martedì 21 settembre 2004

citato al Lunedì
Bodei:
sulla morte

Repubblica 18.9.04
QUANDO LA VITA FINISCE
un confronto di filosofi in pubblico
Una frattura attraversa le convinzioni di tutti tra chi crede in un dopo e chi lo nega
Socrate dopo aver rifiutato la fuga sceglie di morire conversando con i suoi discepoli
Tutte le religioni ricorrono all´esperienza della fine altrui
L´uomo è l´unico animale che , gettato nei flutti del tempo, sa di dover morire: la filosofia si è a lungo misurata con questo tema fondamentale
REMO BODEI

L´uomo è l´unico animale che, gettato nei «flutti del tempo», sa di dover morire. L´unico capace di rappresentarsi dall´esterno la morte altrui, ma non la propria, e di interrogarsi, con paura o speranza, sul senso di questo inaggirabile sbarramento.
Ognuno conclude un ciclo iniziato quando è venuto al mondo, senza volerlo, in un determinato periodo e luogo, allorché ha iniziato una nuova storia, al cui centro inevitabilmente si è posto. Impadronendosi del linguaggio, lasciandosi plasmare dalle istituzioni politiche e religiose, elaborando visioni del mondo, ha così ripercorso a tappe forzate tratti di cammino già oltrepassati dalla propria civiltà. Ha cercato quindi, nel corso della sua esistenza, di dar senso agli eventi in cui è stato implicato, alle idee che gli hanno attraversato la mente, alle passioni che lo hanno impregnano e ai progetti che lo hanno guidato.
Tutto preso dal suo io, dai rapporti sociali e dai propri interessi, ha spesso dimenticato la sua qualità di ospite della vita, il fatto che il nostro essere è in gran parte fuori dal nostro controllo. Non solo, infatti, nel corpo le cellule si moltiplicano e muoiono, il sangue scorre, i polmoni si gonfiano e si svuotano d´aria, le ghiandole endocrine secernono i loro prodotti, i globuli bianchi vanno all´assalto delle infezioni senza alcuna nostra consapevolezza o ingiunzione, ma, anche a livello psichico, ogni notte involontariamente mettiamo in scena trame di sogno di cui siamo meri spettatori. Libertà, ragione e coscienza, ciò che di cui andiamo più fieri, poggiano su questa silenziosa operosità inconscia.
Viene però il momento in cui ciascuno comincia ad avvertire come un´emorragia di vita, ad accorgersi che le energie del corpo e dell´animo si affievoliscono. Sente allora la vita sfuggirgli irrimediabilmente, con moto accelerato quanto più discende nella «valle degli anni». È allora colto da quello che Agostino chiamava il metus amittendi, la paura di perdere tutto, di avanzare nel buio verso il nulla. Timore inevitabile, giacché - come ammoniva agli inizi dell´Ottocento Madame de Lambert - nous ne vivons que pour perdre o, come recita un proverbio tedesco, «l´ultimo vestito non ha tasche». Congedandoci dalla vita non possiamo portarci dietro niente.
La maggior parte di noi si sottrarrebbe volentieri a tale appuntamento in sospeso, ma - proprio perché la sua data è incerta - è propenso a ritenerlo prorogabile e a dimenticarlo. Tutte le religioni e tutte le concezioni del mondo affondano le loro radici nell´esperienza che ciascuno ha della morte altrui e dell´attesa della propria. E tutte si sforzano di ricordarla: dagli antichi egizi, che facevano circolare una mummia durante i banchetti, sino a oggi, quando la morte è sistematicamente esorcizzata, ma riempie di sé le pagine dei giornali e dei romanzi e gli schermi della televisione e del cinema.
Da Platone a Heidegger anche la filosofia occidentale ha posto al centro della propria riflessione l´enigma della morte e la preparazione ad essa. Melete thanatou o Respice finem sono state a lungo le sue parole d´ordine, contrastate solo da pochi, come Spinoza, che riteneva la filosofia «meditazione della vita, non della morte».
Una linea di frattura attraversa sia il pensiero filosofico che le convinzioni della maggior parte degli uomini. Da una parte ci sono quanti credono che essa sia l´inizio di una nuova vita, di una «vita dopo la vita», grazie a una metamorfosi analoga a quella che trasforma il bruco in farfalla; dall´altra, quanti, invece, pensano che essa rappresenti un ritorno a quel nulla da cui siamo usciti nascendo (e che, di conseguenza, la vita di ogni individuo sia soltanto una parentesi d´essere tra due immensi abissi del nulla).
Chi crede all´esistenza di una vita oltre la morte fa leva sulla speranza che le miserie e le sofferenze provate in questo mondo vengano risarcite, sulla persuasione che non si può essere nati invano, che il mondo deve pure avere un senso. È convinto che, se l´anima non fosse immortale e se non esistesse un Dio che premia i buoni e punisce i malvagi, la vita si trasformerebbe in una beffa crudele. Si perpetuerebbe, senza redenzione alcuna, lo spettacolo d´ingiustizia e di miseria denunciato nel Libro di Giobbe:
«Gli empi rimuovono i confini,
rapiscono il gregge e lo pascolano.
Conducono via l´asino degli orfani,
prendono in pegno il bue della vedova.
[...] Prima che faccia giorno si leva l´assassino,
uccide il povero e il misero,
e di notte fa il ladro. [...] Nell´indigenza e nella fame
I derelitti fuggono verso il deserto,
tenebroso, squallido e desolato.
Colgono l´acetosa e le foglie degli arbusti
e la radice delle ginestre è il loro cibo»
Ma se la pascaliana scommessa sull´esistenza di Dio risultasse perdente? Se avesse ragione quel condannato a morte il quale «rispose al suo confessore, che gli prometteva che avrebbe cenato quel giorno con Nostro Signore: "Andateci voi, perché io, per parte mia, faccio digiuno"» (Montaigne)? Se il desiderio d´immortalità non fosse che un´illusione, uno schermo immaginario su cui proiettare le aspettative troppo raramente soddisfatte della nostra esistenza terrena? Ma, per converso - abbandonando provvisoriamente il punto di vista dell´individuo - può una società durare senza un progetto simbolico d´autoperpetuazione illimitata, senza porre, più o meno velatamente, «la morte al centro della vita», ossia senza solennizzare attraverso miti e riti di passaggio gli individui che muoiono per incorporare nella società quelli che nascono e crescono e saldare così le diverse generazioni? Può, inoltre, bastare l´eternità nell´attimo come quella che la cultura del Novecento ha cercato nel Carpe aeternitatem in momento! di Ernst Bloch?
Sulla morte la filosofia occidentale presenta un largo spettro di posizioni. Alternative o defilate rispetto alle religioni tradizionali, sia quando accetta l´idea dell´immortalità dell´anima, sia quando la nega. In ogni caso, l´insegnamento che intende trasmettere è generalmente quello della serenità dinanzi all´ineluttabile. Socrate, si sa, dopo aver rifiutato la fuga dalla prigione, muore conversando tranquillamente con i suoi discepoli; Boezio, incarcerato e condannato a morte dal re goto Teodorico nel 524, scrive in cella La consolazione della filosofia (un´opera che ha contribuito a radicare, a livello di senso comune, l´idea che la filosofia sia un modo per sopportare le traversie della vita, un antidoto alle contrarietà e alle disgrazie). Ma il martirologio filosofico è ancora più lungo: basti pensare a Giordano Bruno, mandato al rogo dall´Inquisizione nel 1600, o Giulio Cesare Vanini, che subisce lo stesso trattamento nel 1619 e che, mentre si avvia verso la pira, si fa beffe dei suoi nemici.
Se ogni nascita è una resurrezione dalla morte, dal nulla precedente, la morte, a sua volta, è un ritorno a casa, a quello stesso niente. Dinanzi ad essa si deve restare calmi:
«Perché lamenti la morte, perché ne lacrimi?
Quando t´abbia sorriso la vita sin qui vissuta, e non tutte
stipate come in un vaso bucherellato, le gioie
sian defluite e perite senza tuo frutto, perché
da commensale ormai sazio non te ne vai dalla vita,
né di buon grado ti prendi, sciocco, un sereno riposo?»

(Lucrezio, III, 828-977).
In questa prospettiva, il timore della morte si placa eliminando le paure immaginarie (che derivano dalla credenza in divinità colleriche e vendicative o dalla ripugnanza che proviamo da vivi all´idea della corruzione della nostra carne) e godendo appieno ogni istante dell´esistenza senza procrastinare la gioia del presente.
Non aspiriamo, in realtà, a una vita infinitamente lunga, ma a una vita piena, compiuta. Per questo, se si è stati in grado di fruirne, la si deve abbandonare di buon grado: «Attraversa quindi questo breve periodo di tempo in modo conforme alla natura e finisci felice il tuo viaggio, proprio come un´oliva che cade quando è matura, benedicendo la natura che l´ha prodotta e ringraziando l´albero sul quale è cresciuta». (Marco Aurelio, IV, 48).
Ma nel caso in cui la nostra vita sia stata talmente grigia o penosa da non meritare alcuna riconoscenza, occorre ugualmente accettare di buon grado il potere distruttivo della mors immortalis? O non ci si deve laicamente ribellare alla sua assurdità, al suo vanificare ogni progetto, lasciando incompiuta e insatura ogni esistenza, invece di chiuderla armonicamente?
Forte è certo la seduzione dell´immortalità, il bisogno di felicità senza fine, il desiderio di raggiungere quella patria segreta in cui non si è ancora mai stati. E non senza emozione si può ascoltare la promessa del Credo niceno relativamente alla resurrectio mortuorum e alla vita venturi saeculi, o ricordare le parole che Unamuno trova incise su una lapide tombale della sua città, Bilbao:
Aunque estamos en polvo convertidos,
en ti, Se or, nuestra esperanza fía,
que volveremos a vivir vestidos
con la carne y la piel que nos cubría

(«Sebbene siamo trasformati in polvere,
in te, Signore, riposa la nostra speranza
di tornare a vivere vestiti
con la carne e la pelle che ci copriva»).

Una risposta "laica" a tali aspettative sta anche nel non irriderle, nel comprenderne appieno il senso, nel rendersi conto che la semplice negazione di queste speranze amputa la nostra umanità, che la nostra morte è carica di significati che non si possono banalmente ridurre alla cessazione del respiro o dell´attività cerebrale.
Non è facile togliere alla morte il suo «pungiglione».