venerdì 16 luglio 2004

è stata la Musa degli esistenzialisti
Intervista a Juliette Gréco

La Stampa 16.7.04
INTERVISTA
«Jujube» racconta la sua straordinaria vita. E questa sera alla Milanesiana verranno letti alcuni brani dell’autobiografia
Juliette Gréco: «La mia voce nasce dal silenzio»
PASSIONI
di Paolo Di Stefano


Dice che la sua voce è nata dal silenzio. Dal silenzio dell’infanzia, quando si ostinava a non rispondere alle domande della maestra anche a costo di venire espulsa dall’aula per il suo mutismo. Ora, a 77 anni, non le resta che fare il conto delle tante espulsioni della sua vita: soprattutto quelle che lei, Juliette Gréco, ha imposto agli uomini, dopo aver assistito impassibile al decomporsi dell’amore. Un lungo elenco: dall’attore Philippe Lemaire a Michel Piccoli. «Mi disgusta la decomposizione dei sentimenti, mi disgusta - dice - voglio solo ciò che rispetto, ciò che amo e ciò che ammiro. Quando il sentimento muore, me ne vado. Per me esistono solo le cose belle da vivere, tutto il resto lo rifiuto». Forse per questo, la sua è una vita vissuta all’insegna della resistenza a oltranza. Resistenza al senso comune, alla banalità. Che cosa significa resistere, lo imparò ben presto, quando capì che sua madre era una attivista partigiana che durante la guerra nascondeva in casa uomini mai visti e per questo venne arrestata dalla Gestapo nel ’43.
Oggi, di sua madre Juliette conserva soprattutto due ricordi, il più bello e il più brutto: «Il più duro è molto lontano: avevo tredici anni, ero molto arrabbiata, alzai le mani su di lei, le tirai una sberla. È un ricordo terribile, non riesco a liberarmene. Il più bello è il suo ritorno dal campo di concentramento, ero a Parigi da sola e il giorno in cui lei tornò non posso dimenticarlo...». La memoria? «Un dovere e una ricchezza» dice. Dovere è anche dimenticare, a volte. Per esempio, dimenticare un padre mai conosciuto: «Lo vidi quando ero molto piccola, poi tre volte quand’ero adulta, era un tipo molto bello, ma per me non era mio padre».
Ricordare e dimenticare. Questa sera la cantante francese, Jujube per gli amici, sarà a Milano per una serata di letteratura e musica. Verranno lette alcune pagine dell’autobiografia ( Jujube , pubblicata nell’82 dall’editore Stock) in cui Juliette parla dell’infanzia e dei sentimenti. E anche di qualche incontro. Come quello, lontanissimo, con François Mauriac, al ristorante La Méditerranée di Place de l’Odéon: «Ero molto giovane, povera, con i piedi nudi, un maglione nero, un paio di pantaloni neri, fui invitata lì da Christian Bérard e Boris Kochno, il quale mi aveva visto danzare all’Opéra e voleva creare un balletto per me, mi voleva convincere a tornare alla danza. Io sapevo che non sarei tornata, ma accettai l’appuntamento soprattutto perché a quei tempi avevo fame e non sempre riuscivo a mangiare; quando entrai, la gente si voltò per vedere quella poveraccia in un locale così elegante. A un certo punto vidi un distinto signore, alto e di una certa età, che si alzò da un tavolo, allargò le braccia e cominciò a urlare: "Bonjour, Gréco...". Venne ad abbracciarmi e la gente rimase stupita... Mauriac che salutava una piccola miserabile come me... Al suo tavolo c’era l’attrice Edwige Feuillère, una donna che avrei stimato e amato per tutta la vita».
Jujube la selvaggia, la solitaria, la silenziosa, l’indomabile. Jean-Paul Sartre, quando insieme frequentavano il Café Flore, scrisse canzoni per la sua Juliette perché, diceva, «solo grazie a lei le mie parole possono diventare pietre preziose... La sua voce contiene milioni di canzoni, milioni di poesie». Non solo Sartre, si sa: Camus, Prévert, Queneau, Vian, Cocteau, Gainsbourg, Béart, Aznavour, Ferré. E Brel, « il più generoso, il più puro, scriveva canzoni con la stessa forza con cui van Gogh dipingeva».
Erano gli anni dell'immediato dopoguerra e Saint-Germain-des-Près era il centro del mondo: «Magnifico, durante la guerra nessuno era interessato ai bambini, noi non potevamo neanche parlare a tavola, non avevamo diritto di parola. Di colpo, con gente come Sartre e Simone de Beauvoir, scoprimmo di essere diventati adulti... Tutti avevano una loro forza, una loro generosità, una loro intelligenza, ero sbalordita».
E oggi, è possibile oggi lo stesso sbalordimento? «Sono ancora una donna sbalordita... conosco ancora gente magnifica, forse non saranno le stesse persone di un tempo, nessuno è sostituibile, ognuno è un caso unico, credo. Però ho ancora molta speranza, anche se il contesto politico e sociale è molto più difficile che negli anni del dopoguerra, non c’è più quel fervore, quella speranza folle di eguaglianza e di fraternità. Oggi è più difficile, ma bisogna continuare a battersi».
La definizione che più le piace è: Jujube, una donna in piedi. «Sì, bisogna restare sempre in piedi, combattere tutto quello che si detesta. Cantare in piedi contro i pericoli: la menzogna, il razzismo, l’immobilismo...». Al Tabou di rue Dauphine, con Vian e Cocteau, si cantava in piedi. C’era anche Miles Davis, che suonava in piedi. «Era un locale per bambini felici e, se c’erano vecchi, erano dei vecchi bambini felici. Miles Davis è tra i miei amori più belli, ci siamo amati subito, come dei bambini. Quanto tempo è passato... per le mie storie d’amore non ho il senso degli anni che passano... Forse fu quando cominciai a cantare, nel ’49, credo».
La gioventù. Quanto le manca la gioventù? «Non mi manca perché è all’interno di me, sono io che sono stanca, non la mia giovinezza». Prima venne la danza, poi il teatro, infine il canto. Che differenza? «Nessuna differenza, sono tre attività che impegnano allo stesso modo la totalità del comunicare, il corpo, lo spirito, la voce». Come la scrittura? «Per la scrittura è diverso: a un certo punto mi sono detta: posso morire da un momento all’altro, bisogna che dica la mia verità, che non è la verità degli altri, ma solo la mia. Ho scritto l’autobiografia, ma non ho ancora finito di dire la verità, la mia verità».