venerdì 12 novembre 2004

sinistra
su Liberazione e su il manifesto

due articoli di oggi, segnalati da Thomas

Liberazione 12.11.04

Democrazia è alternativa, "tra sogni e conflitti"
Cultura unificante della sinistra, rappresentanza dei movimenti, ritorno dell'ideologia con Bush: dibattito a Torino sulla trasformazione possibile
Ne discutono Betinotti, Revelli, Folena, Sullo, Perini, Airaudo
di Claudio Jampaglia

TORINO (nostro servizio). "Tra sogni e conflitti" ovvero movimenti, democrazia e politica alla prova dell'oggi: un dibattito a nove voci (maschili), un confronto sulle prospettive e i percorsi dei movimenti e dell'alternativa. Si è aperta così a Torino una tre giorni di dibattiti, musica e cinema - una sorta di forum sociale che durerà fino a domenica - per mettere a confronto "il lavoro e le sue trasformazioni, guerra e pace, movimenti e nuove forme della politica". Promuovono Fiom, Radio Flash, il manifesto e Carta. Nella serata d'apertura, un ritratto di quel "noi" che Fausto Bertinotti definisce all'inizio come il terreno di un confronto aperto e franco, cui nessuno si sottrae.
«Dopo tre anni di un movimento che non si vedeva da tempo, credo che il primo nodo per cambiare la politica, sia la rappresentanza e la democrazia», introduce Loris Campetti de "il manifesto". Uno dei punti più condivisi prima di affrontare il primo scoglio: lo stato e l'essenza del movimento. Se per Bertinotti «i movimenti sono destinati a durare in diverse e molteplici forme», per Giorgio Airaudo della Fiom, «la domanda di cambiamento persiste, ma la crisi c'è; tutto quello che è stato fatto è insufficiente, dobbiamo rispondere sul campo, ma anche elaborare una risposta complessiva di fronte alla mancanza di risposte della politica». Anche per Benedetto Vecchi de "il manifesto" «il movimento è in crisi perché è venuto meno il superamento delle differenze, è rimasta la sommatoria delle organizzazioni». Me se «la crisi è la forma stabile dell'orizzonte della politica di movimento», bisogna sperimentare su tre terreni - potere, rapporti di forza e costruzione del consenso - per non ripetere la sconfitta del movimento operaio.
Pertinenza o meno del termine "crisi", il dibattito vira sulla rappresentanza politica dei movimenti. «Da Seattle a oggi quelli che chiamiamo movimenti sembrano una miriade di gruppi comunitari che lavorano, producono saperi e poi irrompono sullo spazio pubblico - spiega Marco Revelli - a questa realtà male si adatta la rappresentanza politica, un tempo si poteva chiedere alla politica di rappresentare la propria identità, oggi non si può più dare strutturalmente».
Così si ritorna a Bertinotti che insiste su uno dei temi fondanti della sinistra alternativa: «Se restiamo prigionieri dello schema secondo cui i movimenti chiedono e la politica risponde, non abbiamo soluzioni». Risponde Pietro Folena, solitario - rispetto al suo partito - navigatore dei movimenti da Genova in poi: «La domanda dei movimenti è partecipazione e democrazia, anche la politica è sempre più privatizzata in pochissime mani, allora ci vuole una diversa pratica politica, un cantiere di contenuti e di idee, plurale, aperto». Mentre Gigi Sullo identifica la diversità tra rappresentanza politica ed elettorale. «I movimenti non mettono temi sul tavolo della politica, sono l'indizio di un nuovo paradigma, di un nuovo contenuto» ovvero la democrazia da ricostruire. «Ci sono due velocità: quella della politica che ha scadenze anche elettorali e la ricostruzione della democrazia, cose diverse che devono dialogare volta per volta».
Allora non rimane che unirsi, come ricorda Airaudo, su «l'unico punto possibile: la democrazia. E' la scommessa del mondo del lavoro come per i movimenti, sapendo che le soluzioni organizzative o di forma non premiano i contenuti». Con l'urgenza sottolineata da Fulvio Perini della Cgil: «Dopo tre anni di movimenti non si riesce a fare emergere una soggettività politica corrispondente, quindi il primo punto è che prima ci uniamo meglio è». Con qualcosa in più: «I lavoratori sono arrivati al movimento operaio prima di Carlo Marx, le teorie sono venute dopo le spinte sociali, oggi i movimenti hanno la stessa possibilità con tempi, pratiche e sfere d'autonomia diverse e nuove. L'unico patto possibile con la politica è quello con una "retroguardia organizzata"».
Quindi la strada su cui camminare domandando è fatta di unificazione e democrazia, senza rappresentanza politica e percorsi tracciati. Intanto il mondo corre. Così Fausto Bertinotti pone al centro della discussione un tema non da poco: «Con la vittoria di Bush cambia lo scenario. I neoconservatori per vincere si sono armati di un'ideologia. Finora l'unificazione dei movimenti è stata possibile sull'aggressività di classe dell'avversario, ora dobbiamo farla sui contenuti, sulla qualità degli obiettivi, ma ciò non avviene se non costruiamo una ideologia». Risponde Revelli: «L'unica nostra possibilità è elaborare un modello di stile di vita, di società e di consumo capace di essere universale. Più che un'ideologia una cultura».
E qualcosa si muove se, come ricorda Folena, «la sinistra di alternativa con il 13% elettorale potrebbe anche essere maggioritaria su alcune proposte» e, aggiunge Sullo, il 75% degli italiani è oggi contro la guerra secondo Mannheimer. Rimane però il dato del 5% dei delegati e funzionari della più "politica" delle organizzazioni sindacali, la Fiom, iscritto a un partito (Airaudo). E si ritorna al punto di partenza. La politica, non solo il "pezzetto istituzionale" (Bertinotti), è da rifondare. Le idee sono in campo, i movimenti pure, le traiettorie per una trasformazione della realtà si iniziano a delineare. Forse, come dice Revelli, «cominciano a mancarci le parole».



Il manifesto 12.11.04

Valori e interessi
Quando l'inconscio è reazionario
Postmodernità. Nei «valori» della destra il rimosso della ragione della sinistra
di Lea Meladri

Quando scoppiò in America lo scandalo Clinton-Lewinsky, molti intellettuali si chiesero come era possibile che una squallida storia privata di sesso potesse diventare più importante della guerra che sconvolgeva in quel momento i Balcani. Oggi, di fronte all'esito delle elezioni americane, lo stupore è analogo, anche se sono cambiati i termini della contrapposizione. «Bush - ha scritto Rossana Rossanda (il manifesto 5.11.04) - sta scombinando il nostro lessico e i nostri riferimenti»: diventano «valori forti e caldi» sentimenti, emozioni, fobie sessuali che avrebbero dovuto restare dentro i confini del vissuto personale, mentre si eclissano, facendosi «deboli e freddi», quegli «interessi materiali» che una ragione illuminata ha considerato la struttura portante della vita pubblica (lavoro, stato sociale, emarginazione, limitazione delle libertà, ecc.).
Un elenco di dualismi così dettagliato - caldo/freddo, materiale/immateriale, cuore/ragione, maschile/femminile,ecc - non si vedeva nella cultura occidentale da quando Pitagora dettò la sua famosa «tavola»degli opposti, con la differenza che la gerarchia non è più la stessa: le viscere, il cuore, la vampa emotiva, la fragilità, l'egoismo, la vincono oggi sull'ordine che ha istituito la pòlis e che ha dato poi forma alle moderne democrazie. L'effetto di capovolgimento è eclatante: la provincia, la campagna, le piccole città trionfano sulle metropoli, le comunità religiose mobilitano più della sinistra laica, la fede fa prenderepiù voti che il ragionamento, la paura premia le scelte politiche che sono destinate ad accrescerla ,l'aborto e i matrimoni gay spaventano più della disoccupazione e del terrorismo.
Osama Bin Laden, nel suo appello alla responsabilità dei cittadini americani, non sapeva (o forse malignamente sapeva) che da quel «cuore» profondodell'America si sarebbe risvegliata una potenza a lui opposta, ma speculare: il fondamentalismo cristiano, quel «cielo e inferno dei valori morali», per usare un'espressione di Massimo Cacciari, a cui la sinistra ha guardato sempre con diffidenza, tenendoli separati dalla politica.
La vittoria di Bush si configura in modo evidente come un terremoto la cui faglia si è aperta l'11 settembre 2001: l'irruzione dell'altro da sé, del lontano, del nemico sul suolo proprio. Ma quella che appare come una regressione, un ritorno al Medioevo, a una virilità rozza «da Frontiera», forse ha bisogno di una lettura meno semplificatoria, fuori da facili e tradizionali contrapposizioni. E' vero che i cosiddetti «valori morali» sono in realtà dei «non valori», dei «valori pessimi» e, quanto meno, contraddittori: la difesa della vita contro l'aborto e la pena di morte, il via libera alle leggi di mercato e la chiamata all'altruismo cristiano, il richiamo al bisogno di sicurezza e l'uso spregiudicato di una forza militare che non ha confronto. Ma è anche vero che le spinte da cui questi «valori» muovono e di cui appaiono come una risposta deformata, sono dati reali di quella vita psichica che la razionalità illuministica e l'economicismo di gran parte della sinistra hanno cancellato dalla loro visione del mondo, consegnandoli di fatto alla religione o all'interiorità. Penso, per nominarne solo alcune, alla paura del diverso, sentito, per un riflesso arcaico come nemico, e,in particolare, a quel primo diverso che è il corpo femminile da cui l'uomo è generato, visto come potenza capace di dare la vita e la morte; penso all'omofobia, struttura portante di una società di soli uomini che si costituisce, non solo immaginariamente, come «fuga dal femminile»; penso al bisogno di protezione e quindi di appartenenza,che porta ad identificarsi col più forte.
Oggi si scopre che l'inconscio collettivo, che si è espresso «democraticamente» nel voto di una maggioranza silenziosa, è reazionario. Non era poi così difficile da immaginare: tutto ciò che è stato sepolto nella zona più oscura della vita dei singoli, identificato con la natura o con la parola rivelata di un Dio, per potersi modificare ha bisogno innanzi tutto di essere riconosciuto, narrato e analizzato, restituito alla cultura e alla politica con cui è sempre stato in rapporto, sia pure un rapporto alienato, strumentale, distruttivo della politica stessa e delle sue conquiste democratiche.
L'immensa esperienza negativa che si è accumulata nelle viscere della storia nel corso dell'ultimo secolo, come conseguenza del fatto che sono stati considerati condizione quasi esclusiva del cambiamento i rapporti di produzione, oggi esce allo scoperto attraverso la retorica populista delle destre occidentali. Ma, se non ne abbiamo paura e,soprattutto se non abbiamo fretta di cancellarla o imitarla, forse è l'occasione per dare finalmente cittadinanza a esperienze essenziali del vivere umano.
In una vicenda drammatica e carica di conseguenze come l'11 settembre, quando si vanno a raccogliere le parole dei testimoni, la prima constatazione, come ha scritto Ida Domijanni (il manifesto 2.11.2004) è che la varietà dei vissuti non ha né una rappresentazione pubblica né una rappresentanza politica che possano reggere al confronto con quella ufficiale. Ma quante altre esperienze «impresentabili»per i linguaggi codificati della politica restano sepolte nel magma indifferenziato di pensieri e sentimenti che si è ancora tentati di appiattire sulle leggi immodificabili della natura, o di leggere semplicemente come fenomeni antropologici? In tempi in cui la biopolitica sembra voler penetrare fin dentro la cellula prima della vita - proclamando la personalità giuridica dell'embrione - è quasi incredibile che chi si batte per la giustizia sociale e per l'umanizzazione dei rapporti tra diversi, non si renda conto che sottrarre all'insignificanza storica le pulsioni e le componenti più elementari della vita psichica èil passo indispensabile per non esserne pesantemente condizionati e ostacolati nello sforzo di costruire «un altro mondo possibile».
La giusta preoccupazione, a cui fa spesso riferimento Rossana Rossanda, di non fare della politica una totalità inglobante, normativa, regolatrice dei rapporti sociali ma anche della «persona» nella sua interezza, sentimenti compresi, non sembra tener conto che è proprio l'idea di una politica ristretta alla sua funzione «calcolatrice e amministrativa» a costituire una minaccia di assimilazione, e a lasciarsi perciò ai margini una vasta area di «impoliticità», resistente a farsi omologare o anche soltanto tradurre nei suoi linguaggi e nelle sue leggi. Finchè questo «residuo» immenso di sapere, energie e risorse creative resterà tale, le democrazie non potranno dormire sonni tranquilli e le rivoluzioni perderanno un apporto indispensabile per togliere consenso alle logiche del dominio e della guerra.
LEA MELANDRI