martedì 7 settembre 2004

citato al Lunedì
Galimberti!

Repubblica 1.9.04
I COMPORTAMENTI DELL’AMORE (6) / MATRIMONIO
Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo
Il trionfo attuale dell’individualismo consente a ciascuno di sviluppare una sua idea di felicità Le norme della tradizione che hanno avuto tanta forza nella regolazione del vincolo oggi non contano più L’esperienza esaltante della passione piena di rischi Secondo Tolstoj la routine coniugale è un vero inferno
UMBERTO GALIMBERTI


Ma che cos’è la vita a due? Una combinazione di forze per sopperire alla propria debolezza, un’opportunità per possedere una casa propria, una modalità socialmente accettata per allontanarsi dai propri genitori, una fuga dalla solitudine, un sacrificio dettato dalla compassione, un effetto indotto dalla fascinazione o dall’ammirazione, un aiuto reciproco fondato sul denaro, un’ascesa sociale garantita dal prestigio di un nome, un estremo rimedio contro l’insonnia o contro la dispepsia, un’autorizzazione a procreare, un sedativo contro l’eccesso passionale, una via d’accesso all’adulterio, un’anticamera alla separazione, un patto di cameratismo, un espediente per sentirsi normali, un modo per non destare sospetti e curiosità, una casa di riposo per la vecchiaia, una casa di piacere, una camera di tortura? Se così stanno le cose, e per molti le cose stanno così, scegliere un uomo o una donna per tutta la vita significa scommettere senza essere supportati da alcuna buona ragione, perché nelle cose d’amore la ragione non ha gran voce in capitolo. E ciò è vero soprattutto oggi dove le ragioni di censo, le ragioni di rango, le ragioni economiche, le ragioni religiose, le ragioni sociali non hanno più in questo campo una loro forza cogente, perché il trionfo dell’individualismo, che caratterizza la nostra cultura, ha fatto sì che l’amore non abbia altro fondamento che in se stesso, cioè nell’individuo che lo vive in base alla sua personalissima idea di felicità. Le norme della tradizione, che tanta forza hanno avuto nella regolazione del vincolo matrimoniale, oggi non hanno più influenza. E con la tradizione recedono le leggi dello Stato, le norme del diritto, i precetti della Chiesa che, con la loro rinuncia al controllo diretto dell’intimità, consentono all’amore di dispiegare la sua logica interna, che non conosce altra ragione che non sia la spontaneità del sentimento e la sua sincerità. E questo sia nel caso del matrimonio sia nel caso del divorzio, caratterizzati entrambi dal rifiuto del calcolo, dell’interesse, del tornaconto, fino al rifiuto dell’accordo, della responsabilità, della giustizia, in favore dell’autenticità del sentimento e della sua incondizionatezza. Oggi, amare o non amare non è un’infrazione giuridica, non è un atto criminale, anche se da ciò dipende la vita di un’altra persona, che può venir ferita più profondamente di quanto non possa menomare una malattia e uccidere la morte. Assolutizzato e slegato, come mai prima d’ora, da ogni referente sociale, giuridico, religioso, l’amore oggi si annuncia come assoluta promessa di felicità o come guerra senza frontiere, combattuta con le armi acuminate dell’intimità. Perché così è quando a promuovere l’amore sono le esigenze di autorealizzazione fondate sulla cieca intensità del sentimento. Se la tendenza fondamentale del nostro tempo è l’essere padroni della propria felicità, misurata sull’intensità della passione, per accedere al matrimonio bisogna disporre di una capacità di tedio quasi morbosa, a meno che non vi si acceda sognando una possibile passione capace di agire come una distrazione permanente, e così scongiurare le rivolte della noia. Non si ignora che la passione potrebbe essere un’infelicità, ma si suppone che sia un’infelicità più esaltante della vita quotidiana, più elettrizzante della piccola felicità del matrimonio. Quindi: la noia rassegnata o la passione. L’"uomo della passione", come potremmo chiamare l’uomo del nostro tempo, attende dall’amore quella rivelazione su se stesso o sulla vita in generale, ultimo sentore della mistica primitiva, pallida reviviscenza dell’amore romantico col suo corredo di imprevisti, di rischi eccitanti, di gioie languide e violente. E’tutto l’orizzonte del possibile che si spalanca, un destino che si arrende al desiderio con le sue illusioni di libertà e di pienezza. Ma, si domanda Denis De Rougemont in L’amore e l’Occidente (Rizzoli): "Chiameremo libero l’uomo che possiede se stesso o l’uomo della passione che cerca di essere posseduto, spogliato, gettato fuori di sé medesimo, nell’estasi?". Se lo visualizziamo a partire dalla passione e dai valori che dalla passione scaturiscono, il matrimonio non può apparire che come "una dolce camera a gas". Ma la passione ha davvero l’ultima parola sui vincoli d’amore? Il sospetto ormai non è neanche più un sospetto, ma una certezza. Forse l’amore-passione non è mai stato per davvero un’esperienza, ma in prima istanza una faccenda letteraria, che a poco a poco ha sedotto la religione, la filosofia, l’antropologia, la psicologia e più in generale le scienze umane, per poi calarsi nelle onde mediatiche, nella musica classica e leggera che sembra non possano vivere senza una mediazione d’amore, infine negli inserti pubblicitari per aiutare le merci a uscire dagli scaffali dei supermercati ed entrare nei carrelli degli acquirenti. L'amore-passione, infatti, vive di ostacoli, intensi eccitamenti, spasmi, congedi, addii, il matrimonio, invece, vive di consuetudini e vicinanza quotidiana. L'amore-passione vuole l’amore lontano dei trovatori, il matrimonio l'amore vicino dei coniugi. E in un mondo come il nostro, che ha conservato come ultimo residuo dell’amore, se non la passione, la nostalgia della passione, è ovvio che si faccia strada la tendenza ad accostarsi al matrimonio solo nella prospettiva della possibilità della separazione e del divorzio, di cui tutti ne chiedono la facilitazione, quando il problema, forse, non è di rendere facile il divorzio, ma di rendere difficile il matrimonio, se per concluderlo si pensa possa bastare l’amore-passione. Ma sappiamo che le ragioni dell’etica non hanno mai avuto buon gioco di fronte agli spasmi della passione romantica. E questo soprattutto in una cultura del consumo come la nostra, dove, non essendoci nulla di durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all'autorealizzazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti. Accade allora che questa trama illusoria della libertà di scelta si traduce, come osserva Christopher Lasch ne L'Io minimo (Feltrinelli), in un'"astensione dalla scelta", perché dove i rapporti personali seguono lo schema dei prodotti di consumo, la scelta non implica più impegni e conseguenze, perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, di una moglie, di un marito o di una carriera, di una gravidanza, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più vantaggiose. Ma là dove la scelta non implica più effetti irrevocabili, là dove non muta il corso delle cose, dove non avvia una catena di eventi che può anche risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora è l’idea stessa di scelta che nega la libertà che pretende di sostenere. E allora, guardando dal punto di vista dell’amore-passione, il matrimonio, per il solo fatto di essere una promessa irrevocabile, è come dice Tolstoj: "Un inferno". Ma la passione è l’unico modo in cui può declinarsi l’amore? Se la passione è patire l’altro, non si dà un amore che, invece di patire, "agisce", che invece di declinarsi sul solo versante della passione, trascinata dalla discontinuità delle sue oscillazioni, "decide" in modo irrevocabile e, a partire da questa decisione, non subisce l’amore, ma lo crea? Forse in questo senso Denis De Rougemont può dire: "La fedeltà è assurda almeno quanto la passione, ma dalla passione si distingue per un costante rifiuto di subire i suoi estri, per un costante bisogno di agire per l’essere amato, per una costante presa sul reale, che cerca di non fuggire ma di dominare. Dico che una fedeltà così intesa fonda la persona. Perché la persona si manifesta come un'opera, nel più largo senso del termine. Essa viene edificata alla maniera di un'opera, con gli stessi criteri, dei quali il primo è la fedeltà a qualcosa che non esisteva, ma che si viene creando". Se l'amore-passione, che alimenta sia la visione romantica dell'amore sia la visione mistica, è una sorta di evasione dal mondo per toccare in sogno la felicità assoluta, l'amore-azione che fonda il matrimonio non evade dal mondo, ma assume il proprio impegno in questo mondo, non per un'immotivata presa di posizione a favore della fedeltà, che di per sé non è un valore, ma perché, attraverso la fedeltà, prende avvio quell’azione d'amore che di continuo crea l'altro come si crea un’opera. Naturalmente tutto ciò diventa comprensibile se appena si riesce a concepire l'amore non come uno "stato", qual è ad esempio la condizione dell’innamorato, ma come un "atto" che, invece di divinizzare il desiderio e la sua incontenibile brama che consuma la vita, invece di rendergli un culto segreto e di aspettarsi un misterioso accrescimento di gioia, sta alla parola data e, a partire dalla fedeltà al patto, prende a costruire scenari d’amore. L'attuale crisi del matrimonio che caratterizza l’intero Occidente dice, al di là delle sorti individuali, che nella nostra cultura non si ha altra concezione dell’amore che non si risolva nella passione, la quale, non avendo di fronte a sé un contraltare, viene divinizzata. La passione non è da condannare, ma la sua divinizzazione è pericolosa, perché ci trattiene in un polo di quella tensione creatrice in cui trova la sua articolazione ogni dinamica esistenziale. L'altro polo non è la moderazione, il contenimento, la proibizione, su cui insistono tutte le morali, ma l'azione che non ignora la felicità della passione e forse neppure la sua sregolatezza, ma non si accontenta di una felicità passiva, perché vuole creare. Non una vita dopo la morte come promette il messaggio religioso, ma una vita prima della morte.

Repubblica 27.8.04I COMPORTAMENTI DELL’AMORE (5) / DENARO
Cercando un rapporto senza ieri né domani
La prostituzione viene in genere considerata inevitabile mentre è un fossile della nostra cultura Ci ricorda Lévi-Strauss che le società antiche vendevano e comprava le donne e che la nostra non è da meno specchio della condizione maschile sintonia perfetta tra sesso e moneta
UMBERTO GALIMBERTI


Quando si dice che è "il mestiere più vecchio del mondo" bisognerebbe anche aggiungere che dunque è un fossile della nostra cultura, il sintomo di epoche passate che potrebbe benissimo essere superato. E invece no! L'argomento viene invocato per dire che il problema è insuperabile e che quindi lo si può solo correggere mettendolo nell’agenda delle "privatizzazioni" rispetto al vecchio controllo dello Stato, o nel sistema della "medicalizzazione", dal momento che la diffusione dell’Aids ha nella pratica della prostituzione uno dei suoi veicoli. Sarà anche per questo che il 72 per cento delle donne italiane vuole la riapertura delle case di tolleranza, ammettendo implicitamente l’inevitabilità che i loro uomini frequentino le prostitute, e limitando la preoccupazione al solo fatto che mariti e fidanzati non portino in casa brutte malattie. Certo, di fronte all’inevitabile non resta che cercare i rimedi e la limitazione dei danni. Ma perché la prostituzione è inevitabile? Dal momento che non conosciamo nulla di inevitabile all’infuori della morte, non potremmo incominciare a considerare la prostituzione come un "sintomo", il sintomo del regime sessuale che caratterizza la nostra società? E dico "la nostra" perché, per quanto riguarda le epoche passate, come ci ricorda Lévi-Strauss, gli uomini hanno sempre venduto e comprato le donne, considerandole moneta corrente in ogni paese del mondo, e in particolare in quei paesi dove non esisteva un sistema monetario. E qui già possiamo arrivare a una prima considerazione: dal momento che la prostituzione è uno scambio di sesso contro denaro, perché non cambiare la prospettiva e guardare le cose dal punto di vista del denaro invece che dal punto di vista del sesso? Se è vero infatti che in Italia, stando almeno alle statistiche, su 50 mila persone che si prostituiscono, 25 mila vengono dai paesi dell’Est e dai paesi africani, 15 mila dai paesi sudamericani e solo 5 mila sono italiane, vien da pensare che nei paesi avanzati, dove esiste una maggior libertà di relazioni sessuali, la prostituzione si estinguerebbe se non fosse alimentata dalla fame nel mondo, che è un motore più potente di quanto non sia la voglia di incontri occasionali d’amore. Laddove non è la fame, ma il desiderio di un rapido miglioramento delle proprie condizioni finanziarie, come sembra essere il caso delle italiane che si prostituiscono, anche alla base di questa prostituzione non troviamo il sesso, ma ancora il denaro. Entriamo allora per davvero nella relazione sesso-denaro, e rendiamoci conto che nonostante la nostra emancipazione culturale, il nostro inconscio, molto più pigro della nostra coscienza, continua a considerare, a dispetto delle nostre ammissioni e per effetto di una lunga tradizione culturale e religiosa, il sesso sporco e il denaro volgare, perfetta sintonia tra i due elementi che nell’incontro mercenario trovano il modo di accoppiarsi. La prostituzione quindi come sintomo di una nostra arretratezza inconscia, come rivelatrice di uno stato profondo e non ancora evoluto di concepire la sessualità come pulsione momentanea, autonoma, e perciò slegata da qualsiasi scenario affettivo. Se la sessualità è questa, scrive Georg Simmel, "al desiderio risvegliato istantaneamente, e altrettanto istantaneamente spento che la prostituzione soddisfa, è adatto soltanto l’equivalente in denaro che non lega a nulla, che in linea di principio è disponibile in qualsiasi momento. Il denaro, infatti, una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto. Pagando in denaro ogni cosa è chiusa nel modo più radicale, come si chiude con la prostituta dopo aver raggiunto il soddisfacimento". Di fronte al denaro tutto diventa merce, e l’ideale kantiano secondo cui "l’uomo è da trattare sempre come un fine e mai come un mezzo" trova nella prostituzione, ma forse anche nel matrimonio per interesse, la sua più cruda smentita. Il carattere impersonale, esteriore e oggettivo del denaro, il suo valore assolutamente neutrale e lontano da ogni elemento personale dice che quando un uomo paga una donna le misconosce la sua individualità, le nega la sua specificità, non le riconosce alcuna interiorità sua propria. La considera più come "genere" che come "individuo", in perfetta linea con la tendenza maschile a parlare delle donne al plurale, a giudicarle in blocco, lasciando intendere che ciò che nelle donne desta l’interesse degli uomini è esattamente lo stesso nella cameriera come nella principessa. Si tratta di incontri dove si scambia ciò che vi è di più personale e destinato alla massima riservatezza - il sesso - con l’elemento più impersonale, più neutrale, più lontano da ogni tratto personale che è il denaro. Questo scambio tra il personale e l’impersonale è ciò che crea maggior indignazione e senso di degrado, da cui le prostitute si salvano immediatamente rendendo impersonale la propria sessualità e separandola dal loro cuore. Ne nasce un rapporto senza ieri e senza domani, nella più assoluta non comunicazione, che le mogli e le fidanzate, senza ammetterlo, sono molto più disposte a concedere ai loro uomini di quanto non sarebbero disposte a concedere se si trattasse di una vera storia d’amore. In questo gioco l’unica innocente finisce con l’essere la prostituta che, lungi dall’adescare e dal sedurre, è lì solo a rispecchiare il nostro modo di concepire il sesso, che quando è separato dai sentimenti è paradossalmente ritenuto molto meno pericoloso del sesso coniugato ai sentimenti, come si può ben vedere in ogni rapporto che raramente si chiude per quella che da entrambi viene considerata una scappatella, mentre inesorabilmente si chiude di fronte a una storia d’amore. In tutte le transazioni commerciali chi ha denaro di solito ha più potere rispetto a chi fornisce la merce, e allora la prostituta ha due strategie per veder dipendere da sé chi la guarda dall’alto in basso. La prima è quella di innalzare significativamente il prezzo, in modo che il denaro, oltre una certa soglia, perda la sua indegnità e riveli la sua capacità a compensare valori individuali. Infatti il disprezzo che la buona società riversa sulla prostituta è tanto più forte quanto più essa è miserabile e povera, ma diminuisce significativamente quanto maggiore è il prezzo a cui essa si vende. Il prezzo alto la distingue dal "genere" e la fa riconoscere come "individuo" che, al pari di ogni altro, può mettere in campo la sua specificità e, in termini mercantili, il suo valore di rarità. L’entità della somma compensa la bassezza del principio di pareggiare i valori personali con il più impersonale indicatore di valori che è il denaro. La seconda strategia è quella di ribaltare il significato di quella domanda con cui solitamente si avvia la transazione con le prostitute. "Quanto vuoi?". Come scrive Gianfranco Bettin: "Quanto vuoi di me, quanto vuoi che mi mostri, quanto vuoi che ti restituisca al tuo disamore, che risarcisca della tua delusione e insoddisfazione. Quanto sesso vuoi, magari quanto amore traslato, surrogato, più che solo mercificato. Quanto vuoi sperimentare nel caso di rapporti con transessuali e travestiti?". Ciò che emerge da questo interrogativo è di volta in volta lo specchio della condizione maschile, dove incontriamo chi cerca sulle strade a pagamento quel che non trova nella vita, chi non finisce mai la guerra con i sensi di colpa o con la sua volontà di possedere ciò che, senza denaro, non potrebbe neppure illudersi di sognare, chi è alle prese con storie di solitudini, di impotenze, di desideri e bisogni frustrati, repressi, reticenti, mutilati. "Quanto vuoi?" che io ti renda per la tua erogazione in denaro che vorrebbe comprare ciò che la tua vita non è stata in grado di ottenere? Se vuoi io ti vendo anche l’umiliazione con cui tu, da buon masochista, vorresti umiliarti, obbedendo agli ordini che, dietro tuo ordine, io dovrei darti. Tutto ciò mi fa sospettare che, sotto sotto, quello che vuoi comprare non è il sesso, ma il potere su un altro essere umano, per raggiungere il quale sei disposto persino alla tua degradazione. Non sono da meno quelli che vogliono redimere le prostitute e, mentre le comprano, chiedono loro come possono dare se stesse per denaro. E’una cosa che li disturba, perché in qualche modo si sentono traditi. E allora, ben mascherata, sotto la voglia di redenzione, ciò che lavora è l’antica idea maschile di proprietà, che poi è la meta ultima a cui tende il denaro che passa di mano in mano. In tutto ciò, scrive Kate Millett: "C’è una specie di perfezione. L’uomo trova un credito morale trattando con condiscendenza la prostituta, senza smettere di scopare la puttana, congratulandosi con se stesso per essersi accorto della sua miseria". Il problema a questo punto, non è quello intorno a cui tutti i problemi si affollano, e precisamente se recintare le prostitute in bordelli di Stato o in bordelli privati, provvisti naturalmente di assistenza medica, perché gli uomini che li frequentano possano farlo senza rischio. Il problema è semmai quello di guardare la prostituzione come una cartina di tornasole in cui è possibile scorgere, nell’autodistruttività della prostituta (che alimenta tanto la letteratura quanto l’opinione corrente), nel suo distacco dalla coscienza della propria condizione, il riflesso a tinte forti di quell’arcaica tendenza, assolutamente non estinta nella nostra società "evoluta", che vuole distruggere nelle donne il loro io, il rispetto di se stesse, la loro speranza, il loro ottimismo, la loro immaginazione, la loro sicurezza, la loro volontà, la loro individualità. Tutto ciò non è da mettere in conto, come vuole Freud, al "naturale masochismo femminile", ma a quel meccanismo di adattamento che è facile riconoscere in ogni gruppo oppresso, i cui membri, se non cooperano alla propria oppressione, interiorizzando l’odio e il disprezzo del loro oppressore, finiscono per essere puniti e al limite perire. Questo perverso meccanismo deve richiamare tutta la nostra attenzione. Esso è noto non solo alle prostitute, ma anche alle mogli devote e fedeli.

Repubblica 21.8.04
Fu l’età dei Lumi a condannare la pratica del biblico Onan
La sessualità non è carne , è desiderio e il desiderio quando è voluto per se stesso reca in sé la sua sconfitta La mitologia greca aveva addirittura divinizzato la masturbazione protetta addirittura da Pan David Tissot scrisse due trattati su presunti danni si alimenta soprattutto attraverso la pornografi
UMBERTO GALIMBERTI


Condannata, sublimata, elogiata, la masturbazione, per una sorta di ironia della storia, incrina la venerabilità dell’Età dei Lumi, giustamente considerata età della ragione, che lascia finalmente alle sue spalle il buio dei secoli precedenti oscurati da pregiudizi religiosi e superstiziosi. Fu infatti nell’Età dei Lumi che la masturbazione fu esecrata e messa al bando dalle pratiche umane, condannata alla stregua del suicidio, in un crescendo di intolleranza che non ha confronto con i secoli precedenti. Il tutto a opera di due ancelle: la scienza medica e l’economia sempre pronte a soccorrere con i loro soliti argomenti le debolezze dell’etica. Né il mondo biblico, né il mondo greco hanno tenuto in gran conto la masturbazione, né si sono premurati di condannarla con la precettistica delle rispettive etiche. Il fatto che la masturbazione si chiami anche "onanismo" con riferimento a Onan che, rifiutandosi di procreare in nome di suo fratello, praticava il coitus interruptus, dice solo che questa denominazione è scorretta, come scorretto è riferire la masturbazione a Onan, che il Signore fece perire, non tanto perché spargeva il seme per terra, ma perché, così facendo, rinnegava la legge del matrimonio levitico. Nel mondo greco Ippocrate e Galeno, i grandi medici dell’antichità, inquadrano la masturbazione nella teoria generale degli umori che devono essere, a secondo delle circostanze, ora espurgati ora contenuti, in un contesto dove il liquido seminale non è considerato diversamente dal liquido biliare. La mitologia greca ha addirittura divinizzato la masturbazione mettendola sotto la protezione di Pan, a cui fanno riferimento gli stoici che, pur essendo noti per il loro distacco dalle passioni, non esitano a esaltare la masturbazione come espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. La teologia medioevale con Tommaso D’Aquino condanna la masturbazione come sintomo di rammollimento (mollities) in concorso con le fantasie incestuose o adulterine, ma nulla di più. Fu nel Settecento, con la nascita della scienza medica in senso moderno, che il medico svizzero David Tissot scrive due trattati sulle malattie prodotte dalla masturbazione che sono nell’ordine: disturbi visivi, occhiaie, foruncoli, bulimia, problemi digestivi, tremito alle ginocchia, blefarospasmo, mal di testa, malattie veneree, caduta dei capelli, tisi, mielite e simili. Tra i seguaci entusiasti di Tissot incontriamo Rousseau e Kant per i quali chi si masturba non è dissimile dal suicida che distrugge con un gesto la vita che il masturbatore sacrifica nel tempo. Contemporaneo a Tissot è Johann Georg Zimmerman, medico personale di Federico II che, in un saggio dal titolo Monito a medici, educatori e amici dell’infanzia a proposito dell’obbrobriosa masturbazione segnala la masturbazione femminile "come peggiore di quella maschile" perché meno manifesta anche se ugualmente precoce, dal momento che prende avvio nella primissima infanzia, con buona pace di Freud che un secolo dopo era persuaso di aver scoperto per primo la sessualità infantile. Istruiti dalla scienza medica, tutta una schiera di pedagogisti da Salzmann a Campe mettono a punto una serie di suggerimenti e di pratiche per dominare la masturbazione: giarrettiere per bloccare le mani, letti divisi con paratie elastiche tra il torso e l’addome, infibulazioni e altre strumentazioni che oggi costituiscono il repertorio delle pratiche sadiche. Seguono consigli per l’arredo dei collegi e per l’abbigliamento dei collegiali che prevedono cappotti che non siano troppo lunghi, tavoli che non siano troppo grandi, letti troppo soffici, camere troppo buie, spazi troppo ristretti e segreti, giacché: "cominciamento di ogni vizio è lo star da soli". E così anche la solitudine viene criminalizzata come anticamera del vizio detto appunto "solitario". E tutto ciò in un periodo in cui si dissolve la casa come comunità, perché prende piede, con la borghesia, l’intimità della famiglia nucleare, che concentra nella cornice privata l’intera produzione della dinamica del desiderio erotico con le sue manifestazioni masturbatorie e incestuose. Ma nel Settecento, oltre alla scienza medica e all’intimità della casa borghese, non più comunitaria ma nucleare, nasce anche l’economia nel senso moderno dell’accezione e, rispetto ai parametri economici, la masturbazione è pur sempre uno spreco. Non a caso il dottor Paul Demeaux, specialista in onanismo e tubercolosi, scrive che: "Sperperare il proprio seme è come gettar soldi dalla finestra". E così il secolo dei Lumi, che per Kant segna "l’emancipazione dell’umanità da uno stato di minorità", di fronte alla masturbazione si rivela molto più arretrato, ossessivo e persecutorio di quanto non siano stati i secoli precedenti regolati dalla religione che forse, più della ragione, ha dimestichezza con la carne e con le sofferenze della sua solitudine. E allora congediamoci dalla scienza e dalla morale per perderci nei meandri del desiderio e lì permanere per vedere se mai ci è dato scoprire che il desiderio non è una convulsione della soggettività, qualcosa che blocca l’esistenza e la contrae in un gesto corporeo che chiude al mondo e fa del corpo il nascondiglio della vita. Il desiderio è tensione verso l’altro nel suo sottrarsi e sfuggirmi, nel suo concedersi per un attimo e poi ritrarsi, conservando quell’integrità di un corpo su cui il possesso sembra non aver lasciato traccia. L’uomo, dice la scienza, ha desideri sessuali perché ha un sesso. In realtà è esattamente il contrario perché, come dice Sartre: "Né la turgescenza del pene, né alcun altro fenomeno fisiologico possono spiegare o provocare il desiderio sessuale, più di quanto la vasocostrizione o la dilatazione della pupilla possono spiegare o provocare la paura". La sessualità non è carne, è desiderio. Ciò a cui tende non è l’eiaculazione, ma è l’incontro con l’altro, perché solo desiderando l’altro o sentendomi oggetto di desiderio altrui, io mi scopro come essere sessuato. Il limite della masturbazione è nel modo di vivere il proprio desiderio come apertura o come chiusura all’altro. Nella masturbazione, infatti, il desiderio che non desidera l’altro è un desiderio che non diventa veicolo di trascendenza, ma oggetto della propria immanenza, giocata in quel breve spazio che separa la tensione dalla soddisfazione che la estingue. Quando il desiderio diventa l’oggetto desiderabile, lo si eccita, lo si tiene in sospeso, se ne rimanda la soddisfazione finché non sopraggiunge il gesto che lo spegne, come un soffio di vento spegne un fuoco che non ha trovato ove propagarsi. Ma il desiderio, quando è voluto per se stesso, porta con sé la sua sconfitta. Allontanando la passione per l’altro, per divenire semplice azione sulla carne dell’altro, il desiderio che desidera solo se stesso non riesce mai a trovarsi a contatto con un corpo, ma sempre e solo di fronte a una carne che, incarnata, lo estingue con quel piacere che è ad un tempo l’oggetto del desiderio e la sua irrimediabile sconfitta. E’un piacere indiviso perché non condiviso. E’un compimento che non lascia sulla pelle, sulle labbra il sapore dell’altro, ma porta con sé solo il sapore della fine. Un gioco di morte invece che un gioco d’amore; un gioco di solitudine, dove lo spazio per la con-versione all’altro è stato derubato dalla propria per-versione. Perverso è ogni amore che si vive senza reciprocità, quindi senza la possibilità per il corpo di trascendersi in un altro corpo. E’quell’amore generato e contraddetto da quella passione inutile che spinge una coscienza a ritenersi assoluta, al punto da non desiderare altro che il proprio desiderio. E’un amore che mentre progetta di asservire l’altro, di ridurlo a oggetto dei propri desideri, fa solo la parodia della propria castrazione, che ha tutto della pulsione di morte. Qui non vogliamo ripetere Sartre nella suggestiva descrizione delle perversioni, vogliamo semplicemente dire che tutte le perversioni, nella misura in cui sottraggono all’altro la sua soggettività, per ridurlo alla pura opacità della sua carne, giocano con la morte, dove la soggettività si estingue e il corpo si raggela nell’immobilità della carne. Siamo alla pornografia di cui la masturbazione si alimenta. Allucinante per il gusto dei dettagli, purgata di ogni segreto a forza di segni troppo esatti, la pornografia spoglia il corpo di tutti i suoi rinvii, per lasciarlo alla pura concupiscenza dello sguardo, dove la prossimità assoluta, la presenzialità totale di un corpo senza difesa, senza spazio per arretrare, decreta la fine dell’interiorità e dell’intimità, il crollo di tutte le metafore e di tutte le allusioni che, materializzate, sprofondano nell’opacità del reale. Come uno schermo assorbente, il reale, nella sua evidenza estingue il desiderio e, sottraendolo al gioco duale, lo ricaccia nei giochi estatici, solitari, narcisistici, dove l’oggetto non è più l’altro, ma il ripiegamento del desiderio su se stesso, nel tracciato malinconico della sua delusione.

Repubblica 14.8.04
Quelle pulsioni distruttive che sono dentro di noi
Le differenze tra i sessi e tra le generazioni vengono abolite e nell’universo caotico trionfa l’onnipotenza Dall’esibizionismo al voyeurismo al sadomasochismo le forme della sessualità che negano l’altro L’aspirazione di rompere ogni principio d’ordine un legame stretto tra l’erotismo e la morte
UMBERTO GALIMBERTI


Dall’esibizionismo al voyeurismo, dal feticismo al travestitismo, dal sadomasochismo alla pedofilia, le perversioni, per il comune sentire, hanno sempre avuto una connotazione negativa che segnala la deviazione, il degrado, l’aberrazione, il ribrezzo, la ripugnanza, lo schifo. Non varrebbe quindi la pena di parlarne in questa sequenza di articoli dedicata all’amore, se Freud non smontasse questo luogo comune con un’affermazione a prima vista sconvolgente: "L’onnipotenza dell’amore forse non si rivela mai con tanta forza come in queste sue aberrazioni". L’interpretazione che Freud dà della perversione è nota. Essa, a differenza della nevrosi, non nasce dal conflitto tra le pulsioni inconsce e i divieti del Super-io, ma dal "misconoscimento delle differenze" che il bambino acquisisce quando, nella fase edipica, apprende di non possedere un organo sessuale adeguato come quello del padre, e quindi di non essere un partner adeguato per la madre. Per effetto di questo riconoscimento, il bambino individua la differenza tra i sessi e, insieme, la differenza tra le generazioni, che invece la perversione misconosce, generando un universo caotico, dove ogni pulsione si muove per suo conto, senza raggiungere l’organizzazione genitale. Ce ne dà un esempio il marchese De Sade ne Le centoventi giornate di Sodoma, dove uomini e donne, bambini e vecchi, vergini e prostitute, suore e maîtresse, madri e figli, padri e figlie, fratelli, sorelle, zii e nipoti, nobili e plebei "saranno tutti mischiati, tutti stravaccati su cuscini, in terra e a mo’degli animali, si cambierà, si farà incesto, adulterio, sodomizzando". Qui ogni differenza sessuale è cancellata, ogni differenza generazionale è abolita, ogni barriera che separa l’uomo dalla donna, l’adulto dal bambino, il fratello dalla sorella cade, per poter tornare a quel caos originario che annienta l’universo delle differenze. Per questo Noirceuil, un personaggio de L’histoire de Juliette, può dire: "Desidero sposarmi due volte nello stesso giorno: alle 10 di mattina mi vestirò da donna e sposerò un uomo; a mezzogiorno mi vestirò da uomo e sposerò un omosessuale travestito da donna. In più voglio che una donna faccia le stesse cose: e quale altra donna se non tu potrebbe indulgere a queste fantasie? Devi vestirti da uomo e sposare una donna nella stessa cerimonia nella quale io vestito da donna sposerò un uomo; e poi tu come donna sposerai un’altra donna travestita da uomo, mentre io, indossati gli abiti che si confanno al mio sesso, sposerò, come uomo, un omosessuale vestito da ragazza". L’aspirazione del perverso è quella di raggiungere uno stato di completa mescolanza, dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione, dove è abolito l’universo delle differenze da cui prende avvio ogni principio d’ordine. Così almeno parla la tradizione giudaico-cristiana che fa nascere il mondo dalla "separazione" della luce dalle tenebre, ma così parla anche la tradizione greca quando individua nella "hybris", nella tracotanza, nell’eccesso, la colpa più grande che ci espone alla minaccia dell’"ibrido", dove tutto si mescola nella cancellazione di ogni differenza. Contro questo rischio ci difende la legge che gli antichi greci chiamavano nomos che letteralmente significa "ciò che è diviso in parti", come in parti è divisa la terra, affinché a ciascuno sia assegnata la sua "regione" (in greco nomos, con l’accento sulla seconda sillaba). Misconoscendo le differenze, il perverso non riconosce la legge e il limite che dalla legge deriva. La sua tensione è volta all’eccesso. Non è la soddisfazione sessuale in cima al suo desiderio, ma, come dice Freud, la celebrazione della sua onnipotenza, che trova forma nella negazione dell’altro, o come dice Franco De Masi in un suo saggio sulla perversione pubblicato ne I concetti del male (Einaudi), nella "degradazione dell’oggetto d’amore che trasforma la persona in una cosa". Ne deriva quella che Blanchot chiama: "La morale della solitudine assoluta" tipica del perverso. L’isolamento morale comporta l’annullamento dei freni che il rispetto degli altri ci impone, impedendoci un atteggiamento "onnipotente" come dice Freud o "sovrano" come dice Bataille. Chi si dedica agli altri non è sovrano, perché in cuor suo ritiene di aver bisogno di loro. Sovrano è chi sa di essere solo e accetta di esserlo. Non si tratta di una solitudine malinconica, perché, scrive Blanchot: "Tutto ciò che nel perverso si riferisce agli altri, egli lo nega. Per esempio: la pietà, la gratitudine, l’amore, tutti sentimenti che egli distrugge e, distruggendoli, egli recupera tutta la forza che avrebbe dovuto consacrare a tali impulsi e, cosa ancor più importante, ricava da questo lavoro di distruzione il principio di una vera energia". Un’energia non compromessa né incrinata dalla sensibilità per gli altri, per cui il perverso non compie il crimine in un raptus di follia come si è soliti credere, ma a sangue freddo. Si tratta di un crimine cupo e segreto, perché è l’atto di chi, avendo distrutto ogni forma d’amore e dedizione dentro di sé, ha accumulato una forza immensa che si rende visibile nella distruzione che prepara. Il perverso, infatti, ride della mediocrità delle voluttà a cui solitamente si concedono gli uomini, e ciò di cui gode non è il piacere che deriva dalla sessualità, ma della sessualità portata a quel limite oltre il quale c’è l’incontro con la morte. Qui l’insensibilità del perverso si fa fremito che pervade l’intero suo essere, perché, scrive Bataille: "E’entrato in quel gioco che lega l’erotismo alla morte". Se la perversione è la negazione della vita, non c’è società che possa accoglierla al suo interno neppure per un istante. E infatti le società sono nate separandosi dal principio della distruzione che Freud chiama "pulsione di morte" rintracciabile in ogni perversione, e che, prima di Freud, l’umanità ha sempre conosciuto e chiamato col nome di "sacro". "Sacro" è parola indoeuropea che significa "separato". Maledetto nella comunità degli uomini, il sacro, con tutto il suo corredo di trasgressioni divine, di pratiche sessuali proibite, di forme di violenza e di brutalità, che ogni mitologia ospita senza vergogna e senza ritegno, diventa benedetto quando è trasferito all’esterno. Con questa espulsione l’uomo è strappato alla sua violenza che, divinizzata, è posta al di là dell’umano come entità separata, come cosa che riguarda gli dèi. Per questo i riti sacrificali, officiati da tutte le religioni, compresa la religione cristiana, assomigliano così da vicino alle proibizioni che interdicono. "La religione infatti, come scrive Bataille, non è altro che la spiegazione di fatto di un’aberrazione" che l’uomo sente come costitutiva della sua natura, e mentre assegna al perverso il compito di rappresentarla senza ritegno, non si lascia neppure sfiorare dall’idea che forse il perverso non è altro che l’eccesso di ciò che noi siamo. Questa mancanza di consapevolezza è quella che fa ritenere noi "civili" e gli altri "selvaggi", noi "ragionevoli" e gli altri "violenti", ma la civiltà sa quanta barbarie al suo interno deve contenere, così come la ragione sa quanta violenza ogni giorno deve comprimere. Se si evita questa consapevolezza, proiettando all’esterno la sregolatezza che ci costituisce, questa non può che esplodere devastandoci, perché abbiamo evitato alla nostra coscienza di aprirsi a ciò che più profondamente la disgusta, e soprattutto le abbiamo impedito di riconoscere che ciò che più profondamente la disgusta è dentro di noi, come sfondo pre-umano da cui un giorno ci siamo emancipati, ma non per sempre e soprattutto mai definitivamente. In questo senso diciamo che amore, se vuole essere all’altezza della sua verità più sincera, forse deve amare anche il disgusto, anche la sregolatezza, anche la perversione che, dice Freud: "Opportunamente sublimata, è destinata a fornire le energie per gran parte dei nostri contributi alla civiltà". Ne sono testimoni gli artisti e i poeti che, per creare, attingono al caos primitivo, dove non c’è regola, non c’è legge, non c’è riconoscimento della differenza, ma restaurazione simbolica di quell’indifferenziato che precedeva la creazione, e a cui forse bisogna attingere perché prenda vita un nuovo genere di realtà, al di là di quella esistente che più non affascina e non richiama amore.
l ribrezzo, la ripugnanza, lo schifo. Non varrebbe quindi la pena di parlarne in questa sequenza di articoli dedicata all' amore, se Freud non smontasse questo luogo comune con un' affermazione a prima vista sconvolgente: «L' onnipotenza dell' amore forse non si rivela mai con tanta forza come in queste sue aberrazioni». L' interpretazione che Freud dà della perversione è nota. Essa, a differenza della nevrosi, non nasce dal conflitto tra le pulsioni inconsce e i divieti del Super-io, ma dal «misconoscimento delle differenze» che il bambino acquisisce quando, nella fase edipica, apprende di non possedere un organo sessuale adeguato come quello del padre, e quindi di non essere un partner adeguato per la madre. Per effetto di questo riconoscimento, il bambino individua la differenza tra i sessi e, insieme, la differenza tra le generazioni, che invece la perversione misconosce, generando un universo caotico, dove ogni pulsione si muove per suo conto, senza raggiungere l' organizzazione genitale. Ce ne dà un esempio il marchese De Sade ne Le centoventi giornate di Sodoma, dove uomini e donne, bambini e vecchi, vergini e prostitute, suore e maîtresse, madri e figli, padri e figlie, fratelli, sorelle, zii e nipoti, nobili e plebei «saranno tutti mischiati, tutti stravaccati su cuscini, in terra e a mo' degli animali, si cambierà, si farà incesto, adulterio, sodomizzando». Qui ogni differenza sessuale è cancellata, ogni differenza generazionale è abolita, ogni barriera che separa l' uomo dalla donna, l' adulto dal bambino, il fratello dalla sorella cade, per poter tornare a quel caos originario che annienta l' universo delle differenze. Per questo Noirceuil, un personaggio de L' histoire de Juliette, può dire: «Desidero sposarmi due volte nello stesso giorno: alle 10 di mattina mi vestirò da donna e sposerò un uomo; a mezzogiorno mi vestirò da uomo e sposerò un omosessuale travestito da donna. In più voglio che una donna faccia le stesse cose: e quale altra donna se non tu potrebbe indulgere a queste fantasie? Devi vestirti da uomo e sposare una donna nella stessa cerimonia nella quale io vestito da donna sposerò un uomo; e poi tu come donna sposerai un' altra donna travestita da uomo, mentre io, indossati gli abiti che si confanno al mio sesso, sposerò, come uomo, un omosessuale vestito da ragazza». L' aspirazione del perverso è quella di raggiungere uno stato di completa mescolanza, dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione, dove è abolito l' universo delle differenze da cui prende avvio ogni principio d' ordine. Così almeno parla la tradizione giudaico-cristiana che fa nascere il mondo dalla «separazione» della luce dalle tenebre, ma così parla anche la tradizione greca quando individua nella «hybris», nella tracotanza, nell' eccesso, la colpa più grande che ci espone alla minaccia dell' «ibrido», dove tutto si mescola nella cancellazione di ogni differenza. Contro questo rischio ci difende la legge che gli antichi greci chiamavano nomos che letteralmente significa «ciò che è diviso in parti», come in parti è divisa la terra, affinché a ciascuno sia assegnata la sua «regione» (in greco nomos, con l' accento sulla seconda sillaba). Misconoscendo le differenze, il perverso non riconosce la legge e il limite che dalla legge deriva. La sua tensione è volta all' eccesso. Non è la soddisfazione sessuale in cima al suo desiderio, ma, come dice Freud, la celebrazione della sua onnipotenza, che trova forma nella negazione dell' altro, o come dice Franco De Masi in un suo saggio sulla perversione pubblicato ne I concetti del male (Einaudi), nella «degradazione dell' oggetto d' amore che trasforma la persona in una cosa». Ne deriva quella che Blanchot chiama: «La morale della solitudine assoluta» tipica del perverso. L' isolamento morale comporta l' annullamento dei freni che il rispetto degli altri ci impone, impedendoci un atteggiamento «onnipotente» come dice Freud o «sovrano» come dice Bataille. Chi si dedica agli altri non è sovrano, perché in cuor suo ritiene di aver bisogno di loro. Sovrano è chi sa di essere solo e accetta di esserlo. Non si tratta di una solitudine malinconica, perché, scrive Blanchot: «Tutto ciò che nel perverso si riferisce agli altri, egli lo nega. Per esempio: la pietà, la gratitudine, l' amore, tutti sentimenti che egli distrugge e, distruggendoli, egli recupera tutta la forza che avrebbe dovuto consacrare a tali impulsi e, cosa ancor più importante, ricava da questo lavoro di distruzione il principio di una vera energia». Un' energia non compromessa né incrinata dalla sensibilità per gli altri, per cui il perverso non compie il crimine in un raptus di follia come si è soliti credere, ma a sangue freddo. Si tratta di un crimine cupo e segreto, perché è l' atto di chi, avendo distrutto ogni forma d' amore e dedizione dentro di sé, ha accumulato una forza immensa che si rende visibile nella distruzione che prepara. Il perverso, infatti, ride della mediocrità delle voluttà a cui solitamente si concedono gli uomini, e ciò di cui gode non è il piacere che deriva dalla sessualità, ma della sessualità portata a quel limite oltre il quale c' è l' incontro con la morte. Qui l' insensibilità del perverso si fa fremito che pervade l' intero suo essere, perché, scrive Bataille: «E' entrato in quel gioco che lega l' erotismo alla morte». Se la perversione è la negazione della vita, non c' è società che possa accoglierla al suo interno neppure per un istante. E infatti le società sono nate separandosi dal principio della distruzione che Freud chiama «pulsione di morte» rintracciabile in ogni perversione, e che, prima di Freud, l' umanità ha sempre conosciuto e chiamato col nome di «sacro». «Sacro» è parola indoeuropea che significa «separato». Maledetto nella comunità degli uomini, il sacro, con tutto il suo corredo di trasgressioni divine, di pratiche sessuali proibite, di forme di violenza e di brutalità, che ogni mitologia ospita senza vergogna e senza ritegno, diventa benedetto quando è trasferito all' esterno. Con questa espulsione l' uomo è strappato alla sua violenza che, divinizzata, è posta al di là dell' umano come entità separata, come cosa che riguarda gli dèi. Per questo i riti sacrificali, officiati da tutte le religioni, compresa la religione cristiana, assomigliano così da vicino alle proibizioni che interdicono. «La religione infatti, come scrive Bataille, non è altro che la spiegazione di fatto di un' aberrazione» che l' uomo sente come costitutiva della sua natura, e mentre assegna al perverso il compito di rappresentarla senza ritegno, non si lascia neppure sfiorare dall' idea che forse il perverso non è altro che l' eccesso di ciò che noi siamo. Questa mancanza di consapevolezza è quella che fa ritenere noi «civili» e gli altri «selvaggi», noi «ragionevoli» e gli altri «violenti», ma la civiltà sa quanta barbarie al suo interno deve contenere, così come la ragione sa quanta violenza ogni giorno deve comprimere. Se si evita questa consapevolezza, proiettando all' esterno la sregolatezza che ci costituisce, questa non può che esplodere devastandoci, perché abbiamo evitato alla nostra coscienza di aprirsi a ciò che più profondamente la disgusta, e soprattutto le abbiamo impedito di riconoscere che ciò che più profondamente la disgusta è dentro di noi, come sfondo pre-umano da cui un giorno ci siamo emancipati, ma non per sempre e soprattutto mai definitivamente. In questo senso diciamo che amore, se vuole essere all' altezza della sua verità più sincera, forse deve amare anche il disgusto, anche la sregolatezza, anche la perversione che, dice Freud: «Opportunamente sublimata, è destinata a fornire le energie per gran parte dei nostri contributi alla civiltà». Ne sono testimoni gli artisti e i poeti che, per creare, attingono al caos primitivo, dove non c' è regola, non c' è legge, non c' è riconoscimento della differenza, ma restaurazione simbolica di quell' indifferenziato che precedeva la creazione, e a cui forse bisogna attingere perché prenda vita un nuovo genere di realtà, al di là di quella esistente che più non affascina e non richiama amore.

Repubblica 4.8.04
Ai tempi del desiderio quel che resta della vergogna L'invasione dei media rende pubblici i sentimenti attraverso sondaggi, statistiche, confessioni in diretta Nella società di massa sottrarre agli individui la loro intimità vuol dire gestirli più comodamente il fascino di una discrezione che è identità l'angoscia di essere funzionari della specie
UMBERTO GALIMBERTI


Dio non ha pudore perché non ha corpo. L'animale non ha pudore perché non ha il senso della propria individualità. L'uomo, che ha corpo e individualità, esprime nel pudore la dialettica contrastante di queste due dimensioni che così intimamente lo costituiscono e lo lacerano. Ciascuno di noi, infatti, ospita due soggettività. Una che dice «Io», con cui siamo soliti identificarci, e una che ci prevede «funzionari della specie» per la sua continuità. Amore, che gioca sul doppio registro della nostra soggettività, prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro io, ciò che intimamente ci costituisce e ci individua e, contro la sessualità generica e non individuata, erge la barriera del pudore. Per questo le prostitute non baciano i clienti. Pur nell'offerta incondizionata del loro corpo, esse sanno di non essere cercate e volute nella loro individualità, e perciò tengono distinta la sessualità che cerca il piacere (con cui la specie adesca l'individuo per garantire la propria continuità) dalla sessualità che cerca l'individuo nella sua unicità inconfondibile. La stessa cosa può dirsi per quell'uomo o per quella donna che rifiutano di essere amati come qualsiasi altro uomo o qualsiasi altra donna. Nel loro rifiuto è il pudore a ergersi come criterio estremamente preciso per misurare la dinamica dei due tipi di sessualità: la sessualità promossa dalle esigenze della specie che non riconosce l'individuo, e la sessualità promossa dall'individuo che vuole l'altro individuo e nessun altro. Se così stanno le cose, allora possiamo dire che il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di naufragare nella genericità animale e, rinunciando a se stesso, percepirsi come semplice funzionario della specie. Non è quindi vero che il pudore limita la sessualità, il pudore la individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere nel misconoscimento dell'individuo. Per questo c'è un rifiuto a concedersi sessualmente finché l'amore non è certo e provato. E questo soprattutto nella donna, in cui il legame con il corpo e con la pulsione riproduttiva è più forte di quanto non lo sia nell'uomo. E quindi più incerto il confine del riconoscimento di sé come quella certa individualità da non confondere con le altre. Il pudore allora non è una faccenda di vesti, sottovesti o intimo abbigliamento, ma una sorta di vigilanza dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l'altro. Si può infatti essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all'altro neppure una fessura della propria anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla sulla nostra disponibilità all'altro. Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti e dallo sguardo degli altri irrimediabilmente oggettivati, il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri. E qui l'intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che se «essere in intimità con un altro» significa «essere irrimediabilmente nelle mani dell'altro», nell'intimità occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si dissolva quel mistero che, interamente svelato, estingue non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità che a quel punto non è più disponibile neppure per noi. Adamo ed Eva, che si aggiravano nel paradiso terrestre in ingenua nudità, non appena gustarono il pomo della sapienza: «s'accorsero di essere nudi e ne provarono vergogna». E'una vergogna che non nasce dalla nudità del loro corpo, ma dallo sguardo di Dio che li mette a nudo. Erano nudi. Ma solo dopo quello sguardo divennero nudi e perciò si nascosero e fuggirono. Il pudore, infatti, non difende il corpo dalla sua nudità, che ricorda all'uomo la sua parentela animale, ma dall'oggettività a cui è ridotto quando uno sguardo, investendolo, lo priva della sua soggettività. Il pudore, allora, è la rivolta del corpo contro la perdita della propria soggettività, e le vesti sono la difesa concreta contro questa minaccia. Il desiderio sessuale, infatti, non conosce incontri, non induce a ridurre la propria soggettività per creare lo spazio indispensabile all'apparizione della soggettività altrui. Il desiderio conosce solo la saturazione per possesso. Nel suo sguardo non ci sono le tracce di un'attesa, ma la smaniosa concupiscenza di incontrare nell'altro solo se stesso, per cui, se spoglia un corpo, è per possederne la carne, è per sottrargli, con le vesti, ogni traccia di soggettività che lo sguardo di desiderio, a differenza dello sguardo d'amore, non sa fronteggiare. Chiuso nella sua solitudine, lo sguardo di desiderio si satura di quelle immagini ossessive e pesanti che solo i corpi, spogliati dalle loro vesti e dalla grazia dei loro gesti, offrono come inerzia della carne. Di qui la rivolta del pudore, o come scrive Hegel: «L'inizio di quell'ira per qualcosa che non deve essere». Ciò che il pudore difende, infatti, non è lo spirito dalla volgarità del corpo, ma la vita del corpo dall'inerzia della carne, la soggettività di un corpo vivente dalla penosa oggettivazione di una carne posseduta. Ma il pudore, non è un sentimento esclusivamente sessuale. Il pudore ha anche una valenza sociale che si pone a difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato che, nelle società come le nostre è il mezzo più efficace per sottrarre agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati «propri» che resistono all'omologazione che, nelle nostre società di massa, è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui. Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono in modo indiscreto nella parte più discreta dell'individuo, per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d'opinioni, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d'amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua intimità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di «spudoratezza» che vengono acclamati come espressioni di «sincerità». Avviene così quell'omologazione dell'intimo a cui tendono tutte le società conformiste con somma gioia di chi le deve gestire perché, una volta pubblicizzata, l'intimità viene dissolta come intimità, e con essa la nostra soggettività segreta e la nostra libertà nella relazione con l'altro. Quando infatti cadono le pareti che difendono il dentro dal fuori, l'interiorità dall'esteriorità, l'anima di ciascuno di noi viene in un certo modo depsicologizzata, e a questa depsicologizzazione ciascuno di noi oggi collabora attivamente con l'estensione spudorata di sé. Ma la spudoratezza, ormai, nel nostro tempo è diventata una virtù. Non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi, ed esser pronti, mani alla chiusura lampo, per interviste, pubbliche confessioni, rivelazioni dell'intimità, passa nel nostro tempo come espressione di sincerità e il pudore come sintomo di insincerità, quando addirittura, soprattutto con l'aiuto degli psicologi, non diventa anche sintomo di introversione, di chiusura in se stessi, quindi di inibizione e repressione. Ma inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia, sono a loro volta sintomi di un adattamento sociale frustrato, quindi il pudore finisce con l'apparire come espressione di una socializzazione fallita. E così la nostra «vita», quella intima, quella segreta, quella difesa dal pudore, minaccia di diventare proprietà comune, come lo è già diventato il «corpo», se è vero che quel che un tempo era prerogativa di alcune dive, farsi misurare seni e sederi e pubblicare le relative cifre sotto la fotografia, oggi è il gioco di qualsiasi ragazzina che non vuol passar per inibita. La stessa cosa può essere detta per il «sesso», a cui senza sosta si dedicano articoli e servizi per conoscere i piaceri e le difficoltà della camera da letto. Si tratta di articoli e servizi redatti sotto forma di consigli, in modo confidenziale, come se fossero rivolti solo a te, e non a un milione di orecchie avide di sapere quel che da sé non sanno più scoprire. Ma quando le istanze del conformismo e dell'omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per togliere di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento, per non permettere ad alcuno di vivere e lavorare in case e uffici che non siano di vetro, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di sincerità se non addirittura di salute psichica, allora, come vuole l'espressione di Heidegger: «Il terribile è già accaduto» perché il terribile è l'omologazione totale della società fin nell'intimità dei singoli individui. Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore: non solo per sottrarre la sessualità a quella genericità in cui si celebra il piacere nel misconoscimento dell'individuo, ma anche e soprattutto per sottrarre l'individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi rischia di perdere il proprio nome.