mercoledì 2 marzo 2005

Romano Luperini in morte di Mario Luzi

Liberazione 1.3.05
Luzi, poeta e testimone
È morto ieri a Firenze. È stato uno dei più grandi del secondo 900
Romano Luperini

E' morto, con Mario Luzi, uno dei poeti più significativi e importanti del secondo Novecento. Con Sereni, Caproni, Zanzotto è uno dei maggiori della generazione postmontaliana, quella nata fra anni Dieci e Venti del Novecento.
Pochi mesi fa al convegno per il decennale della morte di Franco Fortini, Luzi mandò un messaggio non formale, in cui ricordava le polemiche che lo aveva diviso dal poeta coetaneo, aggiungendo tuttavia che esse, di fronte a quanto stava succedendo in Italia da qualche anno, sarebbero certo cadute di fronte alla vergogna e all'ignominia del presente (e Muore ignominiosamente la repubblica è un titolo luziano, seppure riferito agli estremi anni Settanta). D'altronde ci sarà una ragione se a un poeta cristiano come Luzi, formatosi in clima ermetico, fiducioso nella trascendenza e programmaticamente contrario a ogni forma di militanza politica della poesia, è toccato prima di morire di dire qualche verità sul regime vigente e di subire perciò l'attacco ingiurioso di politici che si vantavano di non avere mai letto una sua poesia e chiassosamente chiedevano conto a Ciampi della sua nomina a senatore.
Eppure lui, con gli anni, non è certo cambiato. E' cambiato però il contesto, a tal punto che l'orgoglio stesso di un poeta per cui realtà, verità e testimonianza poetica coincidono ha reso per così dire naturale la sua presa di posizione pubblica. L'obbligo della testimonianza è un dovere a cui Luzi non è mai mancato.
Per Luzi la poesia è naturaliter testimonianza. Non ha bisogno di un sovrappiù di intenzioni politiche e civili, perché di per sé dichiara la verità del mondo. La realtà è dotata di valore (di valore religioso), e di valore è dotata la poesia che ne dà testimonianza. Da questa poetica Luzi non si è mai allontanato.
E tuttavia bisogna distinguere almeno due fasi diverse in cui essa si articola. In mezzo, fra anni Cinquanta e Sessanta, c'è stata la crisi del genere lirico che ha modificato in profondità la poesia di Montale e anche dei suoi maggiori eredi (Sereni e Luzi soprattutto), ponendo fine al rigorismo postsimbolista, al petrarchismo, a una poesia tendente al lirico e al sublime e puntando invece al basso, al prosastico, al narrativo. Il Luzi ermetico (perché Luzi è stato certamente il prodotto più importante dell'ermetismo fiorentino) lasciava posto a un Luzi diverso, più attento a Dante che a Petrarca, più mosso e inquieto, incline alla spezzettatura del verso a scalino, all'allungamento dell'endecasillabo, alla sprezzatura dell'epigramma ma anche al dialogato e al poemetto narrativo e filosofico. In questa evoluzione un ruolo hanno giocato certamente il passaggio di Montale da La bufera e altro a Satura e l'influenza dell'Eliot di Four Quartets.
Se Avvento notturno (1940) è il suo libro paradigmatico dell'esperienza ermetica, in Un brindisi (1946) si percepiscono già la realtà contadina e la misura del tempo storico che affioreranno poi in Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1965). Il paesaggio del Monte Amiata, della Maremma, della Toscana più desolata, dell'Umbria, con il suo mondo paesano e i suoi viandanti che rappresentano una realtà contadina ormai in via di disfacimento (bracconieri, osti, venditori di fortuna, lupi di mare, girovaghi) indicano insieme la realtà del mutamento (siamo agli inizi del miracolo economico) e la stabilità (la presenza del divino) che persiste sotto di esso. Si può forse capire da questi versi quanto l'ermetismo fiorentino viva culturalmente e artisticamente nella proiezione su uno sfondo europeo di una situazione di emarginazione e di isolamento connessa al tramonto della civiltà cattolico-contadina e alla crisi della piccola borghesia agraria e della sua rappresenta intellettuale (e penso, oltre che a Luzi, anche a Fallacara, a Betocchi, a un certo Parronchi). E tuttavia qui, in Onore del vero, finalmente il poeta scopre il «vero» e il suo «onore», seppure non per intervenire, ma per contemplarli. L'atto di chi guarda, l'atteggiamento del «testimone muto», rimane infatti costante.
Il momento di svolta è Nel magma (1963), uno dei libri poetici più importanti del secondo Novecento. L'ambiente prevalente ora è quello caotico e informe di un inferno cittadino, descritto nei suoi interni (come un appartamento cittadino, un bureau, un treno con i suoi incontri) e nei suoi abitanti, rappresentati con inedita cattiveria. Il verso si allunga, tende alla prosa e alla narrazione, include il dialogato, prevede veri e propri personaggi, come la donna e il marito di "Ménage", i compagni di "Presso il Bisenzio". Quest'ultima poesia include anche la prospettiva di una possibile crisi della funzione poetica, dato che, in una visione onirica, compaiono di fronte a Mario, di notte, nella nebbia della campagna alla periferia di Prato, i compagni che hanno partecipato alla Resistenza e alle lotte successive per rimproverarlo
(«Tu dici di puntare in alto, di là delle apparenze,
e non senti che è troppo»; «guardati, guardati attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere dell'orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è nostro, che non è qui e ora…»).
Ma il poeta resta fedele a se stesso: «Sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte». E' la stessa situazione onirica e problematica di una poesia di Sereni, "Un sogno", ma nel poeta lombardo l'esito del conflitto resta aperto, mentre Luzi conferma la fiducia che la poesia, con la sua ricerca e la sua coscienza, si faccia carico per propria natura di tutta l'umanità e dei suoi pesi, senza che vi sia una necessità di confrontarsi direttamente con il «qui» e con l'«ora».
E tuttavia, più che si procede nelle opere immediatamente successive a Nel magma, più la contingenza conquista spazio e rilievo; e sarà l'esperienza del dolore, magari percepita attraverso un pianto ascoltato in un albergo straniero (come nella bellissima "Il pianto sentito piangere"), oppure la cronaca politica (indimenticabile la rappresentazione del cadavere di Moro «acciambellato in quella sconcia stiva», sempre in Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985, forse la raccolta più importante dopo Nel magma). La presa di distanza da Petrarca rientra appunto in questa tendenza. In una poesia di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini Petrarca è colto mentre spia con invidia il pittore senese:
«Domandava elemosina
di luce e di pietà
alle mie storie la sua arte
che non aveva storia - divorata
dalla beltà, assetata di grazia».
A un'arte priva di storia e prigioniera di un sogno di grazia e di bellezza Luzi continua a contrapporne una che sia testimonianza del vero (e il vero, per lui, è sempre storico e divino insieme).
A questa alta e orgogliosa missione Luzi è sempre rimasto fedele, sino all'ultima sua opera di pochi mesi fa, Dottrina dell'estremo principiante, dove si può leggere la dichiarazione forse più piena e completa di questa idea di poesia come testimonianza del creato e del poeta non come persona o come io isolato ma come «presenza umana» nel mondo:
«Non io come persona
piuttosto la presenza umana nel creato
muliebre, virile,
non importa
talora indecifrata,
talora contrapposta,
lui, lei, il pronome la sorprende
nel vivo
della sua esigua astanza
nella sorte universale,
ma ciascuna
scoscesa nella sua
unicità, arsa
dalla sua incolmabile differenza».
Prima di Luzi sono venuti meno Sereni, Fortini, Caproni. Una intera generazione di poeti sta scomparendo. Nessuno dei poeti che oggi hanno fra i cinquanta e i sessanta ha l'autorità che loro avevano a questa età; nessuno sembra capace di testimoniare la verità con l'intensità che essi hanno mostrato.