venerdì 16 luglio 2004

storia del Pci
Giuseppe Di Vittorio

Corriere della Sera 16.7.04
Di Vittorio, il volto riformista del Pci
di PAOLO FRANCHI


Il bel libro che Antonio Carioti ha scritto su Giuseppe Di Vittorio per la collana del Mulino «L’identità italiana» può essere utile anche ad animare una discussione, quella sulle radici storiche e politiche del nostro riformismo, della cui sostanziale assenza i primi a risentire sono stati ovviamente i diretti interessati. Fu riformista, seppure a suo modo, e pure pagando tutti i prezzi del caso ai suoi tempi e al suo credo ideologico, il grande sindacalista di Cerignola? E, nel caso, in che senso? Carioti, a dire il vero, rifugge dal formulare risposte univoche in materia: ma non credo di forzare troppo il suo pensiero dicendo che, alle strette, propenderebbe per il sì, come ha fatto, tra gli altri, lo storico Piero Craveri. Emanuele Macaluso, nel suo libro Cinquant’anni nel Pci , edito da Rubbettino, si mostra dello stesso avviso e anzi entra nel merito. «Il più amato dei leader sindacali fu - scrive - il volto riformista» del partito e, aggiunge, non si può comprendere «perché il Pci ha avuto il ruolo che ha avuto» senza «sforzarsi di capire chi fu e cosa rappresentò Di Vittorio nel popolo, ma pure nella considerazione delle classi dirigenti». Non solo. A riprova del riformismo di Di Vittorio, Macaluso cita aspetti cruciali della sua concezione del sindacato, ma anche, più in generale, di quello che un tempo si chiamava il «movimento operaio». Non considerò le riforme come «momenti di rottura» del capitalismo, nell'ambito «della transizione a un altro sistema», ma come «passi avanti per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e la società». Fu tra i primi a sinistra, e non solo nel Pci, a pensare - perché questo fu, nel 1949, il Piano del lavoro elaborato dalla Cgil - che il movimento operaio dovesse essere protagonista consapevole della costruzione, in Italia, dello Stato sociale. Pose a soggetto del suo riformismo, prima ancora delle riforme, il lavoratore: e proprio sulla scorta di questa concezione della politica e della democrazia, per la quale sotto nessun cielo è lecito sparare sugli operai, nel 1956, di fronte alla rivoluzione ungherese, dissentì dalla posizione del Pci.
Comprendo bene le motivazioni di chi, come ha fatto Oscar Giannino sul Foglio , recensendo il libro di Carioti, rifiuta, tutto al contrario, di considerare Di Vittorio un «criptoriformista». Perché pronunciò dei no coraggiosi e ne pagò il prezzo, «ma senza evitare poi l'allineamento e fiumi di elogi del modello sovietico»; e perché, a stringere, non venne a capo del dramma irrisolto di un sindacalismo «di classe» impossibilitato, quasi per definizione, a formulare «un'aperta divergenza strategica con il Pci di Togliatti». Vero. Come è vero che non colse, negli anni Cinquanta, le potenzialità di sviluppo della società italiana e che sbagliò a contrastare la linea di contrattazione aziendale adottata dalla Cisl e che, insomma, un moderno sindacato riformista non riuscì a costruirlo e anzi, probabilmente, non lo immaginò nemmeno. Come è vero, ancora, che è bene restare guardinghi di fronte alla sapienza della tradizione comunista e postcomunista nell'«estrarre magistralmente, dal proprio interno (...) i migliori eroi e simboli attualizzati di scelte mai compiute nella realtà, quando erano necessarie». Ma penso pure che ancora più guardinghi bisognerebbe restare di fronte a un’idea esangue di riformismo. Ricco di grilli parlanti e di mosche cocchiere, ma senza precedenti, seppure irrisolti e contraddittori, nella vicenda nazionale. Senza antenati, ancorché discutibili. Senza contraddizioni, magari anche terribili. Senza storia, e quindi senza popolo. Così limpido e lineare, da non poter esistere in natura.