lunedì 16 febbraio 2004

uomini e scimpanzé
(ma sulla differenza Odifreddi non si impegna)

Repubblica 16.2.04
SIAMO TUTTI SCIMPANZÉ
uno studio sul loro dna e su quello degli uomini

Il dato può stupire solo chi si ostina ad avversare le tesi evoluzioniste
Jonathan Marks mostra coincidenze che arrivano al 98 per cento
L'esaltazione della razza e della famiglia è il comandamento dell'antiscientismo
Lo stesso atteggiamento infiamma i fanatismi religiosi e politici di Chiese e Leghe
di PIERGIORGIO ODIFREDDI


In "Una relazione per un´Accademia" una scimmia descrive la sua trasformazione in uomo dopo la cattura nella Costa d´Oro. Ma poiché neppure Kafka poteva riuscire nell´impresa impossibile di togliersi i panni dell´uomo per entrare nel pelo dell´animale, il racconto si mantiene su un piano superficiale, e limita l´acquisizione di tratti umani all´ubriacarsi e allo stringere la mano.
D´altronde, già Wittgenstein aveva notato nelle "Ricerche filosofiche" che «se un leone potesse parlare, non lo capiremmo». Ora, sui leoni siamo tutti d´accordo, ma sulle scimmie? In fondo, almeno quelle grandi, e soprattutto quelle africane, sembrano molto vicine all´uomo: appartengono agli animali che partoriscono i piccoli e li accudiscono; ai mammiferi che hanno il pollice prensile, le unghie dei piedi, e solo due capezzoli; e ai primati che non hanno la coda, e la cui faccia è schiacciata.
E infatti, le scimmie sono nostre parenti strette. Perché, a meno di non voler credere alle favole del "Genesi", circa sette milioni di anni fa c´era in Africa una sola specie comune, che poi si divise e diede origine ai protogorilla a Occidente, ai protoscimpanzé nel Centro, e ai protoumani a Oriente. Ovvero, siamo tutti scimmie africane, con buona pace degli umanoidi che si radunano sulle piazze per proclamare che invece siamo tutti americani (volendo dire statunitensi).
Naturalmente, non bisogna sottovalutare le differenze che dividono le scimmie da noi: in fondo, non camminano erette, non fanno all´amore (solo sesso, e solo nei periodi fecondi della femmina), non parlano, non si vestono, non producono né trasmettono cultura e tecnologia. Ma non bisogna neppure sottovalutare le affinità, che sono apparse evidenti sin dal Settecento: la prima descrizione di una grande scimmia (di un anatomista inglese, Edward Tyson) è del 1699, la prima esibizione in Europa di un esemplare (di scimpanzé, dall´Angola) del 1738, la prima classificazione (dei primati, di Linneo) del 1758.
La classificazione odierna, del paleontologo George Simpson, è del 1945, e ci accomuna a scimmie piccole (gibboni) e grandi (scimpanzé, gorilla e oranghi) per i denti, la mancanza di coda, la posizione e la capacità di movimento della spalla, e la struttura del tronco. Ma è possibile quantificare precisamente la nostra affinità, anatomica e genetica, agli altri ominidi in generale, e ai nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé, in particolare?
Sulle ossa, c´è poco da dire: abbiamo esattamente le stesse degli scimpanzé, con piccole differenze dovute alla nostra postura eretta, ai nostri incisivi ridotti, e alla maggior dimensione del nostro cervello. Ma è difficile specificare la coincidenza globale, che varia da un massimo del 100 per cento dal punto di vista del numero di ossa, a un minimo del 37 per cento dal punto di vista del volume del cervello.
Coi cromosomi le cose diventano più precise. Noi ne abbiamo 46, gli scimpanzé 48, ed essi corrispondono perfettamente, a parte le regioni di accumulazione del Dna «di scarto» (agli estremi del cromosoma per le scimmie, e al centro per l´uomo). L´unica diversità sta nel cromosoma 2 (il secondo in ordine di grandezza) umano, che corrisponde esattamente alla fusione di due cromosomi dello scimpanzé. E che si tratti di una fusione nell´uomo, e non di una divisione nello scimpanzé, lo si deduce dal fatto che i due cromosomi sono separati in parenti lontanissimi, come nel babbuino.
Si può far ancor meglio con le proteine. Verso il 1965 il biochimico Allan Wilson e l´antropologo Vincent Sarich ne iniettarono di umane e di scimpanzé nel sangue dei conigli, e scoprirono che esse erano molto simili, perché gli anticorpi generati dalle une funzionavano abbastanza bene contro le altre, e viceversa. Misurando esattamente la differenza, in base all´intensità delle relative reazioni chimiche, e paragonandola alla velocità evolutiva delle proteine, che è più o meno costante, i due scienziati calcolarono che le due specie si erano distaccate da circa quattro milioni di anni. Qualche anno dopo, nel 1975, lo stesso Wilson e la genetista Mary-Claire King confrontarono direttamente una quarantina di proteine di uomo e di scimpanzé, e trovarono una coincidenza del 99,3 per cento.
Il che significa, naturalmente, che ci dev´essere una coincidenza analoga anche nel Dna che codifica proteine, il quale però è solo una piccola parte (circa l´1 per cento) del tutto. Volendo confrontare gli interi, e non solo le parti, si nota anzitutto che gli scimpanzé hanno circa il 10 per cento di Dna in più di noi, ma la cosa è poco importante: in fondo, i libri si giudicano in base al contenuto, e non alla lunghezza. Il vero raffronto va dunque fatto sull´intera sequenza del genoma, che è scritto in un alfabeto di sole quattro lettere: dunque, due sequenze casuali coincideranno in media almeno al 25 per cento, e solo coincidenze molto più alte saranno significative.
Poiché la sequenziazione del genoma dello scimpanzé, a differenza di quella dell´uomo, non è stata ancora fatta, bisogna paragonarli in maniera indiretta. Un raffronto tra 40.000 basi in una particolare regione (quella dei geni dell´emoglobina) di un certo cromosoma (il numero 11), ha mostrato una coincidenza del 98,1 per cento, consistente con quella delle proteine. E un raffronto basato sull´ibridizzazione di segmenti di Dna delle due specie, e sulla temperatura alla quale si separano i filamenti ibridi e non, ha confermato un risultato tra il 97 e il 98,2 per cento. Per questo oggi si dice che il Dna dell´uomo coincide (circa) al 98 per cento con quello dello scimpanzé.
Che cosa significa essere scimpanzé al 98 per cento lo discute Jonathan Marks in un suo omonimo e provocatorio libro (Feltrinelli, pagg. 274, euro 16). Anzitutto, solo gli antievoluzionisti si stupiranno della cosa: per gli altri, tutte le specie viventi discendono da un antenato comune, come dimostra il fatto che il meccanismo genetico è lo stesso per tutte, e ciascuna è più vicina ai parenti prossimi che a quelli lontani. Ad esempio, molte centinaia di milioni di anni fa un gruppo di pesci sviluppò arti che permisero ai discendenti di uscire dall´acqua sulla terraferma, e diede origine a tutti i vertebrati viventi: il celacanto, che è un «fossile vivente» di quel gruppo, è dunque più vicino a noi di quanto non lo sia a un tonno, benché entrambi siano pesci.
Inoltre, il Dna è solo uno dei fattori determinanti le specie, e la scelta di quali fattori siano più o meno importanti o decisivi è culturale. Ad esempio, nel 1758 Linneo ha deciso di classificare gli uomini nella famiglia dei mammiferi, cioè «portatori di mammelle», nonostante il fatto che solo metà del genere umano le porti: sembra che la sua scelta sia stata determinata da un impegno politico nel movimento per l´adozione dell´allattamento materno, al posto di quello a balia. Però, la scelta delle mammelle non è obbligata: Aristotele privilegiava il fatto di avere quattro arti e partorire prole viva, invece che uova; e gli scienziati del Settecento il fatto di avere peli, il che basta a distinguere i mammiferi dai rettili, dagli anfibi, dai pesci e dagli uccelli.
Ancor più culturali sono i concetti di razza e di famiglia, che non riflettono alcuna suddivisione naturale della specie umana. Il razzismo è basato sulle solite favole del "Genesi" e fa derivare le razze, che sono prodotti del clima e non dei geni, dai tre figli di Noè: gli africani neri da Cam, gli asiatici gialli da Sem, e gli europei bianchi da Yafet (dopo la scoperta dell´America e dei pellerossa, ci si rivolse a un´altra fonte fantastica: quella dei quattro umori di Ippocrate). E l´arbitrarietà biologica delle relazioni familiari risulta evidente quando si ricordi, ad esempio, che i nostri genitori non sono fra loro consanguinei; o che chiamiamo nonni allo stesso modo quattro persone, di cui una sola ci ha trasmesso il Dna mitocondriale (la nonna materna), e una sola il cromosoma Y, se siamo maschi (il nonno paterno); o che chiamiamo zii allo stesso modo i fratelli e le sorelle dei genitori, che sono nostri consanguinei, e i loro coniugi, che non lo sono.
Il rifiuto dell´evoluzionismo e l´esaltazione della razza e della famiglia sono i comandamenti della fede antiscientista. Essi infiammano i fanatismi religiosi e politici delle Chiese e delle Leghe del mondo intero, perché le differenze culturali sono più importanti della variabilità biologica, almeno per quelli che si preoccupano più della società costruita da loro, che del mondo creato dalla natura. Per gli altri, il condividere il 100 per cento del Dna con certi «umani» è più imbarazzante che condividerne il 98 per cento con gli scimpanzé.