intervista
Foa: «No, Fassino»
Riccardo Barenghi
«Il presidente degli Stati Uniti si muove su un presupposto molto semplice: io ho ragione e basta, faccio quel che mi pare e il mondo deve seguirmiFORMIA. E’ un pezzo di storia del novecento, un pezzo lunghissimo, lungo un secolo. Da Giovanni Giolitti a Silvio Berlusconi, passando per il fascismo e le sue carceri, la resistenza, la liberazione, la democrazia, il Partito d’azione, quello socialista, la Cgil ovviamente, il Psiup, il Pdup e la sinistra cosiddetta extraparlamentare. Oggi Vittorio Foa vive quasi tutto l’anno nella sua casa di Formia, un ex frantoio nel centro storico di questa piccola città del basso Lazio, insieme alla moglie Sesa Tatò (che della sinistra italiana e del sindacato ne sa qualcosa anche lei). Tra qualche mese, a settembre, Foa compirà novantacinque anni, dunque se c’è qualcuno che può parlare con cognizione di causa di un altro lungo pezzo di storia della nostra sinistra, che ha camminato parallelamente alla sua, spesso incrociandosi a volte scontrandosi, è proprio lui.
Per me tutto ciò non è accettabile»
Nessuna apertura alla linea di Bush
«L’atteggiamento di chi vuole avere solo ragione non è minimamente cambiato nel secondo mandato. E mi dispiace che la sinistra dimostri una certa debolezza, chiamiamola pure subalternità a tutto questo»
L’altro pezzo si chiama Pietro Ingrao, nato in un paesino a qualche chilometro nell’entroterra, Lenola, che attraversiamo in macchina per giungere appunto a Formia. Su un grande muro di contenimento della strada che scende, vent’anni fa qualcuno scrisse a lettere colorate e cubitali «Ingrao meravigliao», poi corretto in «Ingrao rimeravigliao» quando lo storico leader della sinistra comunista decise di uscire dal Pds. Tra una settimana, il 31 marzo, Ingrao compie novant’anni, una sorta di fratello minore per Foa. O forse, politicamente parlando, un cugino. E i figli e nipoti di questi due grandi vecchi sono coloro che oggi dirigono la sinistra italiana, i Ds, Rifondazione, gli altri. Anche di loro parleremo con Foa, e non tanto bene. A lui, per esempio, l’intervista alla «Stampa» di Piero Fassino non è piaciuta: «Non sono per nulla d’accordo con Fassino. Capisco la sua intenzione positiva, ma io a Bush non concedo alcuna apertura di credito. Il Presidente americano si muove su un presupposto molto semplice: io ho ragione e basta, faccio quel che mi pare e il mondo deve seguirmi. Per me non è accettabile»,
Cominciamo proprio dagli errori. Qualche giorno fa, intervistato da Aldo Cazzullo sul «Corriere della sera», Ingrao ha riparlato dei suoi due grandi errori politici, essersi schierato contro la rivolta ungherese del ‘56 («Da una parte della barricata» si intitolava il suo famoso editoriale sull’«Unità» di cui era direttore) e non essersi opposto alla radiazione del gruppo del «manifesto» dal Pci nel ‘69, gruppo che poi erano i suoi «ragazzi».
«Intanto voglio fare tanti auguri molto caldi al caro Pietro, che è una grande figura di comunista. Anzi, sono parecchi i suoi comunismi e io me li ricordo tutti. Uno è appunto la capacità di riconoscere gli errori, e mi è molto piaciuto il suo generoso ricordo di questi errori. Ma quando penso a questa aperta confessione di errori commessi, non ci vedo tanto una disposizione a cambiare idea bensì la conferma di una linea».
Una linea che però lo stesso Ingrao giudica sbagliata da anni ormai.
«Non voglio dire la conferma di quella linea o quell’altra ma la conferma della fedeltà a un’idea. Un’idea che quando Ingrao si avvicina al Partito comunista è totalmente compresa del fascino della Rivoluzione, quella dell’Ottobre del 17 in Russia che ha rappresentato una sorta di prova collettiva della fattibilità del cambiamento. A chi, come me, diceva che per cambiare bisogna lasciar passare il tempo e lo spazio, far maturare le cose, si contrapponeva appunto la Rivoluzione. Che, all’opposto, significava che molte persone si mettono insieme per dimostrare che il futuro è fattibile. Ma la Rivoluzione ha fallito».
Era sbagliata non solo nella pratica ma anche come concetto?
«Un momento, anche se il cambiamento non c’è stato questo non vuol dire che sia sbagliata l’idea che la società possa cambiare per effetto della volontà umana. Per me è difficile pensare a rivoluzioni riuscite (tranne forse quella di San Paolo che si è mangiato l’Impero romano), ma il valore della Rivoluzione rimane intatto anche attraverso i suoi fallimenti».
E l’altro comunismo di Ingrao?
«Quello di Togliatti, che oggi si tende a dimenticare ma che fu decisivo per la nostra storia. Il comunismo di Togliatti è stato insieme un atto di fedeltà ai principi internazionali, all’Urss insomma, e un’efficace lotta di presenza nella democrazia italiana. Poi il comunismo si è avviato al declino e infine alla scomparsa. Tranne quello cinese, che non ha nulla di comunista se non la sua parte peggiore: la fermezza, la rigidità dello Stato, del comando. Proprio quel che molti di noi hanno meno amato del comunismo».
Ma lei Foa, comunista non lo è mai stato?
«No, mai. Però con i comunisti ho lavorato insieme tutta la vita. Qualcuno ancora mi chiede perché l’ho fatto, se cioè fosse accettabile quel comunismo. La mia idea era e resta diversa da quella, penso però che si debba accettare quantomeno come ricordo e valore del passato. Ma di Ingrao resta in me qualcosa che non è solo politica, la chiamerei un’esperienza esemplare. Nel senso che si vuole affermare con le idee anche un modello di vita pratica. In lui invidio le sue qualità poetiche, una ricchezza che io non ho mai raggiunto e me ne dispiace. Ma anche oltre la poesia: in un mondo pieno di cose che non piacciono, il mondo di Pietro è un mondo pulito. Al quale magari non si partecipa ma che si ama e si rispetta».
Ma è possibile che le vostre storie non sia siano mai incrociate?
«Diciamo che abbiamo perseguito per vie diverse lo stesso obiettivo, quello di un socialismo che non fosse autoritario. E poi c’è un metodo che ci accomuna, la ricerca. Nella mia esperienza con “il manifesto”, il ricordo più bello è appunto quello di un periodo di ricerca e non solo di conferma delle proprie idee. E nel mondo della ricerca, Ingrao trova tutto il suo posto».
Una ricerca che avrebbe potuto cambiare radicalmente il Partito comunista italiano?
«Ho qualche dubbio. Il Pci è stato una forza della democrazia e di stabilizzazione del sistema politico. Era difficile che dentro di esso potessero verificarsi rotture tali da creare qualcosa di veramente nuovo».
Gli eredi di quella storia però di rotture ne hanno compiute parecchie.
«Non vorrei fare polemiche con gli eredi, ma siamo poi così diversi da allora? Intendo nel modo di vedere le cose e di gestirle. Sotto questo aspetto, una grande differenza tra i Ds e il Pci non c’è. Prevalgono sempre gli elementi di stabilizzazione. Si guarda al futuro pensando al presente e guardando il passato, come una mera ripetizione di cose già vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra, ai quali riconosco la capacità di scelte coraggiose, manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhiali, con una testa nuova. Oggi, per esempio, e ancor più domani, il rapporto non è più tra l’uomo e la natura ma tra l’uomo e l’uomo. Noi non combattiamo più per dominare la natura ma per dominare noi stessi, sappiamo che dobbiamo salvare l’umanità ma contemporaneamente facciamo di tutto per distruggerla. Ogni tanto mi domando come sarà, e se sarà, una vita umana tra 200 anni. Non riesco a immaginarmela».
Le guerre di quest’epoca hanno qualcosa a che fare con tutto questo?
«Ovviamente sì. Gli americani, per esempio, non fanno la guerra contro gli altri perché gli altri sbagliano o sono un pericolo per il mondo, bensì perché si sentono minacciati. In pericolo sentono la loro Madre Patria. E la fanno, la guerra, con in testa la propria superiorità, pretendono di decidere loro i destini del mondo».
Non vede nessuna novità nel Bush rieletto?
«Nessuna, l’atteggiamento non è minimamente cambiato. E mi dispiace che la sinistra dimostri una certa debolezza, chiamiamola pure subalternità a tutto questo».
Ma Fassino, pur rimanendo contrario alla guerra, riconosce che Bush si sta battendo per la libertà e la democrazia dove non ci sono.
«Mi dispiace ma non sono d’accordo. Bush vuole solo avere ragione e pretende fedeltà, pretende che il mondo lo segua. Io a questa concezione non voglio concedere proprio nulla».