mercoledì 2 marzo 2005

arte
Guggenheim a Roma

La Stampa 02 Marzo 2005
DA NEW YORK, BILBAO E VENEZIA UNA MOSTRA OGGI A ROMA
Tre Guggenheim per 80 capolavori
di Lea Mattarella
Da Manet a Merz, passando per Kandinsky, Picasso e Matisse
Dietro le opere la passione per le avanguardie del Novecento
di due collezionisti americani, ricchi grazie all’industria mineraria
ROMA. Ci si emoziona di fronte ai cambiamenti graduali di Piet Mondrian, alla parete di Robert Délaunay che costruisce disfacendo e alla fine sceglie la potenza della luce a quella della forma, alla magica testa di Costantin Brancusi, idolo di una modernità non ancora corrotta che non aspira a diventare moda: icona spirituale, integra e pura, forma perfetta. Portare a Roma, città ricca di arte di tutti i secoli ma purtroppo quasi sprovvista di capolavori del Novecento, una parte della collezione Guggenheim, che finisce per essere una specie di prezioso riassunto dei principali artisti e delle più significative correnti del XX secolo, è un evento. Si celebra fino al 5 giugno alle Scuderie del Quirinale e propone un'ottantina di capolavori provenienti dai musei Guggenheim di New York, di Bilbao e di Venezia, selezionati dalla curatrice Lisa Dennison: da Manet a Mario Merz e Richard Serra, passando per Picasso e Matisse, Léger e Bonnard, Giacometti e Mirò, Rauschenberg e Warhol.
Oggi è diventata un marchio, ma la collezione Guggenheim nasce dal coraggio e dall'ossessione di due ricchi americani: Solomon e sua nipote Marguerite, la celebre Peggy. Ed è una storia che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'Europa, contrassegnata da un bel po' di intuito femminile.
Infatti, Solomon Guggenheim, nato nel 1861 a Filadelfia da una famiglia di origine svizzera che aveva costruito la sua fortuna con l'industria mineraria, si converte all'arte dell'avanguardia grazie all'incontro con la giovane pittrice tedesca Hilla Rebay, baronessa Von Ehrenwiesen. È lei che fa conoscere ed amare a Solomon e alla moglie Irene Rothschild il meglio dell'arte europea. I tre viaggiano insieme, visitano gli studi e fanno man bassa. Per esempio da Wassily Kandinsky, a Dessau, comprano ben 150 opere. D'altra parte il maestro russo è il pallino di Hilla, sacerdotessa di un arte non-oggettiva e spirituale, emanazione quasi diretta delle teorie teosofiche di Rudolph Steiner. In mostra c'è una bella parete dedicata a Kandinsky che ben chiarisce il suo passaggio da una figurazione coloratissima, personale declinazione dell'arte popolare russa, ad un'astrazione lirica, incantata, misteriosa. Anche quando inquadra semplicemente dei cerchi colorati su un fondo scuro, un po' lunare, come in quest'opera del 1926, accaparrata da Solomon dopo che i nazisti l'avevano esposta come esempio di «arte degenerata».
Intanto la collezione di Solomon, nel 1937 diventa una fondazione, si arricchisce della raccolta Tannhauser, da cui provengono le opere di Monet, Renoir, Van Gogh, il bel paesaggio di Cézanne qui esposti. E nel 1959 trova la sua sistemazione nel museo newyorkese ideato da Frank Lloyd Wright.
A Peggy sembra che l'edificio non piacesse granché. Lo definisce un orribile garage e paragona la celeberrima rampa a spirale al rotolarsi di un serpente malefico. I suoi gusti differiscono un po' da quelli di Hilla e dello zio. In Europa dal 1920, la nipotina di Solomon frequenta gli ambienti parigini dell'avanguardia artistica e letteraria. E ne conosce, e qualche volta ama, alcuni tra gli esponenti più significativi: da Samuel Beckett a Marcel Duchamp, da Jean Cocteau ad André Breton, fino a Max Ernst, suo marito per un breve periodo. A un certo punto finisce a Londra, dove apre una galleria. Qui organizza la prima mostra inglese di Kandinsky ma, oltre al cubismo e all'astrattismo, lei ama l'inconscio surrealista, quella miriade di fantasmi, incubi, sfacciate simbologie erotiche, inquietanti spazi liquidi, che sembrano emergere dai più segreti abissi della psiche e irrorare le tele di Dalì, Tanguy, Max Ernst, Delvaux.
Quando la seconda guerra mondiale la costringe a rientrare negli Stati Uniti, apre una galleria dove fanno i primi passi i grandi protagonisti della Scuola di New York per i quali il Surrealismo è una specie di malattia esantematica, un iniziale passaggio obbligato. Peggy fa in tempo a capire e sostenere la grandezza silenziosa di Mark Rothko, ma soprattutto quella quasi tribale di Jackson Pollock. Poi si trasferisce a Venezia dove apre il suo museo. Quando muore, nel 1979, ha già donato la sua raccolta alla Fondazione Solomon Guggenheim, e il suo nome è diventato una leggenda.