua donna, non poteva chiamarsi Petracco.
Nonostante l’aura gentile di cui aveva voluto ammantare la propria firma, l’esistenza del poeta fu tutt’altro che tranquilla, come una pigra memoria scolastica ci tramanda. Basti leggere la «Vita del Petrarca» scritta dal suo più attento biografo, l’americano Ernest Hatch Wilkins; apparsa per la prima volta nel 1961, e ripubblicata opportunamente oggi dalla Feltrinelli nel settimo centenario della nascita. Una storia in movimento continuo. L’uomo che, a tavolino, esaltava la solitudine e la contemplazione, si trovava poi ogni giorno al centro degli avvenimenti, anche politici. Sempre in viaggio, in nave, a cavallo, per l’Europa; sempre protagonista.
Desideroso della fama senza esserne avido, frequentatore delle corti senza cortigianeria, non esitava a mettere di fronte alle proprie responsabilità papi e sovrani con cui era in confidenza. Esemplare il suo attacco a Carlo IV di Boemia, venuto a farsi incoronare imperatore in Roma e poi tornato, quasi in fuga, nella sua patria. Benché fosse stato trattato da lui con ogni onore, Petrarca non gli perdonò l’avere abbandonato quella che doveva essere la vera capitale dell’impero: «Ti porti a casa lo sterile nome di imperatore: ma in verità tu sei soltanto re di Boemia», gli scrisse in una lettera che nessun cesare prima di lui aveva mai ricevuto. E quando Carlo fece avere a Petrarca un sigillo in oro, il poeta lo rimandò indietro.
Era coraggioso, l’uomo che diceva di amare «solo e pensoso i più deserti campi». Superò terremoti, naufragi, cadute da cavallo. Non temeva i briganti, da cui l’Italia era infestata, nei suoi continui viaggi, e un giorno finì anche loro prigioniero. A Roma saliva sulla volta delle Terme di Diocleziano, prossima al crollo, per ammirare il paesaggio. Durante la peste del 1349 continuò con fermezza la sua vita, a Parma, dove si accumulavano le vittime. Non si spaventò neppure quando apprese la morte di un amico, che gli aveva fatto visita la sera prima; e nei tre giorni successivi morirono tutti i suoi familiari. Ignorando tutti i consigli, scelse di andare in barca da Pavia a Padova nel 1368, mentre le sponde del Po formicolavano di truppe in guerra. Passò senza che nessuno si arrischiasse ad attaccarlo; anzi, gli armati delle due parti caricarono la barca di vino, pollame e frutta, in suo onore.
Coraggioso, e fiducioso in Dio. Il padre della cultura umanistica era spirito religiosissimo, anche se, uomo di Chiesa, non volle prendere gli ordini, e rifiutò sempre la cura d’anime. «La cura della mia è più che sufficiente per me», disse al papa. E conosceva le proprie debolezze. In un autoritratto senile, rimasto inedito per secoli, confessa di avere ceduto, in gioventù, alla «incontinenza»: che solo a 40 anni aveva domato. Nessuno, parlando di Petrarca, ricorda le sue donne reali, sopraffatte da quella ideale a cui il fiorentino di Valchiusa dedicò la più grande poesia. Ma un figlio e una figlia ci furono, quando il poeta era già canonico e cantava la sua Laura, da due donne diverse, rimaste ignote. Il figlio, Giovanni, avviato anch’egli dal padre alla carriera ecclesiastica, gli diede molti problemi, e morì di peste a 24 anni. La figlia Francesca, gli rimase vicina fino all’ultimo, con il marito e la figlia Eletta, facendo famiglia con lui. E ci fu anche una donna ferrarese, da cui il poeta fu attratto, quando i 40 anni erano passati da un pezzo. Solo il pensiero di Laura, morta un anno prima, lo avrebbe aiutato a vincere la tentazione.
Ma l’amore vero di Petrarca, durato tutta la vita, perseguito, questo sì, con incontinenza, fu quello per i libri: da leggere, da scrivere. Era l’uomo con la biblioteca più ricca d’Europa, la produzione letteraria più vasta del suo tempo. «Sono posseduto da una passione inesauribile che finora non ho potuto né voluto frenare. Non riesco a saziarmi di libri», scriveva nel 1346 a un parente fiorentino, perché gliene procurasse. Quando fece la sua più grande scoperta, la raccolta delle lettere di Cicerone ad Attico, in una biblioteca di Verona, se le copiò tutte personalmente: ne uscì un volume così grande che non gli entrava nel baule, e doveva tenerlo diritto sul pavimento. Un giorno gli cadde addosso, ferendolo a una gamba. «Perché, mio caro Cicerone, vuoi farmi male?» esclamò il poeta. Cicerone non gli diede retta; tornò a colpirlo, tre altre volte, con gravi conseguenze per la sua salute. E la gamba continuò a farsi sentire, per il resto dei suoi giorni: quasi metafora di una esistenza, votata alla parola scritta.
Quando Petrarca si avvicinava alla settantina, sempre più malfermo in salute, il suo grande amico Giovanni Boccaccio gli scrisse per invitarlo a smettere gli studi, dopo aver lavorato tanto, e finalmente riposarsi. Petrarca gli rispose risentito: «Il lavoro e l’applicazione continui sono il cibo del mio spirito. Quando comincerò a cercare il riposo, allora smetterò di vivere». E proprio all’autore del Decameron egli scrisse, nell’estate 1374, le sue ultime parole: «Valete amici, valete epistole» (Addio amici, addio lettere). La fine venne subito dopo, il 19 luglio: non gli diede nemmeno il tempo di arrivare ai 70 anni, che doveva compiere l’indomani.