giovedì 4 novembre 2004

Franz Kafka

Repubblica 4.11.04
Una risposta alle questioni che lo avevano torturato
Gli "Aforismi di Zürau" un capolavoro trascurato
Lo scrisse nella campagna boema tra il 1917 e il 1918. Non un vero diario, ma raccontini, apologhi, battute, riflessioni: quei fogli sono di gran lunga il più importante libro di pensiero concepito nel ventesimo secolo Il linguaggio accenna, allude e soprattutto nasconde, come nei mistici
Non aveva bisogno di ricordare le cause della tubercolosi, le insonnie, le tensioni che l'avevano sconvolto
Si sentiva un fallito in tutto, innanzitutto nella letteratura ma anche nella vita privata e in società
Una notte assistette alla sommossa muta e rumorosa del popolo spaventevole dei topi che durò fino al mattino
di PIETRO CITATI

Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1917, Kafka ebbe il primo sbocco di sangue. Erano le quattro del mattino: si svegliò, meravigliandosi della strana quantità di saliva in bocca: la sputò; e, quando si decise ad accendere la luce, vide sul fazzoletto la grande macchia rossa. Pensò che avrebbe continuato così tutta la notte, fino a dissanguarlo lentamente. Si alzò agitato dal letto, andò alla finestra, guardò fuori, girò per la camera, si avvicinò al lavabo, si mise a sedere sul letto - sangue, sempre sangue. Infine cessò quasi all´improvviso; e, subito, visto che era stata emanata la sentenza definitiva ed era inutile discuterla, Kafka si addormentò come non aveva mai dormito negli ultimi tre anni.
Non aveva bisogno di ricordare le cause della tubercolosi: le incessanti insonnie, i mali di testa, le febbri, le spaventose tensioni di nervi, che l´avevano sconvolto nei cinque anni di fidanzamento con Felice. Ormai era abituato a leggere tutti gli eventi della sua vita come una tessitura simbolica, di cui era il centro involontario. Sulla scena della sua esistenza, avevano combattuto tra loro il mondo - Felice ne era la rappresentante - e il suo Io: o due parti del suo Io - quello buono, che voleva sposare Felice, e quello cattivo, che non voleva sposarla. L´io buono era rimasto sconfitto. E ora, debole, stanco, quasi dissanguato, si appoggiava invisibile sulle spalle di lei, e guardava sconfortato il grande uomo cattivo che cominciava a commettere le sue volgarità. Kafka ribadiva: «Io non guarirò mai. Appunto perché non è tubercolosi, che messa su una sedia a sdraio si possa sanare, ma un´arma, la cui estrema necessità rimane fin tanto che io vivo. E tutti e due non possono rimanere in vita».
Il gioco dei simboli conduceva sempre più in alto, verso quell´Altro, quel principio tenebroso-luminoso da cui dipendeva la sua vita. Come in molti interventi dell´Altro, egli sentiva in questo qualcosa di dolce, ma anche di estremamente semplice e grossolano. Era tutto lì, egli pensava? L´intervento divino non era altro che uno sbocco di sangue, una macchia rossa sul fazzoletto? La malattia prendeva ai suoi occhi una strana aria protettiva e materna. «Oggi ho verso la tubercolosi l´atteggiamento che ha il bambino verso le pieghe della gonna materna alla quale si aggrappa». Voleva guarire: ma voleva anche il contrario - scomparire definitivamente, sotto le percosse nascoste inviategli da Dio.
I sintomi della malattia non lo preoccupavano. Scrisse a Max Brod che «quasi non la sentiva». Non aveva febbre, non tossiva molto, non aveva dolori. Aveva il fiato corto - è vero - ma se stava coricato o seduto non se ne accorgeva; e quando camminava o faceva qualche lavoro, lo sopportava facilmente. «Respiro con velocità doppia, ecco tutto, non è un disturbo considerevole. Sono arrivato alla conclusione che la tubercolosi, come ce l´ho io, non è una malattia particolare, un male degno di un nome speciale, ma soltanto una maggiore intensità, per ora non valutabile nella sua importanza, del germe generale della morte». Aumentò di peso: un chilo in una settimana, due chili e mezzo in tre settimane. Scherzava senza letizia sulle diagnosi dei medici. Dopo la prima visita avevano detto che era quasi interamente sano: dopo la seconda che stava persino meglio, poi ci fu un po´ di catarro bronchiale a sinistra, più tardi tubercolosi a destra e a sinistra che però sarebbe guarita a Praga presto e completamente, e infine poteva perfino aspettare, ma soltanto un giorno, un sicuro miglioramento. Aveva l´impressione che gli altri fossero diventati improvvisamente troppo buoni con lui.
Gli sembrava che i medici e gli amici volessero nascondere con le spalle l´angelo della morte, che stava dietro di lui, e poi si tirassero da parte a mano a mano. Egli non aveva paura dell´angelo della morte; e questo era un segno che stava rapidamente abbandonando la vita e le sue seduzioni. Con un´amara ironia accettava la morte, che faceva un passo ogni giorno, nella sua salute apparente. Mentre gli altri vedevano un passato, un presente e un futuro, lui non vedeva più niente: gli pareva di essere qualcosa di buio che correva a precipizio nel buio; e a volte gli sembrava di non essere nemmeno nato. «Se potessi salvarmi come il pipistrello scavando buche, scaverei buche». Max Brod lo rimproverò di essere «felice nell´infelicità». Il rimprovero lo colpì. Quasi con le stesse parole, rispose a Max e a Felice che «essere felici nell´infelicità (che significava anche essere "infelici nella felicità") era stata probabilmente la sentenza impressa in fronte a Caino». Anche lui portava in fronte il segno di Caino? Sia con Max sia con Felice, protestava di no: eppure si accusava di non aver saputo conoscere la felicità che gli era stata affidata, e di godere delle proprie sventure.
* * *
Non gli restava che lasciare Felice. Il 21 settembre, quando lei venne a trovarlo, Kafka ebbe l´impressione che la tubercolosi fosse l´ultima arma che aveva escogitato per torturarla. «Io ho commesso il male per cui viene torturata, e oltre a questo faccio il servente allo strumento di tortura». La allontanò da sé, con un gesto; e come disse qualche giorno dopo, recitò la commedia: «La scena che vedevo... era troppo infernale perché non si sentisse la voglia di venire in aiuto ai presenti con un po´ di musica capace di distrarre». Rivide Felice alla fine di dicembre, a Praga. La accompagnò in lacrime alla stazione: poi andò a trovare Max Brod, in ufficio. Aveva un viso pallido, duro e severo: ma a un tratto si mise a piangere, come non aveva fatto da quando era bambino. Era seduto su una piccola seggiola accanto alla scrivania di Brod, dove di solito sedevano debitori, pensionati e postulanti. Con le lacrime che gli rigavano il volto, mormorò: «Non è spaventoso che questo debba succedere?».
Il 12 settembre era partito per Zürau, nella campagna boema, dove viveva la sorella Ottla: due anni più tardi scrisse che quegli otto mesi passati in un villaggio dove credeva di essersi distaccato da ogni cosa, sotto la tutela della malattia, erano stati il tempo migliore della sua vita. Aveva una camera calda e ariosa, davanti alla quale si estendeva la campagna libera. La casa era tranquilla - sebbene qualche volta rumori lo torturassero anche lì: il suono di un pianoforte, un battitore di legno e uno di metalli. Si sentiva libero come non si era mai sentito: libero dalla famiglia, dal lavoro, da Felice, dalla realtà, dalla letteratura, e in certo modo persino dalle inquietudini del suo futuro, visto che la malattia disegnava con precisione la linea dell´orizzonte. Non aveva prove da affrontare: non doveva subire confronti; Ottla lo portava «sulle sue ali attraverso il mondo difficile». Viveva con lei in un piccolo, buon ménage quotidiano: si assoggettava al suo ritmo con dolcezza, quiete, pazienza, e buona volontà.
Teneva lontani gli amici, che gli avrebbero fatto domande a cui non voleva rispondere. Non amava vedere il padre e la madre. Chiuso in campagna, lontano dalla ferrovia, vicino alla sera che scendeva senza che nessuno o qualcosa le si opponesse, gli sembrava di ripetere il destino di suo zio, il medico di campagna, con la sua ironia sottile, da scapolo o da uccello. Non scriveva più di notte, come quando combatteva con gli incubi di Gregor Samsa. Il suo tempo era avvolto dal silenzio: viveva quasi senza parlare, quasi senza ascoltare parole. Stava coricato vicino alla finestra, leggendo o senza leggere. Viveva benissimo tra gli animali: dava da mangiare alle capre, che gli offrivano il loro muso ebreo. In casa gli avevano costruito una comoda sedia a sdraio, con una vecchia larga poltrona imbottita e due sgabelli davanti; e l´avevano portata in un vasto bacino semicircolare, circondato da una catena di colli. Lui stava lì disteso, «come un re», senza camicia, mentre nessuno poteva vederlo. Ascoltava le voci del mondo sfoltirsi e ammutolirsi: scorgeva un raggio, una striscia di sole, gli pareva di vedere la felicità discesa tra i colli della terra, e avvertiva un totale senso di pienezza. «Non trabocca una goccia, ma non c´è più posto per una goccia».
Non fu soltanto un soggiorno di luce. Una notte, verso la metà di novembre, lo riassalì l´orrore della insidiosa forza animalesca che abitava lui e il mondo. Ogni tanto, nell´autunno, aveva sentito un rosicchiare sommesso: una volta si era alzato tremando ed era andato a vedere. Ma, quella notte, assistette alla sommossa muta e rumorosa del popolo spaventevole dei topi. Alle due venne svegliato da un fruscio presso il letto, e da quel momento non cessò fino al mattino. «Su, per la cassa di carbone, giù dalla cassa del carbone, una corsa lungo la diagonale della camera, cerchi tracciati, legno rosicchiato, sibili leggeri durante il riposo, e intanto sempre il senso del silenzio, del segreto lavorio di un popolo proletario oppresso, al quale appartiene la notte». Il rumore veniva da ogni parte, e di tanto in tanto l´intera tribù saltava giù compatta da qualche mobile. Era smarrito: non osava alzarsi: non osava accendere la luce; tentò soltanto di spaventarli con qualche grido. Aveva paura di quella presenza accanita e subdola: aveva l´impressione che avessero sforacchiato i muri in cento punti, e vi stessero in agguato, signori della tenebra. La mattina non poté alzarsi per la nausea e la tristezza: rimase a letto fino all´una tendendo l´orecchio per sentire che cosa gli instancabili stessero preparando per la notte successiva. Poi prese in camera una gatta. Ma aveva paura anche di lei. Non aveva il coraggio di spogliarsi in sua presenza, di far ginnastica e andare a letto davanti a lei: non tollerava che gli balzasse sulle ginocchia o sporcasse per terra.
A Zürau prese di petto il proprio passato. Aveva fallito in tutto. Sia in città che in famiglia, nella professione, in società, nell´amicizia, nel fidanzamento, in letteratura, - non aveva «dato buona prova», come non era accaduto a nessun altro intorno a lui. Non aveva fatto che rivolgere domande: domande di ogni tipo; domande sempre più tormentose e più alte e ardue, e non aveva mai ricevuto risposta. Adesso non capiva come poteva essersi illuso di fare domande. Non aveva aria dove respirare: non aveva terreno - leggi, abitudini, pensiero, religione, letteratura - sul quale posare i piedi. Tutti i suoi libri - e i frammenti davanti ai quali provava rossore - li aveva scritti nella lingua «del possesso e dei suoi rapporti»: non dello spirito; e ora gli sembrava un mucchio di carta inutile, migliaia di fogli coperti di inchiostro, da gettare via con un gesto, o da affidare a un rogo pietoso. Non aveva mai fatto niente: aveva soltanto «imbiancato un angolo della stanza» dove era impiegato; eppure era spossato, sfinito, perché in qualsiasi istante o occasione o lavoro impiegava tutte le proprie forze. Non aveva mai riposato o dormito. Di tutta la sua vita non gli restava che un atroce senso di vergogna: quasi fosse morto miseramente, o ucciso come il suo Josef K., nel Processo, con la vergogna sopravvissuta alla propria morte.
Ora lì, quasi solo, protetto dalle ali della sorella, con pochi libri, voleva trovare una risposta a tutte le questioni che lo avevano torturato, e che avevano torturato gli uomini, fin da quando Adamo era stato cacciato dal paradiso terrestre. Aveva poco tempo. Voleva cominciare da capo, come se nulla fosse mai stato scritto, come se il tempo, non fosse mai esistito; e con un balzo, simile ai suoi acrobati ardimentosi, saltare a piedi uniti nell´eterno. Nessuno gli copriva le spalle: ma egli lo dimenticava sempre, e tornava a cercare una copertura, perché non poteva «combattere una lotta personale». Come disse a Brod, tentava di acquistare chiarezza sulle cose ultime, mentre l´ebreo occidentale non aveva le idee chiare su nulla. Voleva «sollevare il mondo nel puro, nel vero, nell´immutabile». Non gli interessavano più le verità separate - solo la metafisica, la teologia: Dio, nient´altro che Dio. Negli ultimi anni aveva cercato di arrivare a Dio attraverso il mondo: la realtà degradata, i nessi infimi, la costruzione lacunosa della Muraglia Cinese. Ora, per la prima volta, avrebbe affrontato Dio faccia a faccia, con il puro sforzo del pensiero.
* * *
Il 18 ottobre 1917 Kafka cominciò a scrivere in un cosiddetto quaderno in ottavo, oggi chiamato G. «Paura della notte. Paura della non-notte»; e poi iniziò, fino alla primavera 1918, un secondo quaderno chiamato H. Non erano veri diari: ma aforismi, raccontini, apologhi, battute, riflessioni; quelle forme leggerissime che aveva appreso nel suo recente periodo cinese. Poi, non sappiamo quando, prese a scegliere in quella massa di fogli. Dispose centotré fogli, sciolti, rettangolari, color giallo pallido, ognuno dei quali era numerato in alto con un numero progressivo e conteneva quasi sempre un passo di poche righe. Quei fogli color giallo pallido non avevano titolo: non si chiamavano Aforismi e nemmeno, come decise Max Brod, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita; titolo che avrebbe fatto lievemente sorridere Kafka. Niente: un bianco, perché gli aforismi non avevano un contenuto preciso, o possedevano tutti i contenuti possibili. Come uno scrupoloso artigiano, abolì molti pensieri dei due quaderni: altri li tagliò e scorciò, fino a farli diventare oscurissimi. Spesso si ha l´impressione che volesse semplicemente celare ciò che voleva (o non voleva) dire di segreto. Altre volte, debbo confessare che, dopo aver letto e riletto e pensato, non riesco a capire la ragione di certe inclusioni ed esclusioni. La capiva solo lui - infinitamente più intelligente di noi - nel suo privato, privatissimo regno dei cieli, dove esercita la propria fede-mannaia: «così pesante, così leggera».
E´ la quinta volta che leggo questi centonove (anzi centodiciassette) aforismi, che tutti insieme non comprendono più di tredici o quattordici pagine. Diciassette anni fa dedicai loro, in un libro, una ventina di pagine, che oggi mi lasciano insoddisfatto. Suppongo che se, fra sei anni, li prendessi in mano un´altra volta, proverei gli stessi sentimenti: leggerei, rifletterei, mi interromperei continuamente, andando in cucina a bere un bicchiere d´acqua, a piluccare un grappolo d´uva, o a mangiare pane e parmigiano, per cercare (inutilmente) di rinforzarmi. La prima impressione è di uno sbalordimento intensissimo: il pensiero umano (non il solo pensiero occidentale) non era mai arrivato così in alto e in profondo, in luoghi intentati e inesplorati. Leggendo, ci si sente (è sempre la sensazione migliore) stupidissimi; e insieme si pensa quello che dicevano Giovanni Scoto e i mistici bizantini: se Kafka ha scritto queste frasi, noi uomini apparteniamo a una razza meravigliosa, superiore a quella degli angeli, con le loro grandi e inutili ali rosse e celesti.
Tutto è concentratissimo: tre righe contengono il materiale di un trattato. Tutto è essenzialissimo e enigmaticissimo. Al confronto, Eraclito (che in buona parte fu oscuro perché ci giunse a frammenti) è trasparente come l´acqua di un ruscello greco. Un raggio violentissimo illumina e, al tempo stesso, accieca. Il linguaggio accenna, allude, e sopratutto nasconde, come nei mistici. Se osassi dire una cosa così volgare, i cosiddetti Aforismi di Zürau sono di gran lunga il più importante libro di pensiero concepito nel ventesimo secolo. Ho scritto importante; e subito sento il lieve riso del diligente impiegato dell´Istituto assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori per il regno di Boemia e Praga. «Importante?». Non esistono le cose importanti. Tutte le cose hanno la stessa benedizione: sono nulla e tutto. Intanto gli Aforismi di Zürau ci vengono presentati un´altra volta, nell´eccellente traduzione di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 144, euro 8,50).
(1/ Continua)