venerdì 12 novembre 2004

filosofia del cristianesimo
Sant'Agostino e le immagini

L'Eco di Bergamo 12.11.04
Agostino, il filosofo dell'immagine
Il grande vescovo di Ippona condannò il potere di seduzione del teatro, ma non il linguaggio dei gesti L'analisi dei segni anticipò la semiotica moderna. Il cristianesimo è «parola che si dà a vedere»
di Giulio Brotti

Secondo un commentatore medievale, di Sant'Agostino sarebbe «difficile parlare, più difficile scrivere qualcosa di nuovo, e ancor più arduo comprenderlo». Ha raccolto la sfida, l'Università di Bergamo, con un pomeriggio di studi su «I linguaggi in Sant'Agostino. Musica, spettacolo, arte», svoltosi mercoledì presso l'antico monastero di Città Alta dedicato proprio a Sant'Agostino, dallo scorso anno adibito a sede universitaria.
«È la logica prosecuzione di un primo incontro del dicembre 2003 – ha detto Mauro Ceruti, preside della Facoltà di Lettere e filosofia –. Questi “Incontri a Sant'Agostino”, aperti al pubblico, proseguiranno trattando, di volta in volta, i diversi aspetti del pensiero agostiniano e la storia di questo complesso monastico, rinato dopo secoli di abbandono».
In quest'occasione si è voluto approfondire – ha detto Marco Collareta, docente di Storia dell'arte medievale e moderna presso l'Università di Bergamo – «l'interesse del pensatore Agostino per l'arte, e in particolare per il teatro, alla luce di una sua particolare teoria del linguaggio umano, antesignana della moderna semiotica».
Annamaria Testaverde, docente di Storia del teatro e dello spettacolo, si è soffermata sull'idea agostiniana secondo la quale Res per signa discuntur (le cose si apprendono attraverso i segni): se un segno è qualcosa che fa venire in mente una seconda realtà, diversa da sé, ecco che molti comportamenti umani, oltre al linguaggio verbale, hanno questa attitudine. «Alcuni – afferma il vescovo di Ippona – sogliono indicare moltissime cose con gesti delle mani. Così gli istrioni col movimento di tutte le membra fanno segni a chi è capace di comprenderli e, per così dire, dialogano con i loro occhi [...]. Sono, tutti questi segni, come delle “parole visibili”».
Il linguaggio dei bambini
In una celebre pagina delle Confessioni, Agostino indaga il ruolo della dimensione preverbale, nell'apprendimento del linguaggio da parte di un bambino. Nella prima infanzia, ricorda idealmente, «non riuscivo a esprimere tutto quello che volevo [...]. Ma la memoria era come prensile: quando gli adulti menzionavano qualche oggetto e in base a quel suono protendevano il corpo nella sua direzione, io osservavo e tenevo a mente che così, con quel suono, essi lo chiamavano. E che fosse questo ciò che volevano si capiva chiaramente dal movimento del corpo come pure da quella sorta di linguaggio naturale di tutti i popoli, fatto di espressioni del volto e cenni degli occhi, gesti delle altre membra e toni di voce [...]. Così a poco a poco, a furia di udire le stesse parole ricorrere in una certa posizione in diverse frasi, capivo quali fossero le cose di cui quelle parole erano segni. [...] E così arrivai a comunicare con le persone circostanti mediante i segni che danno espressione verbale alla volontà».
Grazie ai segni, prima come gesti e poi come parole – conclude il filosofo e teologo – l'individuo può entrare «nella tempestosa comunità della vita umana».
La cultura dei segni
Può succedere, però, che all'interno di una certa cultura i segni «impazziscano», non rimandino più alle cose e a valori reali. Da qui, il severo giudizio di Agostino sulla «società dello spettacolo» della sua epoca, con la relativa condanna del teatro classico, prolungatasi per secoli, come ha mostrato Sandra Pietrini, docente di Storia del teatro all'Università di Firenze, attraverso l'analisi di alcune miniature medievali.
«Va però considerato – ha aggiunto Annamaria Testaverde – che nel IV-V secolo dopo Cristo il teatro romano non si basava quasi più sulla recitazione di un testo drammaturgico scritto: prevalevano le danze e le pantomime, le esibizioni nei circhi, i combattimenti tra gladiatori».
È contro un teatro decaduto, capace, al massimo, di suscitare nello spettatore una «lacrima facile», che Agostino polemizza (oggigiorno, forse, questa stroncatura riguarderebbe certe «vite in diretta» televisive). Egli elabora sempre nelle Confessioni, un piccolo trattato di «psicopatologia dello spettatore», traendo spunto dal caso dell'amico Alipio: quest'ultimo, benché fosse un ragazzo sveglio, umanamente sensibile, «era stato trascinato dalla vorticosa vita di Cartagine, scintillante di spettacoli frivoli, in una folle passione per i giochi del circo».
Trasferitosi a Roma e deciso a superare questa sua “dipendenza” tenendosi alla lontana dagli spettacoli gladiatori, Alipio ci ricascò «in circostanze incredibili». Furono degli amici e compagni di studi a riportarlo quasi a forza al teatro: lui, alla fine, acconsentì, quasi per mettersi alla prova, convinto di superare quella tentazione tenendo gli occhi chiusi «di fronte a quei giochi crudeli, mortali». Ma dimenticò, Alipio, di tapparsi le orecchie: «a un certo punto del combattimento – racconta Agostino –, l'immane boato della folla ruppe le sue difese: vinto dalla curiosità [...] aprì gli occhi. E soffrì nell'anima una ferita più grave di quella inferta al corpo del gladiatore che aveva voluto vedere; e cadde, più infelice di lui che con la sua caduta aveva scatenato quell'urlo. [...] Veduto che ebbe quel sangue, già ne aveva bevuta la ferocia e non se ne distolse: tenne lo sguardo fisso e assorbiva il furore e non sapeva, e prendeva gusto a quel combattimento atroce e s'ubriacava di un piacere crudele. E già non era più quello che era stato entrando, ma uno della folla alla quale s'era unito, vero complice di quelli che l'avevano prima trascinato».
Le immagini e l'idolatria
Al di là del suo giudizio sul teatro del tempo, la riflessione di Agostino sul valore dei «segni» risulterà fondamentale per lo sviluppo della spiritualità e della civiltà occidentali, così come sono giunte fino a noi. Spesso si dimentica che il cristianesimo è nato dall'ebraismo, religione rigorosamente aniconica , per la quale ogni tentativo di raffigurare la divinità si tradurrebbe in «idolatria», nel tentativo di reificare e asservire Dio. Sappiamo che, nei primi tre secoli di storia cristiana, l'uso di immagini sacre per il culto incontrò dei dissensi: l'intera cristianità orientale, dall'epoca dell'imperatore bizantino Leone III Isaurico fino al secondo Concilio di Nicea (787 d.C.) subì gli effetti di una furiosa lotta iconoclasta, condotta da chi, anche in questo caso, riteneva idolatrica l'idea di raffigurare Dio (che può essere incontrato solo «nella totale assenza di parole e di pensieri», affermava Dionigi Areopagita) entro una forma sensibile.
Denunciando il potere di seduzione del teatro, e più in generale la «civiltà delle immagini» del tardo impero romano, Agostino non condanna in assoluto il linguaggio mimico, gestuale, corporeo: «Non hai mai veduto – scrive nel De magistro – come alcune persone mediante il gesto parlano, per così dire, con i sordi e che questi sempre col gesto rispondono, insegnano e indicano tutte le cose che vogliono, o perlomeno parecchie? Dato questo fatto, non si mostrano senza parole soltanto le cose visibili, ma i suoni, i sapori e simili. Anche i mimi spesso rendono comprensibili e sviluppano interi drammi con la danza».
Che gli spettacoli non siano, di per sé, perversi, è provato anche dall'idea di Agostino che il mondo creato e la stessa rivelazione cristiana si possano paragonare a una grande messinscena teatrale, il cui impresario sarebbe Dio. Il convertito che si è finalmente distolto dagli spettacoli dell'anfiteatro, non può accontentarsi ora di formule di fede astrattamente intellettuali, e Agostino propone di rappresentare davanti a lui, al posto degli spettacoli pagani, le meraviglie del Regno di Dio: «Guarda l'istrione – scrive, rivolto a questa persona comunque bisognosa di “vedere” –: quell'uomo ha imparato a camminare sulla fune e, mentre è in equilibrio, tiene te sospeso. Guarda ora l'impresario di più grandi spettacoli. Colui che ha imparato a camminare sulla fune, riuscirà forse a camminare sul mare? Dimentica il tuo teatro, osserva il nostro Pietro, che non è un “funambolo” ma, se così posso dire, un “mariambolo”. Cammina anche tu. [...] Vuoi guardare, sii tu lo spettacolo.»
Per Agostino il gesto fisico può dunque assumere la piena dignità di un linguaggio: di un verbum visibile , una «parola che si dà a vedere», così come, secondo il cristianesimo, la Parola per antonomasia si è incarnata, non ha disdegnato di abitare il nostro spazio e il nostro tempo.
La lotta contro gli iconoclasti
Da qui procederà la Chiesa nella sua lotta contro gli iconoclasti, secondo la concezione di san Giovanni Damasceno per cui il fatto che Dio «sia divenuto visibile nella carne e abbia frequentato gli uomini, ci permetterebbe di rappresentare la sua immagine visibile»: Régis Debray ha parlato, al riguardo, di un'idea-cardine, di una concezione provvidenziale per lo sviluppo dell'immaginario occidentale, scampato – anche grazie ad Agostino – al rigore dei distruttori d'immagini, di chi avrebbe voluto «bruciarlo sull'altare dell'astrazione ascetica».