Ingrao: «Non permettete che cancellino l'indicibile
che è in noi».
Grande commozione all'Auditorium
Ieri a Roma la sinistra ha festeggiato Pietro Ingrao come un padre, in occasione dei suoi novanta anni
Roberta Ronconi
«Sono spaventato». La sala cade in un silenzio grave. «Sono spaventato ogni volta che vedo Berlusconi». La platea si libera in una risata. Ma Pietro Ingrao non sta scherzando. «Ho paura che mi venga sottratto quello che va oltre la politica, quell'indicibile che è dentro ogni uomo. Ho paura che mi venga tolta quell'idea dell'umano che mi ha trasmesso quasi un intero secolo di vita vissuta. Ho paura che questa domanda venga cancellata. Vi prego, non permettete che accada».
Pietro Ingrao ieri ha compiuto novanta anni. Lo hanno festeggiato in molti, moltissimi, ieri sera al Parco della Musica di Roma. Sono saliti sul palco amici, politici e artisti. Che hanno riempito la volta dell'Auditorium di parole ricche di calore. Tante parole importanti, tanti ricordi, tanta storia. Ma lui, da ultimo, con il suo discorso breve e appena appuntato ha cancellato ogni cosa, ogni persona. Ogni faccia e ogni parola. Solo lui e le sue parole. Sembrava che le cercasse lì, in quel momento.
Prima i ricordi sulle origini, su quella terra di contadini da cui proviene, la sua Ciociaria. Poi il luglio del '36, quando tutto cambia. Quando la guerra di Spagna lo costringe per «insopportabilità» verso il male, a «cambiare i libri di cinema che prima erano sul mio tavolo, con altri libri». La politica entra totale nella sua vita. «Tutta la vita, tutta la mia persona, immersa nella politica, per tutti questi anni. E quante cose importanti ci ha dato, la politica e la battaglia. La Resistenza, che resta il patrimonio più grande di questa nazione italiana». Ma gli anni passano e «quanti errori ho commesso, dentro il Pci, molti errori». Racconta, Ingrao, come se il filo di questa sua storia fosse teso e finalmente chiaro. «A un certo punto ebbi la visione chiara di quegli sbagli. E per questo decisi di non ricandidarmi alla Camera dei deputati, nonostante me lo avesse chiesto il partito». Qui, il filo della sua vita nel racconto si spezza. «Perché da allora mi porto dentro una domanda... Vivo come in una scissione». «Vedete - continua - mi sono iscritto a Rifondazione comunista, a novant'anni... pensate voi!». La voglia di partecipare non cessa. «Eppure c'è qualcosa che va oltre la politica». Ingrao cerca, esita, cerca ancora. «Non che essa non sia necessaria, anzi oggi più di sempre. Stanno stracciando la Costituzione. E qui io mi domando se non ci doveva essere uno scatto in più. Credo non si sia còlto l'evento, la soglia su cui ci stiamo affacciando». Eppure, «e pure accanto a questa necessità della politica che sempre avverto, sento la tragicità della sconfitta». Ripete quei versi che gli sono tanto cari «Pensammo una torre, scavammo nella polvere».
«Vedete...», ieri sera Gad Lerner lo ha definito un padre, un padre per tutti noi. E così sembra parlarci. «Vedete, la politica, gli obblighi sociali, la norma, le leggi, le chiese... oltre tutto questo c'è un'altra zona che io non riesco ad individuare. Ed è lo smisurato della vita e di ogni soggettività. Uno smisurato che non si riesce ad afferrare. E' l'indicibile che è dentro di noi, una fascia in cui non tutto può essere spiegato. Forse, anche in nome della pietà. Badate bene, non in senso religioso. Pietà come relazione con l'altro, che è umano, come me, ma diverso».
«Sono spaventato», conclude Ingrao. «Non lasciate, vi prego, che questa mia domanda venga cancellata».
Corriere della Sera 1.4.05
Ingrao, utopista attento ai diritti
di PAOLO FRANCHI
Oscuro. Astratto. Fumoso. Un poeta, e un buon poeta, certo; e anche un acuto appassionato di cinema. Ma un pessimo politico, perché niente ha da dare di buono alla politica un astruso filosofo ciociaro, che sempre si arrovella prima di risolversi a scelte regolarmente sbagliate, salvo poi riconoscere dopo decenni, ancora tra dolorosi tormenti, l’errore. Curiosamente ma non troppo, un giudizio di questo tipo su Pietro Ingrao ha accomunato molti suoi vecchi compagni, molti anticomunisti non necessariamente viscerali e anche molti osservatori disincantati delle cose del comunismo (e del postcomunismo) italiano. Certo, in occasione del novantesimo compleanno del vecchio Pietro quasi tutti hanno preferito glissare, scegliendo piuttosto pensieri (Ingrao padre nobile della sinistra, anzi, della democrazia, Ingrao coscienza critica del nostro Novecento) all’apparenza assai densi, ma in realtà di circostanza. Però quel giudizio di fondo, negativo e anche un po’ sprezzante, inutile negarlo, rimane. E vale la pena di ragionarci su: nel mio caso, meglio dirlo subito, dal punto di vista di chi lo comprende bene, ma non lo condivide. Tralascio le critiche ricorrenti all’«utopismo» di Ingrao, che affonda le sue radici in una (inesausta) incapacità quasi fisica di tollerare l’ingiustizia e in un (costante) rifiuto di ridurre la politica unicamente ad arte del possibile. Certo, un po’ di concretezza in più non avrebbe fatto danni. Ma che non si ottenga il possibile senza inseguire l’impossibile lo ha detto Max Weber, non Bakunin. E poi, è stato davvero un utopista permanentemente preda di astratti furori, Pietro Ingrao? Fatico a riconoscermi in questa rappresentazione. Anche perché lo ricordo per imprese che hanno lasciato segni tangibili (la direzione di un’ Unità per i suoi tempi straordinaria, ad esempio); come uomo delle istituzioni (fu, tra il ’76 e il ’79, un presidente della Camera scrupoloso e garantista, in tempi in cui il garantismo non andava proprio di moda); come il comunista più attento all’urgenza di riforme costituzionali e anche elettorali; e pure come il comunista più consapevole della necessità di porre dei limiti al primato della politica e della ragion di partito e di restituire la parola alle «masse», certo, ma pure agli individui. Non è stato e non è solo questo, Pietro Ingrao. Ma, a non tener conto anche di questo, non si capiscono i perché del suo fascino. E non si capisce neanche come mai il Pci abbia avuto, unico partito comunista del creato, una sinistra inquieta, non settaria, molto più critica della destra interna verso l’Urss e il «socialismo reale», attenta più a capire cosa cambiava nella società e nello Stato che a fare da guardiana della rivoluzione.
Sostiene Giuseppe Vacca, intervistato da Francesco Cundari per Il Riformista , che Ingrao (proprio l’Ingrao che si dichiara tuttora comunista e ha appena preso la tessera di Rifondazione) è stato in realtà il primo, vero «socialdemocratico» nella storia del Pci: addirittura molto più di Giorgio Amendola. Mi sembra una forzatura indebita. È vero che persino nelle formulazioni ingraiane all’apparenza più fumose (dal «nuovo modello di sviluppo» invocato negli anni Sessanta alla «ristrutturazione della sinistra» inseguita agli albori del decennio successivo) si può intravedere una critica per così dire «socialdemocratica di sinistra» all’impianto tradizionale del comunismo italiano. Ma è ancor più vero che Ingrao socialdemocratico non lo è stato mai (la sua ultima battaglia nel Pci la condusse, con Enrico Berlinguer, contro la socialdemocratizzazione del partito) e non vuole diventarlo ora. Me ne dispiaccio, ma le sue non mi paiono chiacchiere da vecchio grillo parlante. Auguri, Pietro.
Aprileonline.info 1.4.05
''La politica è importantissima. Ma non è tutto''. Due giorni di festa per Ingrao
Compleanni. "Non pensate a me solo come al politico che ha tante certezze. La soggettività di ognuno è più complessa".
L'omaggio di Roma e di Montecitorio
ALDO GARZIA
Due giornate per festeggiare pubblicamente i novant'anni di Pietro Ingrao. Un atto dovuto a uno dei protagonisti della sinistra italiana, ma anche della storia nazionale del dopoguerra.
Mercoledì pomeriggio, tremila persone si sono date tacito appuntamento al Parco della musica di Roma. Molte facce conosciute e molte altre di gente comune, di quel popolo comunista che una volta riempiva le sezioni di strada del Pci e ne faceva un partito di massa. Prima dei festeggiamenti, c'è per tutti il tempo di visitare una mostra di disegni di Alberto Olivetti e una mostra di foto su Ingrao, che ne ripercorrono la straordinaria biografia: dalla lotta antifascista all'elezione a presidente della Camera dei deputati (1976); dalla ripresa di studi e ricerche con il Centro riforma dello Stato alla decisione di lasciare il Pds (1993).
Tocca a Luciana Castellina, Gianni D'Elia, Ettore Scola e Walter Veltroni – con Gad Lerner in veste di cerimoniere – ricordare le tante sfaccettature della personalità di Ingrao. Castellina batte sul tratto politico di quello che si chiama "ingraismo": una comune ispirazione a capire i mutamenti della società italiana e a collegarli al rinnovamento della tradizione comunista. D'Elia, poeta, parla del suo "collega" Ingrao, che da qualche anno ha ripreso a scrivere e a pubblicare poesie cercando un altro linguaggio (meno netto di quello della politica) per prendere le misure alle emozioni e alle parzialità del conoscere che il fare non risolve del tutto. Scola ricorda la passione di Ingrao per il cinema e il pubblico ne capirà l'emozione, quando sul grande schermo c'è la "prima" di una recente intervista in cui è lo stesso festeggiato a parlare dei film e dei registi che gli piacciono con dovizia di particolari sulla tecnica del montaggio e della narrazione. Ne esce confermata la predilezione per Charles Chaplin, "Luci della città" in particolare. Veltroni rende omaggio all'Ingrao che appartiene alla comunità pubblica in tutta la sua interezza. C'è pure spazio per la lettura – con la voce recitante di Luca Zingaretti – di una missiva inviata a Goffredo Bettini da Ingrao, quando quest'ultimo decise di non accettare la conferma alla presidenza della Camera: è una meditazione sulla contraddizione tra obblighi pubblici e libertà individuale.
Ma è proprio il festeggiato a fare il mattatore, quando sale le scalette che portano sul palcoscenico e si siede da solo su una poltrona per dare il suo saluto agli invitati. Il discorso di Ingrao si divide volutamente in due. Nella prima parte ricorda la recente scelta di iscriversi a Rifondazione comunista, denuncia la manomissione della Costituzione da parte della destra, affonda contro il governo Berlusconi che rapisce perfino la possibilità di sognare e di immaginare un'Italia diversa, fa rapidi excursus anche sui suoi ricordi di bambino a Lenola dov'era la realtà contadina a dettare le sue leggi. Fin qui è l'Ingrao politico che parla, in coerenza con tutta la sua storia.
Nella seconda parte, il neo novantenne racconta un'altra parte di sé: quella che si interroga da tempo sui limiti della politica, sulla soggettività che non si esaurisce nel ruolo sociale che si occupa, su quel bisogno di relazione con gli altri che contrasta con la propria individualità, sull'irriducibilità dell'esistenza. E' la dimensione dell'uomo, accanto all'unicità del singolo, che prende il sopravvento. E' un modo per dire agli altri: "Io sono anche questo, non riducetemi solo al politico".
Chi ascolta, comprende che forse quello che si chiama "ingraismo" ha una radice peculiare: è la capacità di guardare alla politica con occhi diversi da chi sa fare solo politica. Poesia, cinema e letteratura – così tanto amate da Ingrao – arricchiscono la sensibilità nel duro apprendistato del vivere e dello scegliere da quale parte della barricata collocarsi.
Quella di Ingrao è una lezione di vita a tutto tondo, che non chiama in causa solo la coerenza di un tragitto pubblico. Ci vuol dire, come Shakespeare in "Amleto": "Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia". E in questo caso la filosofia è il pensiero e l'azione della politica, che restano fondamentali ma non sono tutto.
Ieri, in mattinata, c'è stato l'omaggio più ufficiale alla Camera con la presenza di molti invitati di riguardo e del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Alle introduzioni di Pierferdinando Casini, presidente della Camera, e Mario Tronti, presidente del Centro riforma dello Stato che Ingrao ha diretto per molti anni, il festeggiato aggiunge la riflessione sugli anni passati a Montecitorio.
Ecco che racconta la scoperta del Transatlantico e dell'Aula quando era un giovane giornalista dell'Unità, poi l'esperienza da deputato con la convinzione che il Parlamento fosse il luogo della mediazione politica e del comune appartenere alla democrazia riconquistata, la curiosità – da presidente – per il rapporto tra Montecitorio e le assemblee elettive locali. Ma c'è il cruccio di una sconfitta subita proprio negli anni della sua presidenza: è l'assassinio di Aldo Moro, quando – ricorda amaramente Ingrao – "non riuscii a fare nulla per salvare quella vita". Infine, c'è un assillo: quell'articolo 11 della Costituzione ("L'Italia ripudia la guerra") che è stato violato più volte negli ultimi anni.
Casini, in chiusura, gli regala la "campanella" che i presidenti di Montecitorio usano per richiamare all'ordine l'Aula. "Grazie, molte grazie. La darò ai miei pronipoti, che sicuramente si divertiranno a usarla", dice Ingrao con il sorriso bonario del bisnonno.
I seguenti articoli (da Repubblica) sono stati inviati da Melina Sutton
Repubblica, Roma 31 MARZO 2005
AUDITORIUM
Da Foa a Scola applausi e note per festeggiare Pietro Ingrao
GABRIELE ISMAN
Novant´anni di «uno dei padri della sinistra» (Piero Fassino), «di un´esperienza esemplare» (Walter Veltroni), di una persona di «coerenza, onestà intellettuale, di rigore morale» (Vittorio Foa): festa affollata per Pietro Ingrao ieri pomeriggio all´Auditorium tra politica (Napolitano, Reichlin, ma anche Luigi Berlinguer, Nicola Zingaretti, Silvio Di Francia, gli assessori Borgna e Coscia), cinema (Lizzani e Maselli), cultura (Carla Fracci e Simona Marchini) e tanta gente comune. Tutti per Ingrao, che prima visita una mostra di quadri di Alberto Olivetti a lui ispirati e, nello spazio risonanze un´esposizione di foto e documenti aperta fino al 3 aprile. Poi il bagno di compagni, amici e di folla: Ingrao entra nella sala Santa Cecilia accompagnato dal presidente di Musica per Roma Goffredo Bettini, ed è la prima delle quattro standing ovation del pomeriggio.
Presenta Gad Lerner che parla di «un protagonista della storia del Novecento». Poi Luciana Castellina («in Ingrao lungimiranza e capacità d´ascolto»), e Luca Zingaretti. Gianni D´Elia racconta l´Ingrao poeta ed Ettore Scola si commuove parlando del politico che nel 1935 si iscrisse al centro sperimentale di cinematografia. Parla Veltroni: dagli auguri della Fiom di Scalfaro e Marrazzo ai novant´anni di vita e storia italiana, e un regalo. Poi un´intervista in video, dall´amicizia con Luchino Visconti al neorealismo e poi, finalmente, Ingrao sul palco: mezz´ora di riflessioni fra ricordi e moniti. «Stanno stracciando la Costituzione. Sono spaventato quando guardo Berlusconi» dice Ingrao: il novantenne ha ancora voglia di lottare. A seguire, concerto di pianoforte.
Repubblica 31 MARZO 2005
IL PERSONAGGIO
Duemila persone per lui all´Auditorium. "Quel comizio in Irpinia, con i contadini in lacrime..."
Ingrao, 90 anni e un sogno "Non fate mai più la guerra"
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - La commozione di Ettore Scola, una lettera vecchia di tredici anni che è una lezione di stile e di vita, gli amici di sempre. Tra tanti occhi lucidi, la voce più ferma e le parole più nette le pronuncia il festeggiato: Pietro Ingrao. «Non permettete che questa domanda venga cancellata: cos´è l´umano, cos´essere umano? - dice Ingrao - . Ho paura che mi venga tolta la Costituzione e con essa l´idea dell´umano perché sono spaventato ogni volta che vedo Berlusconi». Novant´anni compiuti proprio ieri, celebrati con una festa all´Auditorium di Roma, messo a disposizione dal suo presidente Goffredo Bettini, amico e allievo di Ingrao, destinatario di quella lettera del 1992. Si fa politica per difendere «gli umili e ancor di più gli offesi», scriveva Ingrao. La si fa per se stessi, prima che per gli altri, perché certe «sofferenze mi sono insopportabili».
Nella Sala Santa Cecilia, la più grande del complesso musicale romano, c´erano più di duemila persone. Tanti volti sconosciuti e tanti anche noti: Piero Fassino («Pietro è un simbolo»), Walter Veltroni, Sandro Curzi, Carla Fracci, Giorgio Napolitano, Aldo Tortorella, Vincenzo Vita e tanti altri. Ancora più numerosi sono i messaggi di auguri giunti all´ex presidente della Camera: quelli del suo nuovo segretario Fausto Bertinotti, di Achille Occhetto, di Piero Marrazzo, di Mussi, di Scalfaro, di Domenici e della Lorenzetti. Oggi la festa si trasferisce alla Camera dove Pier Ferdinando Casini e Carlo Azeglio Ciampi racconteranno il «loro» Ingrao.
Accompagnato dalla sorella, il vecchio Pietro visita la mostra allestita con il suo archivio dall´assessorato alla Cultura della Provincia di Roma. In un´altra sala, sono esposti i ritratti dipinti da Alberto Olivetti durante un soggiorno nel ritiro di Lenola, vent´anni fa. Ingrao dice che sulle grandi pareti dell´Auditorium hanno tutto un altro effetto. Tocca a Gad Lerner tirare i fili della serata, dal palco. Vengono lette alcune poesie scritte da Ingrao, Scola ricorda il politico strappato al cinema e si commuove raccontando un comizio del dirigente comunista ad Avellino, un episodio che assomiglia alla scena di un film: Ingrao, sul podio, descrive un contadino che si toglie la coppola davanti al padrone e il figlio, accanto a lui, sta per fare lo stesso. Ma qui Ingrao inserisce il colpo di scena e urla "No". I contadini irpini piangevano in quella piazza e anche Scola ha un groppo in gola, adesso: «"Nessuno è solo", disse Pietro quella sera».
Ma Luciana Castellina non ci sta a celebrare solo l´Ingrao letterato oppure cineasta mancato per un soffio. E il politico? «Avanzò le critiche più dure all´Urss e al partito - dice - . Ogni volta che bisognava prendere una decisione ci chiedevamo: cosa farà Pietro. E oggi i no global lo amano». Veltroni racconta di un pranzo di qualche giorno fa in Campidoglio. «La sua vita è un´esperienza esemplare - sono le parole del sindaco - . Lo dobbiamo ringraziare per la scelta che ha permesso al Paese di risorgere, per la difesa della Costituzione che gli italiani sapranno preservare». Ingrao è seduto in prima fila e prende appunti, come se fosse a un congresso, non a una festa. Quando sale sul palco si fa silenzio: «La Resistenza è stata la cosa migliore che ho dato al Paese - dice - . Ma noi pensavamo che quella guerra fosse l´ultima e invece... Facciamo di tutto per opporci alla strappo della Costituzione e soprattutto dell´articolo 11 in cui si ripudia la guerra. A voi realizzare questi sogni». Ancora occhi lucidi. E applausi.
Repubblica 30 MARZO 2005
Ingrao: "il mio Chaplin"
Intervista al dirigente comunista che compie oggi novanta anni
MARIO SESTI
"La pellicola che preferisco? Quella di ‘Luci della città´, soprattutto per il suo finale straordinario, così allusivo e assoluto"E´ vero che lei ha dovuto rinunciare alla sua passione per il cinema a causa della lotta contro il fascismo? E´ vero che da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato tirato dentro la battaglia politica "a forza"?
Da ragazzo amava forse più il cinema della politica. Ora ricorda che quando nel ´36 voleva fare il regista, l´antifascismo divenne più importan
"Anche ‘Paisà´ e ‘Ladri di biciclette´ riescono quasi a fare a meno delle parole"
"L´ultimo titolo che mi ha colpito è ‘La sottile linea rossa´ dell´americano Malick"
«C´era stato l´attacco alla repubblica spagnola e da quel momento ho iniziato a vivere l´esperienza dell´iniziazione alla politica antifascista. Quello è stato per me un crinale decisivo. Mi ricordo quel luglio terribile del ´36, quando è scoppiata l´insurrezione di Franco, e abbiamo visto l´avanzata del fascismo che oramai si dispiegava ovunque. Sono cominciati degli anni terribili e a quel punto, per usare una frase di rito, sono cambiati i libri sul mio tavolo. Io che avevo fatto il primo anno di studio di cinema al Centro Sperimentale, e volevo fare il regista, ho ceduto - ma ceduto non è davvero il verbo giusto - alle pressioni dei miei compagni che già erano più avanti nella cospirazione. Uno fra tutti, Antonio Amendola. Sono apparsi altri libri, è cominciato il mio impegno nella politica e allora il cinema è rimasto un amore».
Quando è che ha un po´ lasciato da parte il cinema e non l´ha più seguito con la stessa assiduità? Per quale ragione?
«La vecchiaia. Io sono molto, molto anziano. Ma ho scritto più volte di cinema e presumo di capire più di cinema che di politica».
Se dovesse citare i film che più amato, i pezzi di cinema che più le sono rimasti impressi e che più hanno contato nella sua vita, quali film o autori le verrebbero in mente?
«Uno, prima di tutti. Chaplin. E un film soprattutto: Luci della città. Non è forse il più bel film di Chaplin, forse Tempi moderni è più bello, però Luci della città ha un finale straordinario: quando la ragazza cieca ritornata guarita dall´America, rincontra il vagabondo che passa per la strada, ridotto proprio male. Lui resta colpito da questa apparizione improvvisa e lei lo riconosce, ma non con gli occhi, perché non l´ha visto mai. E come? Spolverando, toccando leggermente la giacca del vagabondo. Non c´è nulla di parlato ma l´intera, breve sequenza, mi sembra di una estrema, grande allusività. In pochi, muti attimi, passano tante domande sulla vita e una capacità del cinema di essere cinema assoluto, puro, senza una parola. Poi, per il cinema italiano, mi viene in mente Paisà. L´episodio finale, quello della lotta partigiana nelle paludi. Anche lì, non c´è quasi parola, i personaggi non si parlano, avviene tutto per cenni, in uno sterminato silenzio. Non solo mi sembrava il più bello di tutto il film, ma una delle cose migliori di Rossellini: un pezzo di cinema straordinario che mi riportava a questa idea del cinema come immagine, e poi insomma, come a dire, parlava della guerra senza parlarne. E´ uno dei momenti del cinema neorealista che ancora stavano parecchio dentro l´estetica del cinema che avevo in testa io, prima dell´avvento del sonoro.
«E poi il finale di Ladri di biciclette, quando il personaggio, dopo il furto della bicicletta, viene assediato dalla folla e lo vogliono ammanettare. C´è quella scena molto bella in cui il padrone della bicicletta lo guarda in faccia come a dire "ma questo è un poveraccio come me". Allora lo lasciano andare. E c´è una sequenza brevissima, in cui il padre e il fanciullo si danno la mano e rimangono soli con tutto il mondo intorno. Un pezzo di efficacia straordinaria: che un po´ anche mi sorprese, all´epoca, perché, sapevo che De Sica aveva tante qualità ma non sospettavo possedesse quella vena struggente. Quello, diciamo così, in un museo delle cose più belle del cinema, io lo ritaglierei e poi lo metterei in un quadro come icona, insieme a Luci della città e a Paisà».
Qual è l´ultimo film che ha visto in sala dal quale è rimasto colpito?
«Quel film di quel regista americano sulla guerra in Giappone, come si chiama. La sottile linea rossa, di quel regista americano».
Terrence Malick
«Sì. C´era una bellezza singolare che non era tanto nella storia, anzi, la rappresentazione dei soldati mi sembrava piuttosto usuale. Non era quello che determinava la qualità del film. Però nella rappresentazione del paesaggio, c´erano dei pezzi che mi sembravano straordinari. C´è tutta una parte del film cui si vedono solo le vampe delle cannonate e poi il modo in cui fa vedere quelle colline presso cui si svolge tutta la battaglia.
«Ecco, lì c´è un´idea, una rappresentazione della guerra che mi sembra di grande forza. E anche, direi, più semplicemente, di grande malinconia poetica. Anche se, quando poi fa parlare i personaggi, il film diventa più convenzionale. Però l´uso di quel sonoro e quelle immagini mi sembrarono davvero notevoli».
Pensa ci sia un rapporto tra il cinema e la poesia (che è un´altra sua grande passione)?
«Sono due linguaggi diversi anche se sono tutti e due riconducibili a quell´idea che chiamiamo arte. Poi cosa sia l´arte, ci sono biblioteche intere che se lo chiedono. Però i due linguaggi sono molto diversi, mi sembra. La poesia, diciamo così, è una musica più segreta, più sottile. Tornando a quell´episodio di Luci della città, insomma, è più importante lo sguardo di Chaplin o il modo con cui la mano di lei tocca la giacca del vagabondo, la capacità del cinema di possedere un´allusività molto forte. Che spesso non è riconosciuta, perché il cinema viene letto come copia del reale. Sembra che la sua qualità stia nella quantità di realtà che può riprodurre. Invece è una bugia, perché non è così. Per me, almeno. Però la poesia ha qualcosa di diverso, qualcosa in più, che è la musica. Mentre nel cinema, tutto sommato, anche nelle scene più intense, più raccolte, più intime, beh, noi quello che vuol dire lo vediamo. Più che ad un verso, corrisponde ad un parlare scandito. Qualcosa che si vede, qualcosa che quasi lo tocchi con la mano».
Senta, le posso chiedere se c´è un film che più di altri ha raccontato il mondo della politica in maniera più autentica? Lei, spesso, quando ha parlato della politica, ha parlato della sua fatica, la fatica di dover comunicare, di dover parlare, di dover incontrare persone, eccetera. Per esempio, lei ha scritto di avere una grande ammirazione per le persone che sanno parlare a tantissime altre e nella sua vita le è capitato spesso di incontrarne e di essere lei stesso una di queste persone. Questo piacere o questa fatica della politica, le sembra siano state raccontate in un film?
«Mi pare proprio di no. Ho parlato da qualche parte di qualcosa che sembra un dato molto esteriore della politica: il comizio. Tu sali su un palco, hai dinanzi, come ce le ho avute io molte volte, la piazza piena di gente, a volte strapiena di gente. E un po´ una sceneggiata, un atto teatrale. I saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l´involucro. Poi comincia invece una cosa molto più difficile e più profonda: tu che stai là sopra, riuscirai a comunicare veramente, cioè a interessare quelle persone, che a volte sono migliaia, a volte sono molte migliaia, molto diverse, grandi, piccoli, bambini? Lo scopri solo se c´è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e t´accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento t´accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchier d´acqua, soffiarti il naso o non fare nulla e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che s´è creato un filo, una comunicazione, un legame tanto forte quanto impalpabile tra te e la massa di persone che ti stanno ad ascoltare».
Un po' come al cinema
«Eh, forse».