venerdì 16 luglio 2004

Macaluso e la storia del Pci

Repubblica 16.7.04
La rivista di Macaluso
Intellettual e Pci tra abiura e rimpianto
di NELLO AJELLO


Abiura, rimpianto, vittimismo. Di questi stati d´animo, che segnano la psicologia di tanti ex comunisti, si trovano poche tracce in quella autobiografia, intitolata 50 anni nel Pci, che Emanuele Macaluso - togliattiano, parlamentare, direttore dell´Unità dal 1982 al 1986 - ha pubblicato di recente presso l´editore Rubbettino. E´ un racconto gremito di personaggi e ricco di riflessioni ad uso dei vecchi e nuovi «compagni».
Non a caso nella rivista Le nuove ragioni del socialismo, che Macaluso dirige, storici ed ex militanti del Pci ne hanno tratto spunto per rivisitare le vicende di quel partito. Lungo due visuali: da un lato il suo grado di dipendenza dall´Urss e dall´altro il suo radicamento «italiano» e democratico. Luciano Cafagna ha espresso considerazioni assai fini sulla tendenza degli ex comunisti di guardare al loro passato politico come a un romanzo di formazione, quasi riproducendo «il comunismo realizzato in una sola persona».
Massimo L. Salvadori si è soffermato sulle due anime del Pci, cui si accennava. Soltanto le «dure repliche della storia» costrinsero quel partito a una scelta. Ancora al XVI congresso del 1983 - ha ricordato fra l´altro - Berlinguer dichiarava «impercorribili» le tradizioni della socialdemocrazia; e anche più tardi la minoranza guidata da Napolitano, detta «migliorista», venne isolata. In definitiva, fra quelle due facce del comunismo italiano non vi fu «una tensione o una contraddizione ma un´organica compenetrazione». Fino agli ultimi esiti.
E´ stata proprio questa irrisolta antinomia fra il sentirsi «comunisti italiani» o «italiani comunisti» - incalzerà Franco Ottolenghi - a impedire, all´epoca del «secondo 89», con Occhetto, «un accesso senza riserve» al riformismo di marca occidentale.
A somministrare un antidoto a queste critiche s´è adoperata Rossana Rossanda. Mai, afferma in sostanza l´autrice nel numero di maggio della rivista, il comunismo nostrano fu davvero succubo dell´Unione Sovietica. L´adesione del Pci al blocco del patto di Varsavia valeva come un mero «segno di contraddizione» rispetto allo schieramento dell´Alleanza atlantica. Qualcosa di forzato. «Gli altri - sosteneva Amendola - hanno alle spalle gli Stati Uniti. Noi dobbiamo tenere l´Urss». Al di là di questo, il Pci trovò la propria ispirazione lungo le linee della cultura meridionale di Labriola, De Sanctis, Salvemini, Dorso, Gramsci. Niente o poco Andrej Zdanov. A mostrare i segni della cultura comunista valgono «più i cataloghi di Einaudi che quelli degli Editori Riuniti».
Filosovietico a malincuore e persino poco marxista, il Pci fu da sempre genericamente democratico e «occidentale» (fin troppo, si legge fra le righe): ecco, in sintesi, l´opinione della fondatrice del Manifesto. Opinione che, nel suo intervento, Biagio de Giovanni confuta, rovesciandola: è vero che da noi la cultura comunista si riconobbe in gran parte, simbolicamente, nel catalogo Einaudi, ma ciò va ascritto a suo merito. Dimostra che nei ranghi intellettuali del Pci si riuscì a «comprendere laicamente il valore dell´organizzazione della cultura». Quando, a partire dagli anni Settanta, questo schema «liberale nel senso di non-zdanoviano» venne abbandonato, l´intellighenzia comunista «non ebbe più molto da dire alla società italiana».
Il confronto prosegue nel numero di luglio, nel quale Paolo Favilli rivendica come massima benemerenza del Pci l´aver onorato la «cultura della storia»; e cita in proposito Emilio Sereni (1907-1977), che, pur essendo seguace e propugnatore delle teorie zdanoviane, con i suoi lavori sul paesaggio agrario italiano seppe ergersi a «maestro di innovazione storiografica». Il che per Sereni è certamente vero, ma non tutti gli storici comunisti a lui coevi furono di pari livello, e che non fu questa parte «positiva» del suo magistero la più ascoltata all´interno del partito di Togliatti.