Radio 1 Rai: Fausto Bertinotti al “Confessionale del ComuniCattivo”
“Se penso ai miei maestri sento la distanza”
Anticipa anche il suo nuovo libro sull’Europa in uscita entro l’autunno
Il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti interverrà oggi, venerdì 18 febbraio alle 15.37 su Radio 1 Rai al “Confessionale del ComuniCattivo” di Igor Righetti.Lei ha cominciato la sua attività politica da giovanissimo operando nella Cgil. È stato a lungo un sindacalista a tempo pieno. Ma al di là della politica che cosa l’appassiona?
Ecco un estratto dell’intervista.
È difficile una separazione così netta, perché quando la politica entra così a caratterizzare una vita intera, è evidente che è non è semplice dire cosa c’è al di là. Persino gli affetti, gli amori, i figli sono segnati in qualche modo da questo elemento così pervasivo e, quindi, anche gli interessi. In ogni caso, se proprio dovessi provare a dire qualcosa, certamente la lettura anche perché da generazioni la lettura e la scrittura sono gli elementi fondamentali della comunicazione. Anche proprio nella densità di un oggetto, non solo per quello che c’è scritto. Questa scrittura segna così tanto un’esperienza che io ancora oggi uso matita e penna stilografica. Per dire appunto che c’è un carattere anche tattile che riguarda il libro e gli strumenti della scrittura. Quindi il libro certamente.
Che tipo di libri?
Sono letture disordinatissime. Sempre per tratto generazionale io sono per la scelta del libro nella bancarella, nella libreria sfogliandolo, guardandolo. Le ragioni dell’attrazione sono così numerose e complesse che è difficile codificarle. Poi molti anni fa dopo un dibattito con un teologo, che mi aveva sempre impressionato per livello culturale e per capacità di interpretazione e di analisi, camminavamo e mi disse “noi abbiamo la fortuna di poter leggere senza dover pensare all’utilizzo della lettura” cioè, direi io, leggere sprecando. E questo secondo me è l’unico modo che conosco, ce ne sono altri scientificamente costruiti ma il mio modo è questo. Invidio chi legge disinteressatamente.
Le piace anche scrivere. Che cosa scrive?
Scrivo molto, ho scritto molto, però sempre con fatica. Da questo punto di vista appartengo di più agli animali orali.
Sta preparando qualcosa?
Stiamo lavorando adesso con Alfonso Giani a un libro sull’Europa.
Quando uscirà?
Questo lo deciderà un po’ l’editore. Credo tra l’estate e i primi d’autunno. E’ edito da “Le Grazie” del gruppo Longanesi.
Di che cosa parlerà questo libro?
Dell’Europa che vorrei, della critica all’Europa così com’è, del grande bisogno di Europa che incontri nella tua vita quotidiana. Noi qui e io penso anche quelli di là negli altri mondi. Un’Europa che sia una specie di grande ponte nel mondo, un luogo della traduzione delle lingue, un’Europa di pace e di un altro modello sociale. Fare qualche ragionamento perché la politica non sia semplicemente uno scontro di schieramenti.
Dove va e che cosa fa quando vuole isolarsi per meditare?
No, non esiste. Ho sempre lavorato e scritto in mezzo a relazioni. Lo studio ottocentesco separato dal gruppo familiare oltre che dalla società non dico che non mi piacerebbe, ma anche quando dispongo di uno spazio è difficile che sia quello il luogo della scrittura.
Quindi non andrebbe sull’Himalaya?
No, assolutamente. Poi da questo punto di vista nella scherzosa diatriba duale tra montagna e mare io appartengo a quelli del mare.
Qual è l’uomo politico attuale che più stima?
Per disciplina mentale non faccio gerarchie. Appartengo a una cultura che ha una vocazione egualitaria.
Il politico attuale con cui è più in disaccordo non glielo chiedo perché penso di saperlo…
Ma sì, ma solo perché è così noto non è neanche detto che sia lui. Può essere che ce ne siano persino di più, naturalmente da quelle parti.
Soltanto che sono meno noti…
Sì, e comunque quello è un punto di rilevante contrapposizione politica. Non tanto per i singoli atti ma per una sorta di idea generale del mondo della politica e degli uomini. Sempre in questo solco appartengo a chi pensa che la politica sia fatta di grandi scelte e il discrimine tra destra e sinistra secondo me ancora oggi è molto significativo.
Quali sono i rischi della personalizzazione della politica?
Un cumulo di rischi. Il peggiore credo sia quello di distrarsi dal fatto che la politica, quando è alta, è vissuta e partecipata da un grande numero di persone. E la personalizzazione della politica può indirizzare invece verso l’idea della delega, verso il fatto che si possa in qualche modo supplire alla partecipazione di massa attraverso “l’intervento” superiore di un’entità dotata di soldi, di carisma. Qualsiasi cosa lo connoti personalisticamente è, secondo me, una ferita alla politica. Naturalmente non lo dico soltanto perché per un lungo periodo ho militato sulla tesi che la storia fosse leggibile soltanto come lotta di classe, come grandi rivolgimenti, necessità storiche che si affacciano. Penso ora che anche le persone, e quindi le personalità nella storia, abbiano un’incidenza ma penso che la partecipazione alla democrazia debba sorvegliare criticamente ogni forma di potere che si erige sopra di essa.
Sul politico che più stima non mi ha risposto però…
No, si può parlare solo di quelli morti.
Si fa sempre così…
Anche in un confessionale laico della politica non saprei dirlo, non è soltanto un elemento di prudenza. È che proprio non saprei perché non capisco la stessa gerarchia.
Con chi non andrebbe mai a cena?
Il Concilio Vaticano II è stato molto importante. Ha insegnato a distinguere tra l’errore e l’errante. E quindi con l’errante si può convivere, si può anche prendere un caffè. Ecco forse la cena è troppo.
Rischia di andare tutto per traverso…
A cena non sceglierei per via di politica ma per via di amicizia. Andrei a cena, come vado, con persone che non sono note nella scena politica ma che sono miei amici o amiche.
Che impressione le fa essere un modello della sinistra?
No, modello no. Una cosa gliela dico, per scherzo ma neanche tanto. “Siamo nani seduti sulle spalle dei giganti” diceva Bernard. E Dio solo sa quanto noi di questi tempi siamo nani seduti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto che erano stati selezionati un altro periodo storico. Dalla Resistenza, dal Fascismo, da questo secondo dopoguerra straordinario, carico di passioni, di costituzioni vere, di veri scontri politici. Se io penso ai miei maestri, lo dico senza alcuna civetteria, sento la distanza. Potrei fare dei nomi da Riccardo Lombardi a Pietro Ingrao, per non parlare di Vittorio Foa, Palmiro Togliatti. Lì c’era una dimensione della politica che faceva impressione. Noi abbiamo avuto almeno questa fortuna: che siamo andati a scuola da questi giganti e adesso un po’ scherzando potrei dire che nel mondo dei ciechi l’orbo è un re. Quindi se uno è un protagonista di questa fase della vita politica non deve prendersi molto sul serio.
Quali sono le differenze politiche tra lei e i no global di Casarini e Caruso che lei appoggia?
Intanto i no global sono, come dice un filosofo, una moltitudine. Sono un movimento molto ampio. Lei ha citato alcuni nomi, peraltro molto diversi tra loro; ne potrei citare degli altri. La caratteristica fondamentale di questo movimento è stata quella di fare una specie di rivoluzione culturale. Si è pensato per un lungo periodo che per stare insieme bisognasse essere unitari cioè sostanzialmente portare un denominatore comune, una piattaforma di valori e obiettivi economico-sociali su cui organizzare la partecipazione. La rivoluzione culturale del movimento è che invece si sta insieme soltanto sulla base del fatto che io sono compatibile con te. Abbiamo obiettivi comuni, che per esempio la pace contro la guerra, e abbiamo anche forme di lotta comuni ma anche diverse. Il punto è che in questo raggio d’azione in cui stiamo tutti accettiamo la reciproca compatibilità. Nasce a Genova, in quelle straordinarie giornate in cui un movimento di giovani ha reagito pacificamente a una repressione di una violenza inaudita e sistematica. E lì si vedeva che potevano stare insieme le tute bianche, allora non si chiamavano disobbedienti ma tute bianche, e la suora che pregava a Bocca D’Asse. Perché l’uno sentiva l’altro come parte dello stesso movimento e viceversa. In questo senso io appartengo allo stesso movimento di quelli che lei ha citato seppure con diversità che sono evidenti.
Che cosa vuol dire essere alternativi oggi?
Io posso dire cosa vuol dire per me essere alternativi. Per me che appartengo a una lunga storia vuol dire essere contro il capitalismo, non soltanto contro i suoi effetti. Cioè risalire dagli effetti, come la precarietà, la disoccupazione, il disagio sociale, la mancanza di diritti, l’incertezza in un mondo violentato dalla guerra preventiva e dal terrorismo, la povertà tragica, i maremoti e le conseguenze così assurde che producono rispetto al possibile dispiegamento di tecniche, di scienze e tecnologie del tempo in cui viviamo, capire la causa motrice di questa ingiustizia. Secondo me la causa motrice è questo sistema, di cui la globalizzazione neo-liberista è oggi la sua espressione. Essere alternativi secondo me vuol dire avere l’ambizione di considerare questa società capitalistica come finita. Finita nel senso che può finire e che può un nuovo ordine sociale seguire a questa. Ed essere alternativi vuol dire lavorare a questo superamento. Per me naturalmente.
Come ha fatto a farsi accettare dalla massa operaia così com’è dai modi e dall’eloquio elegante e dall’abbigliamento firmato? Non c’è contraddizione tra ciò che professa e ciò che è?
Intanto c’è una storia. Io vengo da una famiglia operaia. Il mio papà era un macchinista delle ferrovie sulle macchine a vapore. Sono nato e cresciuto in un quartiere proletario nell’estrema periferia di Milano, dove Milano sfuma verso Sesto San Giovanni che allora si chiamava la Stalingrado d’Italia. E in quei prati dentro cui si costruivano fabbriche e in cui si incontravano soltanto facce di operai, delle loro e dei loro figli, io sono cresciuto. Quindi la mia storia è la storia di questo popolo. Mio padre era uno splendido vecchio socialista di tradizioni anarchiche e portava come segno distintivo una sobria ma coltivata eleganza pure attraverso i mezzi poverissimi di cui disponeva. Ricordo la sua scintillante nera valièr sulla camicia bianca incontaminata. E questo tratto ero lo stesso Di Vittorio il quale ai cafoni e ai braccianti delle Puglie disse “basta smettete il tabarro mettete il cappotto, fate vedere ai borghesi che potete portarlo con voi, con la dignità che vi compete”. E io penso che questa misura è assolutamente capita. La mia gente per molto tempo, prima della rivolta operaia studentesca del ‘68-’69 andava alle manifestazioni col vestito della festa.
Nell’era di Internet e della globalizzazione dei mercati che ruolo potrebbe avere il comunismo ora che anche la Cina ha aperto le frontiere ai commerci?
Noi abbiamo smesso di credere che il socialismo, il comunismo si potesse fare in un solo Paese. E dopo il crollo dei regimi dell’Est, indotto non solo da cause esterne alla competizione capitalistica ma anche da cause interne, da errori drammatici, si figuri se possiamo cadere nel tranello intellettuale di considerare la Cina piuttosto che un altro Paese depositario di questa prospettiva. L’altro mondo possibile di cui parla il movimento non si invera in una costruzione statuale, bensì in un movimento mondiale che nelle forme concrete che questo movimento sta prendendo lavora alla critica del potere statuale, come del mercato.
Che vuol dire oggi essere utopisti?
L’utopia può essere molte cose. Può essere una specie di consolazione per l’accettazione di una società altrimenti intollerabile oppure può essere una componente di un disegno di liberazione di sé di quelli con cui si vive, dell’umanità. L’utopia come premonizione, come segno, come sogno che, tuttavia, si poggia sulla concretezza di una vita e di una pratica sociale di critica dell’esistente, di collegamento con altre persone, di costruzioni di coalizioni, di persone, di lavoratori, di lavoratrici per cambiare le cose esistenti. In questo caso l’utopia io penso che possa accompagnare utilmente una crescita verso la liberazione. Così come il mito.
Chi sono i voltagabbana della politica?
Per definizione Davide Laiolo, un partigiano delle Langhe che fu anche direttore de “L’Unità”, scrisse un libro che si intitolava “Il voltagabbana”. Parlava di sé perché era stato combattente in Spagna, ma dalla parte dei franchisti, e poi combattente in Italia invece nelle fila della liberazione della resistenza dei partigiani, in un modo anche drammaticamente autoironico. In termini descrittivi, se non lo si dà come giudizio di valore tutti coloro che cambiano di campo.
Che cosa pensa degli adulatori?
Ovviamente penso molto male dell’adulazione. Ritorno sul punto di prima della divisione dell’errore e dell’errante. Dell’adulatore penso che sia una persona molto debole che cerca in qualche modo di entrare in un circuito per compensare le fragilità e le debolezze della sua vita. Non lo giustifico naturalmente; l’adulazione fa un po’ schifo, con l’adulatore invece bisogna cercare di capire da dove derivi questa fragilità e questa dipendenza.
Com’è il suo rapporto con i media?
Un bel combattimento; un corpo a corpo sempre vissuto a occhi spalancati perché appartengo a chi pensa che la tecnica e la scienza non siano neutrali. In questo sono molto segnato dalla cultura ‘68-’69, dalla scuola francofortese e, perché no, dalla straordinaria esperienza delle lotte dell’operaio comune di serie, dalla critica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Ho un atteggiamento molto critico nei confronti della scienza e della tecnica perché ne vedo, come nella macchina, il segno di dominio in cui essere incorporato. E quindi non mi sfugge che anche le tecniche della comunicazione possano sussumerti dentro, o almeno cercare, quella logica e quel linguaggio. Perciò è un corpo a corpo perché c’è sempre un residuo, ciò che resta fuori da questa fagocitazione, che è il lato creativo e uno cerca di svilupparlo più che più.
Trova che l’informazione sia troppo ossequiosa con i potenti come pensa il presidente Ciampi?
Secondo me lo è di più. Ma di più in un modo che forse non mi vede d’accordo con il presidente. Sono d’accordo con lui su questo tratto di ossequio nei confronti dei potenti, ma vorrei usare una categoria che oggi è meno pregnante perché è stata scossa dalle crescita dei movimenti di contestazione: quella che “Le Monde diplomatique” chiamava il pensiero unico. In un periodo come quello degli anni Novanta il pensiero unico è l’omologazione dei punti di vista, sostanzialmente tutti subalterni, a un’idea apologetica di quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si chiama la globalizzazione. Ecco in quel caso non è semplicemente un ossequio dei potenti. È una dipendenza dai meccanismi di accumulazione, di appropriazione, di produzione e di dominio.
Che cos’è il potere?
Questa organizzazione dell’egemonia o del dominio di una classe sulle altre.
Crede nel destino?
No e potrei fermarmi.
Non è molto convinto…
No, perché sento sempre una problematicità, non l’elemento della predestinazione ma in qualche modo sotto traccia vivono anche degli elementi che non consentono di pensare come totalmente a disposizione della traiettoria della propria vita.
Qual è il suo rapporto con il tempo che passa?
Molto tranquillo e molto sereno. Naturalmente ci sono dei lampi o degli sprazzi di nostalgia, anche coltivata, per momenti della vita vissuta. Io potrei ricordare con stavo con mio padre e con mia madre, oppure con mia moglie e mio figlio in un particolare momento. Oppure quella straordinaria lotta con gli uomini e con le donne con cui hai combattuto quella battaglia vinta o persa. Comunque io penso che questi brandelli di memoria vadano coltivati, portati con sé, come un grande bagaglio o un libro da sfogliare perché poi questi momento possono essere diversi da un giorno all’altro proprio come la pagine di un libro che hai già letto e che puoi risfogliare. Questo bagaglio aiuta la serenità dello scorrere del tempo. Io la vedo così non sono per nulla inquieto nei confronti dell’invecchiamento, anche delle manifestazioni fisiche.
Com’è Bertinotti nel privato?
Spero, spero, spero fortissimamente che si possa dire di lui che è una persona tenera.
Agli inizi della sua carriera fin dove pensava di arrivare?
Da nessuna parte, assolutamente da nessuna parte. Avevo toccato il cielo con un dito quando mi chiamarono a Novara. Sa io quelle scale dove avevano calcato i piedi, e ancora li calcavano, leggendari comandanti partigiani che erano diventati prosaicamente segretari di una federazione di categoria, come di chi entra nel mondo degli eletti, quindi francamente mi basta e mi avanzava quella fortuna.
Chi è il suo migliore amico?
Non si dice, questo non si dice.
Il suo passatempo preferito?
Leggere, ma anche nuotare. Il rapporto con l’acqua è una cosa davvero fantastica. È l’accesso all’altro mondo.
Molto indiana come filosofia.
Purtroppo sei sempre lì che vorresti provare a essere capace di starci come un pesce in questo punto che non scavalchi mai, per quanto sott’acqua tu possa stare.
Che cosa non sopporta in televisione?
Il mezzo. La radio è una grande produzione. Noi stiamo chiacchierando e io mi sento relativamente libero. Se avessi un faro davanti agli occhi sarei più contratto. La radio è quasi, anzi, è più diretta del telefono. La radio è adorabile. Ecco un’altra che farei sempre è ascoltare la radio. Potrei stare in una casa senza televisione, lo dico senza alcun elitismo perché poi è uno strumento poderosissimo, guai a essere aristocraticamente supponenti. Però diciamo di mia pelle potrei starci in una casa senza tv, ma non senza la radio.
Qual è il suo sogno che vorrebbe realizzare?
Quello di sempre: liberi e uguali.
Roma, 17 febbraio 2005
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