mercoledì 6 ottobre 2004

Cogne

La Stampa 6.10.04
COGNE, PARLA IL «SOSPETTO» INDICATO DAI LEGALI DELLA FRANZONI
«Io, assassino virtuale del piccolo Samuele»
E’ un uomo sulla quarantina, gentile e col sorriso triste, si dice allibito
«Mi hanno preso le impronte, mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo»
«Perché mi hanno scelto? Sono solo, per loro ero un soggetto adatto»

E’ il sorriso più dolente che si possa incontrare. È il sorriso di una persona stanca, esasperata, stupefatta e che si sforza a ogni costo di essere gentile. Quest'uomo sulla quarantina è uno degli «assassini virtuali» di Samuele Lorenzi.
«Assassini virtuali» perché i loro nomi sono entrati in un troncone nuovo di inchiesta dopo che l'avvocato Carlo Taormina ha consegnato alla magistratura il suo dossier di investigazioni alternative a quelle dei giudici aostani. Una sera l'hanno avvertito: «Domani deve essere in caserma per le impronte digitali e palmari». Lui e altri tre o quattro in mezzo a 25 nomi che comprendono le persone più diverse. Non ha mai voluto parlare con i giornalisti. Ora ha detto «va bene». Ha guardato con noi l'intervista di Anna Maria Franzoni nella trasmissione «L'Antipatico».
Parla di quella lista come di una lugubre rosa, forse con qualche petalo che sporge di più, messo più in evidenza. Lui è uno di quei petali più lunghi. Ripensa alla Franzoni come è apparsa in tv e alla sua vicenda. Commenta a voce bassa: «Mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo».
Ci racconta com’è andata? «Era la sera del 18, intorno alle sei. Ero a casa. Squilla il cellulare: siamo i carabinieri, scenda che dobbiamo notificarle un documento. Sono sceso, erano in due, in borghese, molto gentili. Mi hanno dato questo foglio».
È un «verbale di relata notifica» a persona «interessata». Non spiega nulla. Lui domanda a che cosa si fa riferimento: «Al delitto di Cogne», rispondono. «Mi è crollato un pezzo di monte Bianco in testa. Che c'entravo io? La mattina dopo vado in caserma. Era come alla mutua: prima la tornata delle nove, poi quella delle undici. Un andirivieni».
Tutta gente che si conosce, uomini e donne di Cogne e non solo, 25 in tutto, tra loro tutti i soccorritori entrati nella villetta e poi la gente più disparata. È interessante quella sfilata, ci sono persone stupefatte. Leggendo bene l'elenco viene fuori un ventaglio a 360 gradi. È facile dividerli per gruppi: uno è quello dei soccorritori, un altro è quello di chi fin dal primo giorno ha gridato all'innocenza di Anna Maria, il terzo è di uomini con un minimo comun denominatore, cioé la solitudine, la vita un pò difficile, il carattere a volte scontroso seppur più spesso con il sorriso indifeso.
Continua il racconto: «Mi prendono queste impronte e mi mandano a casa. Dopo qualche giorno ritornano e mi riportano in caserma. Sempre educati, gentili. Vogliono sapere dov'ero quella mattina. Il Bianco mi è caduto addosso tutto intero. Sa che cosa vuol dire capire che ti pensano capace di una cosa del genere? È indescrivibile, è atroce.
Vogliono sapere dov'ero. Mi salva l'elicottero che non ha potuto salvare Samuele, perché mi ricordo della polvere che ha alzato tutto intorno, mi ricordo che l'ho visto virare sul prato di Sant'Orso. E allora mi ricordo anche che ero a lavorare da prima delle otto, come è dimostrato. Loro vogliono sapere dove abitavo a quell'epoca e io lo dico. A quel punto il maresciallo mi dice addio. Metto in moto e me ne vado. Pensi che io quello che era successo lo venni a sapere soltanto alle undici e mezza».
In quella casa ci è mai stato? «No. Mai messo piede». E Anna Maria la conosceva, le piaceva, la seguiva? «L'ho vista qualche volta. Un bel tipo, ma non il mio tipo, non mi interessava. Vedevo più spesso Stefano e devo dire che l'ho visto come un ottimo padre, attento, amorevole».
Perché lei tra i possibili colpevoli? «Perché io? Perché sono una persona sola, i miei sono morti quando ero piccolo. Ho cominciato a lavorare a 14 anni e me la sono sempre cavata. Vuol sapere perché mi hanno messo in mezzo? Perché faccio parte dei soggetti più adatti. Ringrazio la procura e i carabinieri per come hanno lavorato, per il rispetto che hanno mantenuto. Perché non si gioca con i sentimenti, non si gioca su un bambino ucciso, non si gioca e basta».