domenica 11 luglio 2004

Luciano Canfora
Alcibiade

Corriere della Sera 11.7.04
La Storia fatta con i se
Ipotesi sul condottiero: come sarebbe cambiato il destino dell'Occidente sotto la sua guida
Alcibiade fosse tornato e avesse salvato Socrate
Atene non richiamò dall'esilio lo stratega nonostante l'appello di Aristofane
Così fu inevitabile la caduta della città. E venne segnata la sorte del filosofo
di LUCIANO CANFORA


Finale delle Rane di Aristofane. Gennaio del 405 a.C., alla festa delle Lenee. Il pubblico è tutto ateniese, perciò i commediografi parlano ancor più volentieri di politica e il pubblico apprezza. Quando Aristofane ha lavorato alla commedia, nei mesi precedenti, erano ancora nell'aria l'esultanza per la vittoria alle isole Arginuse e però anche lo sgomento per l'allucinante processo montato dal perfido Teramene contro i generali vittoriosi. Comunque, mentre l'impero va in pezzi, Atene torna a vincere sul mare. Una domanda è nella testa di tutti: e se facessimo rientrare Alcibiade? Aristofane se ne fa interprete. Alcibiade però non fu richiamato e pochi mesi più tardi Atene avrebbe capitolato. L'ultimo atto era stata un'altra, disastrosa, battaglia navale, quella di Egospotami (agosto 405), combattuta dagli Ateniesi nelle condizioni peggiori e sotto la guida di capi non tutti leali, forse addirittura collusi col nemico.
Alcibiade è il grande assente. Una scena, certo veridica, lo rappresenta ad Egospotami, dove - poco prima del disastro -, pur esule, si fa ricevere dai capi suoi concittadini e li scongiura di non accettare battaglia. E però viene scacciato con la tracotante ingiunzione: «Puoi andare, ora comandiamo noi!».
Aristofane ci aveva tentato. Aveva posto il bruciante problema davanti all'intera città. Nessuna assemblea politica era così affollata come il teatro: dalla scena, Aristofane parlava ad assai più gente che un qualunque politico. Quale la sua trovata? Nelle Rane si svolge, ambientato nel regno dei morti, uno scontro tra Eschilo ed Euripide - l'antico e il moderno - di fronte a un arbitro d'eccezione, il dio del teatro, Dioniso. Si susseguono varie prove, l'ultima è la domanda rivolta a entrambi: che fare con Alcibiade? Eschilo è favorevole a farlo rientrare. E questo equivale a un suggerimento esplicito. Ma, nonostante il successo strepitoso della commedia, non bastò. Il «popolo sovrano», come spettatore applaudiva Aristofane e consentiva con lui, ma come assemblea deliberante avrebbe trascinato il grande esule dinanzi a qualche tribunale.
Perché non lo vollero? Era caduto una prima volta dieci anni prima, nel 415, perché l'avevano incastrato in uno scandalo a sfondo religioso (difficile dire che fosse veramente innocente). Aveva appena portato la città, dapprima incerta e riluttante, alla decisione audacissima di attaccare Siracusa e ampliare l'impero ateniese a Occidente. Lo trascinarono in tribunale mentre era già in mare. Lui non si fece processare, e - da esule - fece alla sua città tutto il male possibile. Mise in ginocchio Atene, ma fu lui stesso a risollevarla, fino alla seconda e definitiva sua caduta (407 a.C.) da cui non valse a risollevarlo neanche la clamorosa, e all'apparenza vincente, iniziativa dell'autore delle Rane .
Non è insensato chiedersi cosa sarebbe accaduto se il bellissimo, spregiudicatissimo e geniale Alcibiade non fosse stato a suo tempo intercettato da un micidiale e squallido processo. In realtà la sua guerra-lampo contro Siracusa poteva aver successo. Così come ebbe successo la riscossa, irresistibile, nella guerra navale, che gli fruttò un trionfale rientro, cui pose fine un incidente provocato da un suo smanioso ufficiale. Il che causò la sua seconda caduta.
E poiché cadde due volte, due sono gli scenarî da ipotizzare: uno maggiore e uno minore. Vediamo il primo. Vincendo contro Siracusa nel 415 a.C. Atene avrebbe esteso verso Occidente il suo impero. Dopo di che, il dominio sulla Sicilia orientale l'avrebbe portata allo scontro con i Punici aspiranti anch'essi al controllo dell'isola. Non è mistero che, tra i progetti che Alcibiade aveva in serbo, c'era anche un attacco a Cartagine. In tal caso, quel successo che - alla metà del secolo - era mancato a Pericle, contro la Persia in Egitto, l'avrebbe conseguito lui, suo nipote, all'altro estremo della sponda meridionale del Mediterraneo. E così la storia stessa dell'Occidente avrebbe rischiato di prendere un'altra piega. In uno scenario del genere sarebbero addirittura venute meno le premesse dello scontro che, centocinquant'anni dopo, terrà in bilico l'intero Occidente: lo scontro romano-cartaginese. Si sa che, al tempo di Augusto, alcuni storici romani si ponevano la domanda perché mai Alessandro Magno non avesse tentato di marciare verso Ovest (Livio sostenne un po' goffamente che i Romani comunque lo avrebbero sconfitto).
Si può dire insomma che Alcibiade avrebbe compiuto, a Occidente, l'impresa cui invece Alessandro nemmeno aspirò. Avrebbe assunto in patria la «tirannide» dopo la vittoria? È probabile che questo pensiero non lo abbia mai abbandonato. Ma non era così ingenuo da voler ferire i suoi Ateniesi proprio là dove la loro sensibilità era più reattiva. Pericle era stato per decenni un «principe elettivo»; lui, coronato di trionfi, avrebbe fatto altrettanto. E invece tutto questo crollò. Un qualche politico di terza fila volle coinvolgere il grande condottiero in uno scandalo, la cui repressione dava soddisfazione al perbenismo dell'Ateniese medio. E il sogno occidentale di Atene svanì.
Atene subì colpi su colpi. Eppure non cadde. Ritornato, Alcibiade sembrò ristabilire le sorti della città che stava correndo senza freni a precipizio verso il baratro. Rientrò da «salvatore». Ma grazie alle mai sopite invidie, al primo insuccesso fu rimosso.
Aristofane fa dire a Eschilo che «il cucciolo del leone» (così designa Alcibiade) era l'unico in grado di salvare ancora la città dalla disfatta. È probabile. Avrebbe impedito dieci anni di dispotismo spartano su tutta la Grecia. Avrebbe risparmiato ad Atene la ferocia dei «Trenta tiranni». Senofonte non avrebbe raggiunto Ciro in Asia per scampare ai postumi della guerra civile. (Non avremmo l' Anabasi ). E nemmeno Socrate avrebbe pagato con la vita le sue compromettenti amicizie politiche. E forse, senza un tale martire, il pensiero occidentale avrebbe preso un'altra piega.

Alcibiade (450-404 a.C.) crebbe in casa di Pericle e divenne seguace di Socrate. Valoroso combattente, nel 422 entrò in politica promettendo grandezza ad Atene. Perciò spinse la sua città a fare lega con Argo contro Sparta, che venne sconfitta a Mantinea (418). Con un piano di espansione in Occidente, decise la spedizione contro Siracusa, ma venne accusato di sacrilegio. Salpò comunque. Richiamato per il processo, disertò. Andò a Sparta e divenne lo stratega anti ateniese, coprendosi di successi. Entrato in urto con il re spartano, fu chiamato dagli ateniesi della flotta di Samo e ottenne due vittorie contro Sparta, ad Abido (411) e a Cizico (410). Venne richiamato ad Atene (407) e assunse il comando delle navi. Ma, accusato di una sconfitta della flotta, andò in esilio. Fu ucciso in Frigia dai sicari di Farnabazo su istigazione di Sparta.