venerdì 1 aprile 2005

Pietro Ingrao a Montecitorio

L'Unità 1 Aprile 2005
Ingrao: «Non si rompa l’unità dell’Italia»
Festeggiati alla Camera i suoi 90 anni. Il più grande rammarico,
Moro: «Per lui non seppi far nulla»

Bruno Gravagnuolo

Standing ovation e difesa del Parlamento. Con tanta commozione irrituale, che diviene palpabile allorché Ciampi - che aveva ascoltato il festeggiato con la massima attenzione - si alza in piedi e si associa agli applausi di tutta la sala della Lupa della Camera. Che regala a Pietro Ingrao un omaggio corale. È stato il suggello di una commemorazione in vita del tutto speciale. Quella per i 90 anni di Pietro Ingrao alla Camera, alla quale hanno partecipato Pierferdinando Casini, attuale presidente della Camera, Mario Tronti, presidente del Centro per la Riforma dello Stato e lo stesso Ingrao, con un discorso lucidissimo che andava dritto al cuore del presente. Tra il pubblico oltre a Ciampi, Amato, Forlani, Fassino, D’Alema, Scognamiglio, Bertinotti, Reichlin, Macaluso e tanti altri, assieme a familiari di Ingrao, amici, gente comune. Con un messaggio forte: questa Repubblica è fondata sulla centralità del Parlamento. E solo di qui può nascere la civiltà e il rispetto reciproco, pur nel massimo di conflitto politico. Che questo fosse il senso della giornata l’ha chiarito subito Pierferdinando Casini, ricordando come «la passione politica di Ingrao si univa alla visione forte e intransigente della centralità del Parlamento». Grande fu infatti per Casini il suo contributo fattivo, volto a dare «spessore» alle istituzioni «attraverso la custodia attenta delle prerogative parlamentari nel quadro dell’equilibrio tracciato dalla Carta Costituzionale». Casini non manca di ricordare che con il maggioritario «la centralità del Parlamento ha assunto un altro significato». E tuttavia rimarca l’integrità dell’intuizione ingraiana: «la giusta tendenza a vedere nel Parlamento il luogo della sintesi più alta della comunità nazionale». Poi il Presidente della Camera ricorda il disinteresse e l’onestà intellettuale di Ingrao, che non esitò a difendere «i diritti umani» anche dinanzi alla tragedie di quel comunismo in cui Ingrao ha creduto e crede. E chiude Casini elogiando il clima della mattinata, «che mostra la possibilità di convivenza e stima tra tra personalità di opposti schieramenti».
Mario Tronti esordisce con un prologo polemico rivolto alla sinistra. Cita prima Jünger e Schmitt che dicevano «che a 90 anni non si è anziani, ma patriarchi». Poi definisce Ingrao «patriarca della sinistra». E però «di una sinistra revisionista ben diversa dal revisionismo corrente e ben diversa anche da quanti - ingraiani non autorizzati - sono stati poco fedeli all’impegno». Ma dov’è la «diversità» di Ingrao?: «Non c’è distinzione in Ingrao - spiega Tronti - tra etica della convinzione ed etica della responsabilità». E in lui si coniugano bene «forte carica ideale e senso dello stato». Il comunismo? «Un mito positivo con inflessioni religiose, capace di parlare al mondo cattolico. Un’idea di avvenire dal basso, e di potere come giustizia quotidiana partecipativa». Infine per Tronti, Ingrao è «la rappresentanza contro il feticcio della governabilità e contro i rischi autoritari che vi si associano».
Tocca a Ingrao, che parla di getto e con pochi appunti sott’occhio. Racconta della sua carriera di giornalista parlamentare a cui lo aveva destinato il partito prima di diventare direttore de l’Unità. E ricorda la figura di un parlamentare comunista sardo, Renzo Laconi. Che gli spiegò che «i deputati del Pci erano lì non come comunisti ma come deputati della nazione, depositari nella loro coscienza di dignità in quanto tali». Ed è un punto chiave questo, grazie al quale Ingrao fa giustizia implicita di una concezione «proprietaria» e «commissaria» della rappresentanza. Quella che la Cdl vuole affermare nel segno di un «premierato» mai esistito, e che stride con la liberaldemocrazia. Ingrao parla del Parlamento come comunità della nazione, che era capace di sollecitare l’esecutivo a rispondere. Sempre, e come fatto fisiologico. E della sua amicizia con Scalfaro, superando vecchi pregiudizi. Poi ricorda il caso Moro e si duole di non aver avuto la forza di battersi per la trattativa, per salvare un uomo chiave della Repubblica: «Non seppi far nulla e fu la tragedia che segnò il mio mandato». Rievoca la sua rinuncia a candidarsi di nuovo alla Presidenza della Camera, per capire quel che accadeva nella bufera della Repubblica di allora e nel mondo che cambiava. A Ciampi dice: «Vorrà essere paziente se sono un po’ noioso e torno sull’art. 11 della Costituzione. Ma sarei un bugiardo se non dicessi che nel mondo si sta legittimando la guerra e che questo mi spaventa». Elogia Ciampi, «per i suoi viaggi nelle cento città che cementano l’unità degli italiani». E chiude con l’appello a non rompere la compagine della nazione. Alla fine Casini regala il campanello di Presidente della Camera a Ingrao. Che dice ancora: «Lo regalerò ai miei pronipoti che ci giocheranno, anche se questo non è un gioco». E qui la sale esplode. Ciampi si alza in piedi e poi parlotta con Ingrao. Nella calca non si sente quel che dicono. Ma che Pietro ha fatto breccia, si capisce.