ANDERSEN l’erotica ossessione
di Harold Bloom
TUTTORA sono molti i bambini americani affascinati dalle favole di Hans Christian Andersen e molti gli adulti che le leggono ai propri figli, ma sarebbe un errore confondere lo scrittore con il garbato sognatore interpretato da Danny Kaye in un film biografico non particolarmente fedele.
La produzione letteraria del vero Andersen è sterminata, ed è destinata tanto agli adulti che ai bambini.
Nato il 2 aprile 1805 a Odense, allora una povera cittadina non lontana da Copenhagen, Andersen proviene da una famiglia di umile estrazione, il padre era un ciabattino e la madre una lavandaia forse costretta dalle difficili circostanze alla prostituzione.
Sebbene ad Andersen non faccia difetto l'originalità nelle sue fiabe, la stoica accettazione del Fato che le contraddistingue deriva direttamente dal folklore. Secondo Nietzsche nella vita è sempre opportuno tenere distinta l'origine dalla meta. In Andersen non troviamo un simile desiderio e questo gli è costato molto: non ha mai avuto una casa né una storia d'amore duratura, ma gli ha consentito di raggiungere uno straordinario livello letterario. Come quelle di Walt Whitman, le autentiche tendenze sessuali di Andersen erano omosessuali. Nella pratica, l'orientamento di entrambi era piuttosto autoerotico, anche se il desiderio di Andersen per le donne era più intenso di quanto non fosse l'ampiamente letteraria propensione di Whitman per l'eterosessualità. Ma Whitman era un poeta profeta che offriva la salvezza (non cristiana). Sebbene Andersen professasse invece una devozione piuttosto sentimentale per Gesù bambino, la sua arte è essenzialmente di natura pagana.
Il suo contemporaneo danese, Kierkegaard, avvertì fin dall'inizio e con perspicacia questi segnali. Dalla prospettiva del XXI secolo, stranamente, Andersen e Kierkegaard sembrano dividersi la palma dell'eccellenza nella letteratura danese. Cosa c'è nelle storie di Andersen che le rende eterne? Kierkegaard aveva ben identificato il proprio progetto: mostrare la difficoltà di essere cristiani in una società dichiaratamente cristiana. Andersen, più nascostamente, aveva un progetto differente: come restare bambini in un mondo dichiaratamente adulto.
Personalmente non vedo alcuna distinzione tra la letteratura per ragazzi e la buona o grande letteratura per ragazzi estremamente intelligenti di tutte le età. J.K. Rowling e Stephen King sono entrambi pessimi scrittori, due titani perfetti per il nuovo Medioevo dello schermo: computer, cinema, televisione. Viene spontaneo spronare i ragazzi di tutte le età a leggere e rileggere Andersen e Dickens, Lewis Carroll e Edward Lear, invece di Rowling e King.
Quando faccio queste dichiarazioni in pubblico mi sento spesso ribattere: non è meglio leggere prima Rowling e King e quindi passare a Andersen, Dickens, Carroll e Lear? La mia risposta è pragmatica: il tempo che ci è stato concesso è limitato. Ogni libro letto o riletto va necessariamente a scapito di altri. Se potessimo vivere per diversi secoli, ci sarebbe probabilmente il tempo sufficiente, ma il principio di realtà ci obbliga ad una scelta.
Andersen ha intitolato una delle sue autobiografie La favola della mia vita. È un titolo emblematico di quanto sia stato doloroso per lui emergere dalla classe operaia danese del primo Ottocento. Il fine principale della sua carriera era di guadagnare onori e fama senza dimenticare come era stato difficile raggiungerli. Il suo ricordo del padre che gli leggeva Le mille e una notte resterà quello più intenso. Immergersi nelle biografie di Andersen è un processo curioso: quando prescindo da quello che ho appreso, ho l'impressione di un giovane eccezionalmente diretto che marcia su Copenhagen e viene travolto dalla gentilezza degli stranieri. Questo aspetto del suo carattere è durato per tutta la vita: in viaggio per l'Europa si è presentato a Heine, Victor Hugo, Lamartine, Vigny, Mendelssohn, Schumann, Dickens, i Browning e molti altri. Instancabile cacciatore di celebrità, desiderava soprattutto diventarlo egli stesso e ci è riuscito inventando fiabe.
Andersen è stato straordinariamente prolifico in tutti i generi: racconti, racconti di viaggio, poesia, teatro, ma era e sarà sempre ricordato per le fiabe, che ha saputo trasformare in creazione originale, fondendo la vita comune e il soprannaturale in un modo che continua a sorprendermi, più ancora dei racconti di Hoffmann, Gogol’ e Kleist, per non parlare del mondo spaventoso e sublime dell'imprescindibile Poe. La frustrazione sessuale è la sua onnipresente ma nascosta ossessione, incarnata nelle streghe e nelle gelide seduttrici e nei principi androgini. D.H. Lawrence, uno dei principali autori di racconti del XX secolo, ci ha tramandato un magnifico motto critico: «Credete al racconto, non all'artista». Andersen ci ha raccontato che le sue fiabe erano la storia della sua vita e i critici e i biografi hanno accreditato in larga misura questa tesi, ma io resto scettico. Come quella del suo principale contemporaneo americano, Walt Whitman, l'opera di Andersen è solo apparentemente facile.
Il fatto che Whitman e Andersen fossero sostanzialmente omosessuali non è un nesso sufficiente, visto il numero di grandi scrittori che condivide questo tipo di orientamento sessuale. Ad avvicinare Whitman e Andersen è il comune allontanarsi da quello che apparentemente è il loro progetto. Whitman si proclamava il poeta della democrazia, ma la sua poesia è ermetica, d'élite. Andersen ha inventato quella che verrà poi definita la «letteratura per ragazzi» ma con l'eccezione di qualcuno dei primi racconti non è più accessibile per i soli ragazzi di quanto non lo siano Kafka e Gogol’. Andersen ha scritto per ragazzi di straordinaria intelligenza di tutte le età, dai 9 ai 90 anni.
A volte, almeno per un momento, mi sembra di preferire tra tutti i racconti di Andersen Il colletto, una cosuccia di un paio di pagine, ma non meno piena di vita e di significato di un frammento di parabola di Kafka, come Il cavaliere del secchio o Il cacciatore Gracco. Scritto nel 1848 dopo una visita in Inghilterra, Il colletto ironizza sull'Andersen ossessivo promotore di sé stesso e sui giornali danesi infastiditi dal clamore estero di questa one-man band.
Uno degli aspetti più notevoli e bizzarri di Andersen è che le sue storie vivono in un microcosmo animistico, in cui i semplici oggetti non esistono in quanto tali. Ogni albero, ogni cespuglio, animale, manufatto, capo di vestiario, mucchietto d'argilla ha una sua anima inquieta, una voce, un desiderio sessuale, un desiderio di affermazione unito al terrore della prospettiva dell'annientamento. La bipolarità di Andersen, i suoi episodi di isteria in cui si alternavano esaltazione e depressione, sono così discordanti con questo mondo immaginario dove sirene e vergini dei ghiacciai, cigni e cicogne, anatroccoli e abeti, colletti e giarrettiere, pupazzi di neve e folletti dei boschi, streghe e mal di denti, tutti possiedono un desiderio di sopravvivenza crudele e disperato come il nostro.
Cristiano dichiarato, Andersen fin dall'inizio era un pagano narcisistico che adorava il Fato, ai suoi occhi una divinità sadica che potremmo chiamare con più precisione Nemesi. Il genio di Andersen è profondamente basato su un animismo antico, anteriore alle Mille e una notte. Shakespeare, il più universale dei geni, senza dubbio ha influenzato Andersen con il Sogno di una notte di mezz'estate in cui compaiono i deliziosi piccoli elfi Ragnatelo, Bruscolo, Fior di Pisello e Gran di Senape. Sono così anderseniane queste figure che, anacronisticamente, potremmo pensare che sia stato Shakespeare a trarle dallo scrittore danese, con l'avvertenza di notare che il narratore di Odense ne avrebbe fatto esseri ben più oscuri. L'universo di Andersen è sì completamente vitalistico, ma anche tendenzialmente maligno.
Andersen è nel novero di William Blake e Walt Whitman, le cui realtà non contemplavano oggetti inanimati, ma solo sensibilità in ogni sassolino, cespuglio o muretto. Ma qui si tratta di profeti dell'apocalisse che esortavano queste cose a riassumere la forma umana. Andersen, come il suo omologo danese, Amleto, è il profeta dell'annientamento. Un piccolo racconto come Il colletto è uno studio su sé stessi più di quanto non lo sia il monologo di Amleto.
Come Andersen stesso, il colletto continua a proporsi in matrimonio ma è rifiutato da una giarrettiera, un ferro da stiro, una forbice e un pettine. Questi oggetti non devono essere visti come allegorie di Riborg Voigt, Louise Collin e Jenny Lind, ma solo di Henrik Stampe e Harald Scharff. Tutto procede bene finché il colletto non finisce nel cesto di raccolta di una cartiera e afferma rassegnato: «È giunta l'ora per me di essere trasformato in carta bianca». A quel punto, mi sono affezionato al colletto e così resto piuttosto scosso dal paragrafo finale della storia: «Ed ecco quello che accadde. Tutti i brandelli vennero trasformati in carta bianca ma il colletto si trasformò proprio nel pezzo di carta che state osservando, quello su cui è scritta questa favola...».
Tra i suoi contemporanei, possiamo collocare il narratore Andersen tra Dickens, che ha abbandonato il danese dopo che questi si era trattenuto oltre il dovuto in quella che diventò una visita di cinque settimane, e Tolstoj, che apprezzava la semplicità e il modo diretto della narrativa di Andersen. Schiacciato tra Dickens e Tolstoj qualsiasi autore di racconti uscirebbe distrutto, ma Andersen sopravvive, con la stessa allegra noncuranza dell'indistruttibile soldatino di piombo.
E tuttavia né Dickens né Tolstoj sono crudeli, fatta eccezione per quando la natura e la storia sono crudeli. I sogni ad occhi aperti di Andersen, così privi di storia e di natura, sono invece frequentemente crudeli, persino sadici, forse a causa di un impulso androgino. In Freud, tutto lo sforzo è rivolto a pensare liberamente al proprio passato sessuale, o alla curiosità sessuale dei bambini. Andersen, il cui progetto è quello di restare bambino, attinge alle energie del suo passato sessuale e riceve in cambio il vigore e il ritmo della sua arte.
Tutti i biografi sottolineano come in Andersen fossero presenti due diverse personalità, il danese in Danimarca, vulnerabile e ossessionato da una supposta sottovalutazione e l'uomo di spettacolo all'estero, il ragazzo prodigio di Weimar e di Londra, l'instancabile girovago danese che parte per Costantinopoli. Fanciullesco in patria, Andersen lo era anche all'estero, interprete dei suoi sogni ad occhi aperti, una celebrità internazionale come Lord Byron prima e Hemingway dopo. Byron e Hemingway, lo sappiamo, erano androgini come Andersen, anche se largamente più attivi sessualmente del riluttante danese, che frequentava i bordelli solo per contemplare le prostitute senza mai sfiorarle. La somiglianza più vera è con Walt Whitman la cui carriera sessuale, se si eccettuano uno o due incontri omosessuali, era soprattutto con sé stesso.
Andersen ebbe flirt in patria e all'estero con ambo i sessi, ed era, come Kierkegaard, un teorico della seduzione ma in realtà un monumento al narcisismo. I due principali autori dell'età dell'oro danese erano entrambi monomaniaci ossessionati da sé stessi. Due capitani Achab a caccia della balena bianca, ma diversamente dal protagonista di Moby Dick entrambi troppo avveduti per tentare anche solo di arpionare quelle che sapevano ben essere solo visioni solipsistiche. Questo va ascritto a merito dei due danesi: l'intelletto sottile di Kierkegaard rivaleggia con la perspicacia di Schopenhauer, Nietzsche e Freud, mentre un'antica saggezza popolare dimora in Andersen, che è in grado di dire e immaginare qualsiasi cosa e allo stesso tempo di dimenticare le conseguenze pratiche delle sue narrazioni.
Distribuito dal The New York Times Syndicate.
Traduzione del gruppo Logos
Traduzione del gruppo Logos
L'Eco di Bergamo
Andersen, l'anatroccolo che divenne un cigno
Giusi Quarenghi
Il 2 aprile 1805 nasceva in Danimarca uno dei più grandi narratori di storie per bambini Ebbe un'infanzia povera ma le sue fiabe lo consacrarono scrittore di fama mondiale. Anche per adultiDuecento anni ben portati meritano d'essere riconosciuti, e lo faccio molto volentieri, anche se non stravedo per Andersen. Al Brutto anatroccolo, preferisco infatti, il Gatto con gli stivali, almeno da quando me ne ricordo. Da bambina, non disponevo di una biblioteca, ma le fiabe mi sono state raccontate. Non moltissime, ma quelle poche, moltissime volte. Posso dire di conoscerli bene, i due, di aver ascoltato le loro biografie fantastiche con tanto trasporto e partecipazione d'aver voluto diventassero le mie, di aver imparato presto a riraccontarmele da sola, quando capivo che non potevo contare che su di me: mi capitava, da bambina, indipendentemente dal fatto che mi sentissi amata o meno.
Il Gatto con gli Stivali era, e rimane, la mia fiaba preferita. Credo che ad affascinarmi fosse quella sua capacità di trasformare sé e anche l'altro da sé, di fare per gioco ma sul serio, di avere un disegno e di perseguirlo con furbizia, intelligenza, allegria, tramutando i punti deboli in forza, la sicumera in vulnerabilità, il destino in qualcosa da costruire più che da subire. Mi metteva sempre di buon umore, il Gatto, mi faceva sentire gli stivali ai piedi che, per correre, sono meglio delle ali.
Ma quando mi prendeva malinconia, quando la voglia di piangere mi seduceva più di una giostra, quando credevo di toccare con mano la mia non predilezione, il non essere prediletta da alcuno, allora il Brutto anatroccolo (e le rondinelle, i soldatini, le ballerine) era la compagnia d'elezione. Ma, in fondo, gliene volevo, e gliene voglio ancora, per quell'abisso di tristezza aperto da un rifiuto d'amore, per quel desiderio di metamorfosi tramutato in bisogno e condizione di sopravvivenza, per quel riconoscimento d'amore tardivo, troppo tardivo e, a quel punto, dovuto, per eccesso di eccellenza. Sempre troppo, l'anatroccolo, per essere amato: troppo brutto prima, troppo bello dopo; prima neanche accettato, dopo lodato e rispettato, amato mai.
Ma credo sia più pertinente porre la questione non tanto in termini di alternativa e contrapposizione quanto di inclusione. Non «o - o» ma «e - e»: Gatto con gli stivali e Brutto anatroccolo. Perché dal Brutto anatroccolo non si scappa. È una fiaba perché, converrebbe Calvino, è una biografia, è lo schema di quasi ogni biografia, di ogni percorso di crescita e mutamento, e anche di consapevolezza, nel tratto in cui mutamento, crescita e consapevolezza si giocano con più intensità. Cominciamo sentendoci impropri, inadeguati, brutti, non amati perché impropri-inadeguati-brutti (la fiaba non conosce il capovolgimento della psicologia: impropri-inadeguati-brutti perché non amati, e non le concede nulla; per questo permane raccontabile e piena di senso). Il Gatto con gli Stivali compensa illuministicamente il Brutto anatroccolo.
Io ho avuto bisogno di tutti e due, e credo di essere sopravvissuta all'infanzia, e di portarne ancora un po' con me, tenendoli, facendomi tenere, per mano, da tutti e due, il gatto e l'anatroccolo: quello che corre avanti e quello che è lasciato indietro; quello che gioca e inventa e quello che patisce e subisce; quello che si fa riconoscere e quello che questua il riconoscimento; quello che sta in qualunque storia perché sa di poterla anche cambiare e quello che può salvarsi solo se diventa un altro. Una mano al gatto e una all'anatroccolo: una buona compagnia, anche per tutta la vita.
Goffo ed eccentrico
Quanto a biografie, Andersen è il Brutto anatroccolo. Nasce il 2 di aprile del 1805, a Odense, in un'isola della Danimarca, figlio di una madre «attempata» e di un ciabattino piuttosto bizzarro, che pare dedicasse più tempo a leggere e a fantasticare che al tavolino in bottega. Spirito avventuroso e vagabondo, si arruolò volontario nelle truppe di Napoleone; quando tornò a casa, deluso e malato, non ebbe che il tempo per morire, nel 1816, consegnando moglie e figlio alla miseria. Nella sfida per la sopravvivenza la madre si aiutò come poté, facendo la lavandaia e bevendo; e l'undicenne Hans lasciò la scuola (l'obbligo scolastico era stato istituito nel 1814 in terra di Danimarca) per i campi, le storie e il teatro. Povero, brutto, isolato, sognava di diventare attore e cantante; si costruì un piccolo teatro di burattini e vi mise in scena le proprie rappresentazioni. Appena adolescente, andò a Copenaghen e si presentò al Teatro Reale, deciso a tentare la fortuna come attore, cantante, ballerino. Ma fu respinto dalla commissione esaminatrice per il suo aspetto fisico, goffo, allampanato, eccentrico quanto sgradevole.
Di questa commissione, composta da gentiluomini assai per bene e della classe agiata, di alta cultura e di moralità ineccepibile, faceva parte anche un alto funzionario del re danese Federico IV, Jonas Collin, che intuì nel bizzarro giovinetto la scintilla del genio, e decise di prenderne a cuore il destino. Praticamente lo adottò, consentendogli di frequentare una buona scuola, e gli fece anche assegnare un appannaggio dal re. Andersen si mise a studiare con impegno, lesse i romantici tedeschi e, accantonati i sogni di attore, cantante e ballerino, si mise alla prova come scrittore di versi, melodrammi, poemi drammatici, romanzi, racconti di viaggio. Come l'epoca imponeva, compì anche il viaggio in Italia, nel 1833-'34, e fu la sua iniziazione.
In Italia, infatti, incominciò a scrivere fiabe, le sue fiabe, che pubblicò in fascicoli, con regolare cadenza annuale, a partire dal 1835 fino al 1872, tre anni prima di morire. Aveva trovato il suo genere: furono infatti le fiabe a consacrarlo scrittore, a guadagnargli fama, successo, e riconoscimenti (la povera casa di Odense divenne museo mentre lui era ancora in vita), a trasformarlo in cigno.
Andersen narratore di fiabe, certo, pesca nel grande, generoso, multiforme universo della tradizione orale: dalle leggende della mitologia nordica alle fiabe popolari dalle novelle classiche alle mille e una notte, ma reinventa il genere. Nella resistente, lunga, flessibile catena di anonime bocche che narrano e anonime orecchie che ascoltano sostenendo la tradizione orale che narra e rinarra l'eterna quotidiana vicenda della condizione umana, Andersen si inserisce con nome e cognome e dà corpo a un genere d'autore in cui fiaba e favola si fondono. Agli scenari avventurosi, fantastici, reali e surreali insieme della fiaba unisce la moralità, e anche il moralismo, della favola. Ai paesaggi per lo più rurali e contadini della fiaba, affianca, e sostituisce, interni domestici borghesi, negozi, piazze, oggetti d'arredo «moderni» che datano tempo e luogo di quel che si narra, senza nulla togliere alla sovratemporalità del messaggio e della morale della vicenda. Umili oggetti quotidiani di nessuna rilevanza narrativa, come per esempio l'ago da rammendo, diventano nelle mani di Andersen, protagonisti egregi e maestri di vita. Esseri umani, animali più e meno nobili, piante, statuine, giocattoli, oggetti inanimati vengono tutti affrattellati in un destino antropomorfico dove la speranza si traduce in riscatto morale, il ben-fare in ben-essere, secondo i dettami dell'etica protestante, e la felicità raramente è di questo mondo: se arriva, si compie unitamente allo spezzarsi del cuore e tanto più riluce quanto più è contigua alla morte.
L'aspirazione a una vita migliore e più degna è costante nelle fiabe di Andersen, e cresce parallela al desiderio dell'uomo Andersen di salire nella scala sociale e di essere accolto nella buona società della quale, comunque, non teme rappresentare il lato ipocrita e la paralisi affettiva. Occorre meritarsi la buona sorte, il successo è segno di una predilezione conquistata, chi vince può permettersi il pensiero di essere anche giusto, di aver vinto perché giusto. E questo piace molto agli adulti, al ceto dominante, piace così tanto che si è sempre dato molto da fare, non ha ancora smesso, per convincere anche i bambini. Andersen ebbe di fatto successo prima e più presso gli adulti che presso i bambini, dei quali per altro fu presto universalmente eletto maestro narratore.
«Il re è nudo!»
Ma l'Andersen amato dagli adulti, desideroso di far comunque parte delle classi alte, l'affabulatore moralista che mai smette di indicare il buon fare e il buon agire come garanzia di ogni ben-essere e di degno destino, è anche colui che ha frecce di acuminatissima irrisione nei confronti del potere, dà voce a una naturale sapienzialità infantile, a una non negoziabile innocenza di specie di cui l'infanzia è portatrice. «Il re è nudo!», grida impietoso e ilare, competente e incorruttibile, il bambino all'intera società degli adulti, re, ciambellani, ministri, mercanti, intellettuali organici e pubblico plaudente, tutti prigionieri consenzienti di un circuito in cui si irretiscono a vicenda.
Nella compravendita di omertà e perbenismo che il potere alimenta e da cui è alimentato, il bambino che snuda ridendo la verità, la salva, ci salva, è il raggio di sole che vorremmo vedere non tramontare mai. «Il re è nudo!»: i bambini lo dicono, ma i bambini non contano; e quando contano non lo dicono più, perché non hanno più occhi per la nudità del re e per la propria.
Nelle fiabe di Andersen la felicità è la meta ma ha inesorabilmente un prezzo molto alto, il senso morale è ben amministrato dentro un'idea di giustizia retributiva che contempla anche la crudeltà, le lacrime sono sempre lì lì, la commozione è provocata fino allo sfinimento e allo scandalo… Eppure, eppure Andersen non è tutto qui.
C'è un Andersen, meno conosciuto e riconosciuto, ma non meno prezioso, almeno secondo me. È l'Andersen amico. Solo e senza una famiglia propria, quando non era in viaggio, il nostro si faceva gradevolmente ospitare dagli amici (rigorosamente agiati), per una cena ma anche per lunghi periodi, gradito a grandi e bambini (fu padrino di molti), intrattenendo amabilmente gli uni e gli altri. Raccontava storie e fiabe, certo, ma anche le metteva in scena, mettendo a disposizione della fantasia la propria abilità di «ritagliatore». Prendete un uomo in età, lungo e allampanato, con una vaga espressione da lama, labbra pronunciate, naso esagerato e mani gigantesche. Mettetegli in mano un paio di forbici, avvicinategli dei fogli, tanti, nuovi e usati, colorati e no, a tinta unita e stampati, dozzinali o di qualità, con figure e scritte di ogni genere; aggiungete matite e pennelli, lasciate che intanto racconti quel che vuole, e preparatevi a gustare e ad ammirare la gioiosa pazienza e la perizia creativa con cui si mette a ritagliare, dare forma, accostare, incollare, creando pagine nuove e inedite, uniche, scenari di storie infinite, per chi è lì e per chi si ritroverà a prendere in mano questo materiale, altrove, dopo, anche 200 anni dopo. Pare una fiaba nella fiaba.
Bisogna dire che allora di libri illustrati non ce n'erano molti, non erano così diffusi e neppure così belli. Girava una gran quantità di fogli illustrati, per ogni tipo di pubblico, dalla qualità di stampa che andava dall'infima (con le figurine comunque colorate, per risparmiare!, «a mano», da bambini) alla più alta, con le figurine dell'immaginario popolare e anche le riproduzione d'arte per i più colti e/o più abbienti. La fotografia non c'era ancora e questi fogli stampati offrivano, nel mondo post-illuminista dell'ascesa borghese e della prima industrializzazione, il repertorio del mondo, vicino e lontano, quotidiano ed esotico, popolare e aristocratico, naturale e paesaggistico quanto tecnologico e del primo consumismo, umoristico e pubblicitario…
Andersen, da fogli e giornali, ritagliava le figure, le scritte; era espertissimo facitore di «pizzi» di carta e di silhouettes, figurine che si tenevano per mano e si muovevano nell'aria; faceva rime con immediatezza e facilità: aveva tutto quanto serviva per essere un estroso e affascinante compilatore di album, i cosiddetti e in voga «album illustrati», veri e propri scrigni per la fantasia, bauli colmi di tesori per ogni immaginario, non solo infantile, non solo personale.
Il «Libro di Christine»
Il Libro di Christine è uno di questi, compilato da Andersen con l'amico Adolph Drewsen, proprietario delle più grandi cartiere danesi (nonché genero di quel Jonas Collin che aveva tanto aiutato Andersen ragazzo) per la nipotina di questi, Christine appunto, alla quale fu regalato per il suo terzo compleanno, il 30 ottobre 1859. Drewsen ne aveva già fatti due per proprio conto ma per questo volle l'aiuto del «Grand'uomo, della Delizia d'Europa, per non dire del Mondo». Andersen da parte sua si era già prodotto nell'Agnete Literature, ben 5 album, per la piccola Agnete Lind. Il Libro di Christine è stato pubblicato in Italia da Mondadori nel 1984, su licenza della Fondazione intestata al «Libro di Christine Stampe» (l'originale è al museo di Silkeborg, cittadina della cartiera Drewsen).
Sfogliando l'album si è presi dal gioco delle associazioni, si è coinvolti a entrare nel labirinto dei collegamenti possibili e bizzarri, ci si incanta per la preveggenza e l'importanza di un tale regalo per una bimba di tre anni, si pensa al dono d'immaginazione, un vero patrimonio, che le viene dedicato e si è testimoni e partecipi del gran gioco e del bel regalo che gli adulti compilatori hanno fatto anche a se stessi, grazie alla bimba. Come ben dice lo stesso Andersen nella novella Il libro delle figure del nonno (1868): «Il nonno quando veniva Natale, prendeva un quaderno con le pagine bianche e ci incollava sopra le immagini che aveva ritagliato da libri e giornali, e se non ne trovava di abbastanza adatte alla sua storia, le disegnava lui stesso. [...] Il nonno aveva scritto sulla copertina: “Se il libro si guasta non ci badare, è un libro fatto per guardare”. Meglio di tutto era quando il nonno stesso stava a guardarlo con me, leggendomi i versi e quello che vi aveva scritto, e mi raccontava tante cose. E allora sì che la storia era davvero una storia!»
Questo è il regalo: raccontarsi le storie. Questa è la bella storia: che siamo qui, a raccontarcela. Questo il messaggio: voler bene ai bambini fa bene anche agli adulti. Questo il regalo di Andersen. Quando si celebrano compleanni come il duecentesimo vuol dire che, in verità, è il festeggiato a fare regali, a continuare a fare regali. E noi non abbiamo che da dire grazie.